20/09/08

ALITALIA OGGI, ITALIA DOMANI


L’Alitalia non è una compagnia aerea, è un’espressione geografica. Se l’Italia non esiste, perché l’Al-Italia, con quel nome, dovrebbe continuare a esistere? Ha avuto amministratori delegati finti, messi lì, a turno, negli ultimi quindici anni dallo psiconano e da Valium Prodi. Amministratori che hanno distrutto la società per conto terzi e incassato milioni di euro di stipendi e di liquidazioni per la fedeltà al padrone. Il mercato di Al-Italia è finto, equivale a una tratta, la Milano-Roma, con prezzi pari a Milano-New York. I suoi dirigenti (quanti?) sono finti, sono portaborse, amici, parenti dei politici. Fatti assumere. Parcheggiati in Al-Italia come in un hangar. I sindacati nazionali rappresentano sé stessi, hanno difeso i privilegi (i loro) e tradito i dipendenti. Hanno creduto (?) alle promesse elettorali di Testa d’Asfalto e alla cordata italiana. Quali contropartite hanno avuto per far fallire la trattativa Air France? I salvatori di Al-Italia sono finti. Gente spesso condannata, inquisita, sotto processo. Nelle loro mani l’oro diventa merda e la merda si trasforma in plusvalenza. Expo 2015, le tariffe autostradali e nuove aree edificabili sono merci di scambio. Ligresti, Benetton, Colaninno, Tronchetti. Sanno meno di niente di aerei, ma i loro conti li sanno fare bene. Al-Italia è un paradigma, una metafora dell’Italia. E’ in bancarotta e senza una lira. Una linea del Piave che passa da Fiumicino. Se salta Al-Italia può saltare tutto. Per questo è così importante. Chi ha ridotto l’Al-Italia così? Partiti e sindacati. Gli italiani hanno la risposta sulla punta delle lingua. Sanno chi è stato, ma non gli vengono ancora le parole. La bancarotta dell’Al-Italia è un sintomo e un preludio del fallimento del Paese. I partiti e i sindacati ne sono a conoscenza. Se i libri finiscono in tribunale i responsabili dovranno rispondere. Che fallisca allora l’Al-Italia e si apra un pubblico processo contro chi l’ha distrutta. A partire dai presidenti del Consiglio presenti e passati.

Beppe Grillo

19/09/08

LO ZELO DI M.F.


L’ottimo e ubiquitario Mario Felicetti, principe del giornalismo locale, direttore delle più importanti fonti d’informazione fiemmesi, questa volta dalle patinate pagine della rivista aziendale Crescere Insieme, ci ricorda che ai mondiali del 2013 mancano sì 5 anni, ma che il tempo vola. E che dunque è importantissimo muoversi.
Abbiamo la netta impressione di avere già sentito (da una o da tutte le anzidette fonti) questo premuroso refrain: precisamente qualche anno prima del 1991 e qualche anno prima del 2003. Ora, per la terza volta Felicetti ci ripropone la solfa: “Ci si affretti, i mondiali sono dietro l’angolo, la valle si mobiliti per arrivare pronta all’appuntamento!
Domanda: ma se al primo appuntamento del 1991 la valle pronta ci è arrivata, e immediatamente dopo se ne è magnificata lungamente la bella figura fatta al cospetto del mondo intero, com’è che a un certo punto, qualche anno prima di ogni nuovo appuntamento (2003, 2013) essa si ritrova immancabilmente non più pronta? Come mai quella indefinibile qualità si guasta, decade, sparisce? Magari – pensiamo noi – per mantenere quella “prontezza”, tra un mondiale e l’altro, basterebbe tutelare la valle seriamente dai danni (leggasi speculazione edilizia) che proprio quegli appuntamenti, direttamente o indirettamente, le procurano. Ma forse non capiamo. E allora chiediamo: che cosa significa arrivare pronti all’appuntamento? Cosa manca questa volta ancora? Chi capisce ciò che manca e decide di procurarlo? Un comitato di salute pubblica o un comitato d’affari? Ce lo dica, signor Felicetti. Da qualsivoglia fonte, scelga lei. Una volta tanto sarebbe importante che, oltre agli slogan, facesse anche i nomi e i cognomi dei mandanti e dei mandatari di tali nuove urgenze infrastrutturali e dicesse il perché e il per come, in modo chiaro e definitivo.
Noi restiamo in attesa di una esauriente risposa. Ma faccia presto, il 2013 è alle porte.

L’Orco

17/09/08

É FINITA LA CUCCAGNA!



“E’ arrivata la Carfagna
e finisce la cuccagna
di cercare per la strada
la battona che ti aggrada:
è social e grave allarme
e potrà qualche gendarme
arrestar te e la battona,
la Carfagna non perdona.
Anche il solo avvicinarti
la galera può costarti,
poiché la prigione arriva
pure per la trattativa.
Ma se, invece, in un alloggio
di virilità fai sfoggio,
puoi scopar senza paura.”
Questa legge ci assicura
che in un bell’appartamento
non esiste sfruttamento,
non c’è l’ombra di minaccia
di lenoni e di magnaccia.
Soprattutto non si vede
e per gli uomini di fede
non veder che la dan via
è una vera garanzia
di rigor e austerità.
In Italia, ben si sa,
si può sol fare i guardoni:
tutte le televisioni
mostran chiappe, culi, tette.
Le veline e le soubrette
il cul muovono con smania.
Miss Italia e Miss Padania
son mercati di pulzelle,
molto spesso neanche belle,
con le madri pronte a tutto
purché qualche farabutto
le indirizzi alla carriera
di velina o ereditiera,
di valletta o letterina,
primo passo sulla china
di chi poi la darà via.
“Guarda qui la figlia mia!”
E poi parlano di orrore
per l’amor col contatore,
di social allarme se
la prostituzione c’è.
“Io che son donna illibata
e ministra assai impegnata
odio la prostituzione,
non capisco le battone
che la danno per quattrini!”,
dice quella che in bikini,
e per nulla castigato,
col suo corpo ha commerciato
tempo fa in fotografia.
Questo ha un nome: ipocrisia.
E che differenza c’è
fra scopare in un coupé
o nel chiuso di una stanza,
come vuol la maggioranza?
Fra scopare in un boschetto
o con due puttane a letto
nella suite dell’Hotel Flora,
con la coca che lavora?
Fra concederla per via
o scopar con frenesia
su un sofà alla Farnesina,
come quella birichina
che, passando per la Rai,
diventata è ricca assai?
Ed infin facciam due conti:
se corrette son le fonti,
i clienti sporcaccioni
son più o men nove milioni,
metà a casa, metà in strada,
come media par che vada.
Li processan tutti quanti?
In prigion coi lestofanti
vanno tutti i puttanieri?
Ma ci sono i carcerieri,
le prigioni, i magistrati,
i caramba e gli avvocati
per più o men cinque milioni
di battone e sporcaccioni?
Non per tutti esiste un lodo
per il qual restano ammodo
pur se scopan per la strada…
Finirà che la masnada
ai domiciliari andrà.
E Carfagna che farà?
Gli apporrà sui genitali
gli elettronici bracciali.

Carlo Cornaglia

16/09/08

CONSIGLIATO AI CONSIGLIERI COMUNALI DI TESERO


E chi, in tempi in cui tutto si muoveva con la massima velocità, poteva continuare a girare in bicicletta?
Morvàn infatti usava questo mezzo anche per gli appuntamenti d’affari più importanti. Il fatto di consumare più tempo non lo preoccupava per niente, perché la bici era il suo sport giornaliero. Gli altri industriali giocavano a golf, cavalcavano, correvano sui campi rossi da tennis, frequentavano la palestra ogni tre giorni. Lui andava in bicicletta, perdendo meno tempo dei suoi colleghi e con maggior vantaggio per il suo fisico.
Non v’era nessuno, ormai, che riuscisse a opporsi al fascino delle nichelature e dei brillii di un’automobile nuova. Tutti finivano per capitolare e acquistarla, perché senza automobile si sentivano ridicoli, poveri, handicappati, sforniti di qualcosa, come fossero scalzi o privi di una mano, come Muzio Scevola. L’automobile ormai adescava più delle prostitute. Era una puttana di lamiera, ben dipinta e truccata come le passeggiatrici, in armonia con i tempi e con la civiltà delle macchine. Seduceva la gente di ogni sesso e di ogni età. Se tutte le persone normali ce l’avevano, non possederla era una grave deficienza.
Le auto avevano cominciato a invadere il mondo non soltanto da vive ed efficienti, ma anche da morte. Quando non funzionavano più e il proprietario si affrettava a comprarne un’altra, spesso venivano spinte in un campo non coltivato, ossia pustòt, dove avevano giù cominciato a formarsi dei mucchi di carcasse. (…)
Morvàn si aspettava che, al punto in cui erano aumentate, il loro numero si sarebbe finalmente stabilizzato, tanto più che la popolazione non cresceva. Ma non era così. Ogni luogo ne straboccava. Ogni viale e ogni piazza erano gremiti di auto. Non era più possibile avere un’idea architettonica pulita della città, perché ogni luogo, qualunque fosse, era intasato da un numero sterminato di automobili fredde e spente, che stavano lì ad aspettare.
Ognuna di esse occupava lo spazio di trenta uomini, e proprio per questo dappertutto vie, piazze, piazzette, campielli, vicoli, v’era la sensazione di mancanza di spazio e quasi di soffocamento. In ogni crocicchio e ad ogni semaforo vi era un puzzo persistente di gas e di benzina bruciata, che distruggeva tutti gli odori della vita, come quelli del pane, del vino o dei fiori.
Poiché le auto erano tante, ferme o in movimento, spesso qualcuno si proponeva di risolvere il problema del traffico aumentando le strade. Così cominciavano i grandi lavori, ma alla fine di essi il problema della viabilità era sempre peggiorato rispetto all’inizio. Nel loro vano inseguimento al numero delle auto, strade, viadotti, ponti, superstrade, rotonde, svincoli avevano sempre perduto la partita. Erano di nuovo intasate perché nel frattempo le auto erano aumentate molto di più. Ogni spazio che veniva regalato alle automobili non produceva altro effetto se non quello di farne aumentare il numero. (…)
Iniziarono i lavori per l’edificazione di un grande parcheggio sotterraneo. Era vicino a una chiesa medioevale dove aveva predicato sant’Antonio da Padova, uno dei grandi alleati di Alvise Marcolìn. Molte ruspe con le mandibole di ferro strapparono la terra. C’era un viavai ininterrotto di autocarri che la portavano via per buttarla in qualche letto sassoso di fiume. Vi si lavorava anche di notte, alla luce delle fotoelettriche, per riuscire a finire il lavoro a tempo di record.
Era un cantiere immenso e babelico, con una certa confusione di linguaggi perché vi erano anche operai arabi, jugoslavi, filippini, turchi. Era un’opera avversata dalla maggior parte dei cittadini i quali, pur amando la comodità, non erano ancora giunti a desiderare di scendere con la propria automobile nel ventre di Udine. Tutto il lavoro dell’immenso formicaio era sentito come una violazione del sottosuolo urbano. (…) Nonostante tutte le opposizioni, aperte o in pectore, che in qualche maniera ricordavano quelle della repubblica proclamata in altri secoli dagli abitanti di Buja, in polemica con i padroni veneziani, il parcheggio fu presto finito. I posti macchina somigliavano a loculi nelle colombaie del cimitero di san Vito, ma molto più grandi, e occupati da bare di metallo che si muovevano da sé. Subito dopo l’inaugurazione del posteggio ci si accorse che il numero delle auto circolanti per le antiche vie della città, anziché diminuire, era aumentato.
Molti pedoni adesso erano stati riconvertiti in automobilisti, e l’epidemia continuava a crescere di livello. La città seguitava a soffrire di quella pestilenza crescente, senza mai arrivare al punto della morte definitiva.

Tratto da “Il Patriarcato della Luna” di Carlo Sgorlon

15/09/08

11/9 E WARFARE: IL CAPOLAVORO DI BUSH

Possiamo ora valutare in tutta la sua portata l’11 settembre, una scelta difficile per l’amministrazione USA. Bisognava fronteggiare una grave recessione iniziata sei mesi prima, a marzo del 2001 (fu resa nota ufficialmente solo a novembre). Grave al punto che l’Economist scriveva che “i profitti sono al livello più basso da mezzo secolo a questa parte, e la capacità produttiva è per il 25% inutilizzata come negli anni ’30”. Dopo il crollo del Nasdaq, Greenspan aveva tagliato più volte i tassi di interesse ma l’economia non si era ripresa. Rivelatosi inefficace ogni altro intervento, Morgan Stanley scriveva alle 8,00 dell’11 settembre che “solo un atto di guerra” poteva salvare il dollaro e l’economia. Alle 9,00 crollavano le Torri: cominciava così la gestione militare del ciclo economico, questa volta nelle mani dello staff dei Bush, che avrebbe condotto il capitalismo USA rapidamente fuori dalla crisi confermando, ancora una volta, la sua efficacia.
Prima di tutto perché l’annuncio della guerra e dell’enorme spesa militare ha bloccato il precipitare della Borsa che stava per crollare, ridando vigore alla domanda e riavviando la ripresa. Poi perché si è ottenuto questo risultato non con una guerra mondiale dopo un decennio di rovinosa depressione, come era avvenuto dopo il ’29, ma con un numero di morti trascurabile se paragonato a quello delle guerre mondiali, e dopo solo sei mesi di recessione.
Insomma l’11 settembre, rimossa la retorica della versione ufficiale si rivela in realtà come il capolavoro dei Bush.
Peccato però che non possano vantarsene.
Perché è inconfessabile non solo l’operazione in sé, è inconfessabile l’instabilità del capitalismo, inconfessabili sono le interne contraddizioni di un modo di produzione irrazionale che tende costantemente alla depressione, che può ridurre sul lastrico milioni di persone. È inconfessabile dunque che il vero nemico che rode dall’interno l’impero sia la crisi economica.
Per questo è necessario che le crisi siano addebitate non a cause endogene, ma alle minacce di nemici esterni. I media e i politici hanno perciò ripetuto per anni che l’11 settembre era stato la causa della crisi economica.
Mentre in realtà ne era il rimedio. Naturalmente gli addetti ai lavori sapevano come stavano le cose. Per esempio l’Economist del 20 ottobre 2001 scriveva che la crisi “non deriva dal terrorismo, ma dagli squilibri economici e finanziari dei tardi anni Novanta”. E Lester Thurow dichiarava sul Il Sole 24 ore del 24 ottobre 2001 che il “99,9% dell’attuale crisi economica era già in corso, anche se ora tutti danno la colpa al terrorismo”.
La crisi economica dunque è sempre stata e continua ad essere il vero inconfessabile nemico. Ma per valutare appieno l’efficacia e l’importanza che ha avuto l’11 settembre per il capitalismo USA, bisogna compararlo con i modi in cui venivano affrontate in precedenza queste crisi.
Nell’800 le crisi i sovrapproduzione erano devastanti ed estese. Venivano superate quando i fallimenti una buona parte dei capitali, permettendo ai capitali superstiti di ritrovare un mercato. Ma perché, invece di attendere la distruzione dei propri, non andare a distruggere i capitali degli altri, prendendo loro i mercati, le colonie, le risorse? È quello che avvenne con la prima guerra mondiale. “Il ciclo economico,” ha scritto Paul Mattick “era diventato un ciclo di guerre mondiali.” Ma non si può fare una guerra mondiale tutte le volte che torna la crisi e nel ’29 non fu possibile. Tuttavia negli anni ’30 si sperimentò un rimedio già noto nell’800. Rosa Luxemburg aveva dato la prima formulazione teoricamente compiuta della funzione economica del militarismo. In un saggio del 1898, con preveggente chiarezza, la descriveva come una forza “impulsiva, propria, meccanica, destinata a rapida crescita”. In polemica con Bernstein dimostrava che le spese militari erano indispensabili al capitalismo, perché costituivano un mercato addizionale per assicurare alla produzione una nuova domanda più regolare, con un ritmo di sviluppo costante. Spese che erano promosse dagli stessi capitalisti tramite l’apparato parlamentare e la manipolazione operata dalla stampa. Un tema ripreso da Gramsci che nel ’17 denunciava “le trame dei seminatori di panico stipendiati dall’industria bellica che dalla guerra ci guadagna”. Oggi lo chiamerebbero complottiamo: si trattava invece di una lucida analisi del militarismo che ha dominato il ’900, keynesismo militare prima che lord Keynes concedesse questo nome.
Lo stato insomma impedisce la distruzione di capitali indebitandosi col settore privato, ne assorbe la sovrapproduzione. Negli anni ’30, dopo qualche esperienza di spesa pubblica in Svezia, furono in particolare le spese militari a favorire la ripresa in Gran Bretagna ma soprattutto nella Germania nazista, quando nel 1934 lo stato emise le cambiali Mefo, che finanziarono il riarmo e rilanciarono in poco tempo l’economia: scadevano nel ’39, ma nel ’39 Hitler entrò in guerra.
Gli USA invece privilegiarono la spesa pubblica civile che si rivelò meno efficace di quella militare. Infatti non riuscirono a superare la depressione fin quando la spesa militare per la seconda guerra mondiale rilanciò l’economia già nei primi mesi di guerra. E questa fu un’esperienza che ha segnato profondamente la successiva gestione dell’economia: entrati in guerra nel 1941, tra guerre calde e fredde non ne sono più usciti. Gli USA insomma sperimentarono che la ripresa avviene già con la spesa pubblica militare, cioè prima della vittoria, prima di aver distrutto i capitali degli altri, prima di aver sottratto loro i mercati.
Per questo, per fronteggiare una sovrapproduzione permanente, gli Stati Uniti hanno organizzato la guerra permanente, per giustificare un flusso di spese militari permanente. Che assicura un ulteriore importante vantaggio, perché le armi così prodotte consentono di dominare i mercati, le risorse, i campi di investimento.
Questa capacità militare senza precedenti crea tuttavia non pochi problemi ai media, costantemente impegnati a costruire nemici dalle capacità apocalittiche, perché la guerra permanente, cela va sans dire, deve durare e quindi non deve essere vinta.
La Guerra Fredda è durata quarant’anni e quando è finita il russo Arbatov ha osservato che “l’atto più ostile contro gli USA è stato sottrargli il nemico”. Ma “qualcuno dovrà pur fare il nemico” ha avvertito Henry Kissinger. Si annuncia così la “guerra globale al terrore” che secondo il Pentagono dovrà durare venticinque anni. “L’anticomunismo ci era piaciuto? L’antislamismo vi entusiasmerà” ha concluso su Le Monde diplomatique Ignacio Ramonet.

Enzo Modugno tratto da “ZERO – perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso

INCANTO NOTTURNO

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Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

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Bepi Zanon

TESERO 1929

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Foto Anonimo

PASSATO

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Foto Orco

ANCORA ROSA

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Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

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foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

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LA BAMBOLA SABINA

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LA VAL DEL SALIME

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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

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