Cinquant’anni
di Giornata della Terra. A ricordo di una delle più grandi
manifestazioni popolari di sempre, quando il 22 aprile 1970 venti
milioni di Americani – il dieci per cento della popolazione
statunitense di allora – si riversò in strada per protesta contro
i danni ambientali da perdite di oleodotti, smog, inquinamento
fluviale e pesticidi. Fu un’iniziativa vincente, che portò in Nord
America alle prime leggi di difesa dell’aria e dell’acqua. Ma poi
l’ambientalismo invece di evolvere come garanzia di salute e bene
comune è stato via via considerato un ostacolo alla crescita
economica, un fastidio per caccia, pesca, agricoltura, allevamento,
deforestazione, motocross… Perfino il sindacato quando ha visto
negli anni Ottanta che le norme ambientali potevano minacciare lavoro
e salario, ha spesso privilegiato questi ultimi rispetto alla salute
dei lavoratori e dell’ambiente. Il resto, in Italia, è storia
nota, dall’Eternit di Casale all’Ilva di Taranto alle colate di
cemento su coste e pianure, tutta roba venduta come ottima crescita
economica che oggi rivela danni irreversibili. Gli ecologisti sono
spesso disprezzati come snob lontani dalle esigenze di chi produce (e
inquina). È vero, talora hanno fatto sbagli, ma il problema è che
oltre agli ecologisti, si dovrebbero ascoltare gli ecologi, insieme a
climatologi, zoologi, biologi, oceanografi, glaciologi, idrologi,
geomorfologi, il complesso disciplinare delle Scienze del Sistema
Terra (ESS, Earth System Sciences). Non sono però figure di
riferimento della politica, che sceglie invece gli economisti.
Chi
avverte del rischio ambientale è un guastafeste, al limite gli si
lascia un ruolo decorativo, che non disturbi troppo le attività
urbane e industriali. Gli scienziati dell’ambiente hanno anche
scelto la via della militanza e dell’impegno civile, ma in questi
cinquant’anni non hanno ottenuto granché. Penso alla capostipite
–la biologa americana Rachel Carson – con il libro denuncia
contro i pesticidi Primavera silenziosa del 1962, al grande
matematico naturalizzato francese Alexander Grothendieck che rifiutò
premi e medaglie accademiche e già nel 1970 si ritirò dalla ricerca
di punta per protestare contro l’uso militare che se ne faceva e la
distruzione ambientale che emergeva da una scienza priva di etica. E
più recentemente a Jim Hansen, climatologo che si è fatto arrestare
nelle proteste americane contro il carbone. Nel frattempo le evidenze
scientifiche della crisi ambientale sono diventate inequivocabili, le
Nazioni Unite hanno costituito organi e commissioni, indetto
conferenze internazionali che ancora non portano a provvedimenti
concreti di riduzione dell’impatto ambientale globale. E se la
maggior parte degli scienziati fino a qualche anno fa ha presentato
dati terribili nello stile sterile e asettico per addetti ai lavori,
noto ora che – sia per l’avvento di nuove generazioni di
ricercatori, sia per la frustrazione di perdere tempo prezioso di
fronte alla catastrofe incombente – le pubblicazioni scientifiche
si sono fatte più preoccupate, più drammatiche, più urgenti. Ma è
scienza sprecata. Abbiamo sempre più dati che confermano la malattia
della Terra, e non li consideriamo, rifiutando di applicare una cura.
Ovviamente non riusciamo a cogliere l’aspetto più importante: chi
ci rimette è prima di tutto la specie umana, non si tratta di
salvare a priori la natura terrestre, ma di garantire il mantenimento
delle condizioni ottimali per la nostra vita. Quest’anno il tema
della Giornata della Terra è l’azione per il clima. La lotta al
riscaldamento globale, la più grande sfida per il futuro
dell’Umanità e della biosfera, richiede l’impegno di politica e
cittadini. Non si può scendere in piazza a manifestare, ma possiamo
riflettere sull’intelligenza ecologica del dopo-virus.
Luca
Mercalli (F.Q. 22 aprile 2020)
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