21/03/08

AGNUS DEI


http://it.youtube.com/watch?v=j6KQZRfQ5oQ


Il vero agnello di Dio è il Cristo, questo si sa . Dietro alla sua risurrezione ideale ogni anno c'è una strage reale immane. Se il sacrificio pasquale dell'agnello è soltanto un simbolo del sacrificio di Cristo perchè perpetrare ancora questa mattanza pasquale di innocenti? Se l'agnello non è il vero corpo di Cristo, ma soltanto un simbolo, come lo è l'ostia nell'eucarestia, perché in conformità al comandamento "non uccidere", non sostituire la carne d'agnello con un pasto d'origine vegetale conferendo ad esso il medesimo significato? Perché di fronte a queste morti non siamo capaci di sentirci in colpa? Forse la tradizione è più potente dei nostri sentimenti? Come avviene che un ingiustizia, non ancora riconosciuta come tale dai più, reiterata nel tempo, cessi di essere un'ingiustizia, assumendo il nome di consuetudine? Forse perché un agnello, confezionato, ammucchiato nei refrigeratori del supermercato, che non bela più, che non sta più ritto sulle zampe, che non ha più occhi per guardarci, non può più ricordarci chi siamo? Questo è l'interrogativo da porre ai credenti.

20/03/08

CRIMINALE DI GUERRA


Oggi ricorre il quinto anniversario dell’inizio della seconda guerra del Golfo. Quella scatenata dagli Stati Uniti d’America contro l’Iraq. È di qualche giorno fa la conferma ufficiale del Pentagono dell’inesistenza di collegamenti tra Saddam Hussein e Al Qaeda, l’organizzazione terroristica ideata da Bin Laden. Ricordiamo, per i dimentichi abitatori di questo opulento e ridicolo Primo Mondo, che i pretesti addotti dal signor Bush per giustificare l’attacco all’Iraq erano due: quello testè citato e smentito proprio dal Pentagono e quello che si riferiva alle cosiddette armi di distruzione di massa che sarebbero state prodotte dagli iracheni e stoccate in nascondigli segretissimi. Questa seconda motivazione fu miseramente smentita dagli ispettori ONU guidati da Hans Blix già prima della scadenza dell’ultimatum concesso a Saddam e del successivo attacco all’Iraq. Sempre ai dimentichi e giulivi abitatori del Primo Mondo ricordiamo anche come per i media occidentali, stampa, radio e televisione (la quasi totalità di essi), fu facile darla a bere a tutti noi, superficiali, crassi e pasciuti benpensanti occidentali e dare credito alle false prove della colpevolezza del tiranno Hussein, costruite in quattro e quattr’otto da Bush e compagnia. A cinque anni esatti anche i più esagitati tifosi degli USA – date le indiscutibili e inconfutabili fonti di cui sopra – possono dunque finalmente ricredersi: è stato tutto uno sbaglio! Un piccolo sbaglio (l’ultimo di una lunghissima catena di sbagli perpetrati dagli Stati Uniti) che oltre a eliminare il diabolico Saddam Hussein (impiccato, dopo un sommario processo farsa, il 30 dicembre 2006) ha fatto sparire, sino ad oggi, dalla faccia della loro terra qualcosa come 700.000 inermi e incolpevoli civili iracheni. Se esistesse la Giustizia e l’Informazione fosse effettivamente libera, a questo punto i media (tutti) di tutto l’Occidente dovrebbero chiedere a gran voce che tutti i governi rappresentati presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite formalizzassero agli Stati Uniti la richiesta di estradizione del loro comandante in capo, il Tiranno Rex G.W.Bush, per condurlo al cospetto della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja e processarlo per direttissima per crimini contro l’Umanità.
Ma tranquilli, così non accadrà. E con le nostre coscienze ben sopite potremo pacificamente continuare a vivere nel migliore dei mondi possibile.

L’Orco

19/03/08

LA FINE DI UNA STORIA


L’idea di progresso così come modernamente la intendiamo, era estranea alle culture classiche, greca e latina, e alle antiche civiltà orientali e mediorientali. Esse vivevano soprattutto nel presente, erano sostanzialmente astoriche. Fu il pensiero giudaico-cristiano a introdurre un elemento del tutto nuovo postulando un fine verso cui si dirigerebbe l’intero processo storico: l’attuazione del disegno di Dio attraverso la vicenda umana. Nasceva così la concezione teleologica della Storia. Questa teleologia fu ripresa in chiave non più religiosa ma mondana, epperò ancora più ottimistica, dall’Illuminismo. “La Storia – scrive Carr – fu concepita sotto forma di evoluzione progressiva avente per fine la migliore condizione possibile dell’uomo sulla terra”. Hegel e Marx precisarono il fine e i mezzi per raggiungerla. Il fine era, per entrambi, la realizzazione della libertà, il mezzo era lo Stato moderno per Hegel, la società senza classi per Marx. Per i liberaldemocratici di oggi, che fanno coincidere scopo e mezzi, il fine, e la fine, della Storia è la democrazia.
È sorprendente che una simile visione fideistica e messianica della democrazia si sia affermata in un’epoca come la nostra, in cui anche una “scienza esatta” come la fisica è stata costretta ad ammettere che non ci sono certezza assolute né verità oggettive e che la conoscenza di ogni fenomeno dipende dal punto di vista e dalla posizione dell’osservatore (ma già Nietzsche – e dopo di lui l’empiriocriticismo di Mach e Avenarius – aveva avvertito che non esiste la realtà ma solo le sue interpretazioni).
Il pensiero che la Storia finirà semplicemente perché l’uomo si è dato un certo assetto politico e sociale è innanzitutto ridicolo e infantile proprio alla luce della Storia. Quasi tutti i regimi politici hanno pensato di sé più o meno negli stessi termini. Sembra rendersene conto persino Fukuyama quando scrive: “Anche altre epoche, meno riflessive della nostra, hanno pensato di essere le migliori”. Poi però aggiunge: “Ma noi siamo arrivati a questa stessa conclusione stanchi, per così dire, dell’aver cercato alternative che secondo noi dovevano essere migliori della democrazia liberale”.
Anche la democrazia liberale, nonostante i deliri di immortalità dei suoi ultrà, farà la fine di tutte le costruzioni umane, che sono per loro natura caduche. In particolare quelle politiche che si sono dimostrate assai più fragili e transuenti delle religiose, proprio perché, a differenza di queste devono misurarsi con la dura realtà e non con la metafisica. Scriveva, nel 1684, Lord Halifax, uno dei padri del parlamentarismo: “Niente di più certo del fatto che tutte le istituzioni umane cambieranno e con esse le così dette basi del governo. Il diritto divino del re, i diritti irrevocabili della proprietà o delle persone, le leggi che non possono essere revocate e modificate, non sono che espedienti per vincolare il futuro”. Ma il futuro non è ipotecabile. Perché mai proprio la democrazia, che, in termini storici, è appena una neonata sulla cui solidità nulla si può ancora dire, dovrebbe avere una sorte diversa ed essere il sistema definitivo? Il corso del tempo ha visto sfilare, per restare alle vicende a noi più vicine, le comunità tribali, gli antichi Imperi mesopotamici, la polis greca, la Roma repubblicana e imperiale, il feudalesimo, la monarchia assoluta e quella parlamentare. Alcune di queste forme di organizzazione umana sono durate migliaia di anni e sembravano indistruttibili. Ma l’ultima venuta ha la presunzione di aver detto la parola fine.
L’idea che la democrazia rappresenti il fine e la fine della Storia non è solo infantile e ingenua. È paranoica. La “fine della Storia” sarebbe la storia della fine, la morte dell’uomo, un Eden cimiteriale. Con buona pace dei liberaldemocratici anche la democrazia andrà, prima o poi, nella pattumiera della Storia che finirà solo quando anche l’ultimo uomo sarà scomparso dalla faccia della terra.
Ma anche chi in Occidente non delira alla maniera dei Fukuyama, dei Bush e dei loro infiniti compari e, uscendo dall’ottimismo storicista, non crede che ci siano “leggi della Storia” e che la Storia abbia un fine – che è la posizione, tra gli altri, di Popper – ritiene però che la democrazia sia comunque “il migliore dei sistemi possibili” o quantomeno, il migliore di quelli “finora conosciuti”. Ma questo non è sostenibile, né storicamente né concettualmente. Se si ammette, come Popper, che la Storia non abbia un fine e che non esistano leggi ineluttabili che vanno nella direzione di un costante miglioramento della condizione umana, non c’è nessuna garanzia di un processo lineare e nulla vieta che ciò che ai nostri occhi occidentali, alla inesausta ricerca del meglio, appare come un’evoluzione sia invece il suo contrario. E proprio la tanta decantata democrazia liberale ne è una dimostrazione e un esempio.
Se guardiamo le cose oggettivamente, senza farci abbacinare da nobili e astratti principi, scopriamo che nel rapporto governanti-governati la liberaldemocrazia, rispetto, poniamo, alla monarchia assoluta, ha peggiorato la situazione proprio di quel popolo cui pur ha conferito formalmente la titolarità del potere. Perché può anche capitare che il re per diritto divino o semidivino, proprio perché ha il posto, per così dire, assicurato, prenda le difese del popolo contro le aristocrazie e le oligarchie che lo opprimono, come fecero i Tudor e gli Stuart che per un secolo e mezzo si opposero a quei grandi proprietari terrieri che, fiutando nell'aria l’incipiente capitalismo, volevano recintare i propri terreni rompendo il regime dei campi aperti (open fields) su cui si reggeva il delicato equilibrio del mondo agricolo, salvando così milioni di contadini dalla miseria e dalla fame in cui precipitarono immediatamente, diventando carne da macello pronta per le fabbriche, appena la rivoluzione parlamentare di Cromwell, preannuncio della democrazia, diede il via libera alle enclosures.
Le oligarchie democratiche invece, proprio perché in perenne e feroce competizione fra di loro per il mantenimento del potere, sono costrette a pensare innanzitutto se non esclusivamente a se stesse, alla propria sopravvivenza. E il loro nemico principale, come si è visto, è proprio il popolo.

Tratto da Sudditi – Manifesto contro la Democrazia di Massimo Fini

17/03/08

A COME APICOLTURA, C COME CATTIVI MAESTRI


S’è tenuta ieri a Tesero l’assemblea annuale dell’Associazione Apicoltori Fiemme e Fassa. Noi di quel sodalizio non facciamo più parte. Troppa l’incompatibilità, troppi i punti di vista inconciliabili. Come recentemente pubblicato su questo blog l’apicoltura mondiale sta vivendo una situazione drammatica, forse la più difficile della sua millenaria storia, e la colpa non la si può certo addebitare ai laboriosi imenotteri. Per i non addetti ai lavori e per non addentrarci troppo in questioni tecniche diciamo che, sostanzialmente, le cose sono cominciate a degenerare a partire dalla fine degli Anni 80. Fu allora che il nuovo nemico dell’ape europea (Apis mellifera) l’acaro varroa (Varroa destructor), che nella variante varroa jacobsoni era parassita simbionte dell’ape asiatica (Apis cerana), partendo dall’estrema Asia orientale (Giappone e Filippine), in cui la nostra ape europea (non in grado di convivere con quel parassita) era stata importata per cercare di sostituire, a fini economici, la meno produttiva ape cerana, approdò anche da noi. Fu proprio il sottoscritto a segnalare il primo avvistamento del parassita in Fiemme nel lontano 1988. La “scoperta” nell’ambito apistico locale fece un certo scalpore tanto che ad essa il quotidiano Alto Adige dedicò in cronaca locale addirittura un articoletto. Ma gli apicoltori locali dell’epoca confidando, come spesso accade, nelle magnifiche sorti e progressive della ricerca, naturalmente non si stracciarono le vesti per l’inquietante segnalazione. Di quel parassita però la stampa specializzata nazionale già parlava da qualche anno. Le prime infestazioni si erano infatti già verificate in Friuli nel 1993/94 da dove il parassita era pervenuto dalla Slovenia e non a caso i primi studi italiani sulla varroa furono fatti da ricercatori dell’Università di Udine. Sul campo già si stavano sperimentando possibili rimedi. Ricordo che allora si testarono rimedi naturali come la polvere del rizoma essiccato della felce maschio… Venne poi l’epoca della chimica: il primo presidio immesso sul mercato fu l’Apistan (prodotto ancora in uso). Si spiegò però che la chimica, se non fosse stata usata con cautela e precisione, oltre che inquinare i prodotti dell’alveare, avrebbe potuto provocare la cosiddetta farmaco-resistenza: in pratica una sorta di immunità al prodotto da parte del parassita. Le raccomandazioni, ripetute da allora in poi in occasione di ogni nuova assemblea, caddero nel vuoto sommerse dal cicaleccio degli astanti troppo intenti a parlare di produzioni iperboliche e commerci di miele. Il tempo passò, tra pressappochismi e voglie di gloria imprenditoriale che si propagarono tra gli apicoltori dilettanti locali. Invalse via via sempre più frequentemente non solo la prassi del nomadismo di alta montagna ma anche quello di pianura (pratica questa appannaggio esclusivo, sino allora, di quei pochi semiprofessionisti presenti in valle). Ad ogni annuale ritrovo dei soci anziché magnificare la bellezza, la poesia, la potenza dell’apicoltura stanziale nostrana promuovendola e, per esempio, impegnandosi a tutelarne la flora locale minacciata dalle nuove tecniche di concimazione, la direzione dell’A.A.F.F. (sempre - per così dire - sotto tutela dei semiprofessionisti già citati) cercava – nei fatti – di soffocare e sopire quel sentire, emarginando chi esso proponeva. Probabilmente solo la fortunata coincidenza dell’assenza di covata invernale, che si verifica a determinate altitudini e a particolari condizioni climatiche (fattore questo che permette alle famiglie d’api di beneficiare di una tregua nella proliferazione del parassita) non compromise con anticipo l’apicoltura fiemmese. Erano anni in cui con la varroasi si poteva convivere pur non adempiendo in modo ortodosso alle prescrizioni di profilassi. Ma la diffusione, appunto, della pratica del nomadismo, l’importazione sempre più frequente di famiglie da allevamenti di pianura, gli inverni sempre più bizzarri con sbalzi termici repentini, l’arbitrio nella scelta dei farmaci antiparassitari, il pressappochismo e la mancanza di un severo controllo nei trattamenti con i medesimi, hanno sfiancato anche l’apicoltura di montagna. Mai come in questo momento appare profetico il comandamento da tempo inutilmente ripetuto dal noto apicoltore stanziale di Tesero Ernesto Doliana: Primo, non nuocere! Noi, che con Ernesto condividiamo la stessa filosofia (appresa oltre trent’anni fa dal nostro compianto maestro d’apicoltura Costantino Zanon) di una conduzione degli apiari il più possibile naturale e rispettosa, proprio per il disastro che si sta palesando vieppiù clamoroso nei numeri, non possiamo trattenerci dal criticare invece ciò che a questa nostra visione fa da contraltare. Da quanto abbiamo appreso, l’assemblea di ieri ha confermato le nostre tesi e messo in discussione i comportamenti individuali che noi da vent’anni stiamo inutilmente stigmatizzando. Noi ribadiamo la necessità del rispetto assoluto di questi cinque precetti: contemporaneità nelle operazioni di profilassi, omogeneità dei presidi sanitari, no all’importazione di "pacchi d’api" o famiglie da allevamenti di pianura, no al nomadismo verso la pianura, controlli mirati sugli apiari. Speriamo sia la volta buona e che i cattivi maestri si ravvedano e propugnino finalmente un’apicoltura più attenta e rispettosa dei nostri preziosi imenotteri.


euro

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

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Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

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MINU

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