31/01/09

AMAZZONIA ARROSTO


Nell'umanità varia e un po’ smandrappata che partecipa al Forum sociale mondiale di Belem spiccano per contrasto gli efficientissimi militanti di Greenpeace. Puntuali come un orologio svizzero hanno sfornato l'ultimo rapporto sulla deforestazione dell'Amazzonia. Tema obbligato, per ragioni geografiche. E, a onor del vero, ampiamente documentato. Il rapporto "Amazzonia arrosto" si concentra sull'allevamento bovino, principale motore della deforestazione nel Mato Grosso. Otto mappe, ricavate dalle immagini prodotte dal satellite Modis, sono la spina dorsale di un rapporto da leggere e, soprattutto, da guardare sul sito www.greenpeace.org. Il Brasile possiede la mandria bovina più grande al mondo e, dal 2003, è il primo esportatore di carne bovina. Il 40% dei capi bovini si trova nell'Amazzonia Legale Brasiliana che include l'intera foresta amazzonica di pertinenza del Brasile e alcune aree di savana del Mato Grosso. Nel 1990 nell'Amazzonia Legale erano allevati 26 milioni di capi bovini. Nel 2003 erano saliti a 64 milioni. Nel 2006 l'allevamento bovino occupava il 79,5% dei suoli già in uso nell'Amazzonia Legale. Lo stato del Mato Grosso, che possiede la mandria bovina più grande del Brasile, dal 1988 registra il tasso di deforestazione più alto. Export, prezzi, allevamento e deforestazione viaggiano di conserva. Nel Mato Grosso sono già stati distrutti circa 185 mila Km quadrati di foresta (un'area pari a due volte l'Ungheria). Le infrastrutture (strade, macelli, centri abitati) funzionano come volani e moltiplicatori della deforestazione. Le mappe evidenziano macelli «non registrati» al Servizio d'ispezione federale e strade che «ufficialmente» non esistono. Queste ultime permettono agli allevatori di accedere a remote aree forestali che a volte distano centinaia di chilometri dai macelli. Il Brasile è al quarto posto nella classifica globale dei paesi produttori di gas serra. La deforestazione e il cambio d'uso dei suoli forestali causa il 75% delle emissioni del Brasile. Il 59% di questa percentuale proviene dalla deforestazione della regione amazzonica. L'ultima parte del rapporto elenca le buone ragioni della campagna "deforestazione zero". Ne ricordiamo qualcuna. L'Amazzonia conserva tra gli 80 e i 120 miliardi di tonnellate di carbonio. Se tutta l'Amazzonia andasse in fumo, finirebbe in atmosfera una quantità di gas serra pari a cinquanta volte quella prodotta dagli Stati Uniti in un anno. L'ecosistema Amazzonia rende possibile l'esistenza di 40 mila specie di piante, 427 mammiferi, 1.294 tipi di uccelli, 378 rettili, 427 anfibi, 3.000 specie di pesci. Nell'Amazzonia dimorano 20 milioni di persone. Di queste, 200 mila sono indigeni appartenenti a 180 gruppi etnici diversi. La foresta pluviale per loro è casa, rifugio, fonte di cibo, baricentro spirituale. Scorrono nell'Amazzonia il 20% dei corsi d'acqua del globo. L'umidità trattenuta dall'Amazzonia viene spostata dai venti su altre parti del Brasile e del Sud America; la diminuzione della copertura forestale fa diminuire le precipitazioni sul centro e sul sud est del Brasile, riducendo la produttività agricola. Greenpeace in coda impartisce una sfilza di ordini a Lula. Citiamo quello che ci pare meno irrealistico: al prossimo vertice di Copenhagen il Brasile sostenga un protocollo sul clima che includa un fondo internazionale per la Riduzione delle emissioni provenienti da deforestazione e degradazione (Redd) che preveda meccanismi finanziari credibili per la protezione delle foreste. L'ordine, per noi, è di mangiare meno carne.

Manuela Cartosio

29/01/09

STOP AL CONSUMO DI TERRITORIO


L’Italia è un paese meraviglioso. Ricco di storia, arte, cultura, gusto, paesaggio. Ma ha una malattia molto grave: il consumo di territorio. Un cancro che avanza ogni giorno, al ritmo di quasi 250 mila ettari all’anno. Dal 1950 ad oggi, un’area grande quanto tutto il nord Italia è stata seppellita sotto il cemento. Il limite di non ritorno, superato il quale l’ecosistema Italia non è più in grado di autoriprodursi è sempre più vicino. Ma nessuno se ne cura. Fertili pianure agricole, romantiche coste marine, affascinanti pendenze montane e armoniose curve collinari, sono quotidianamente sottoposte alla minaccia, all’attacco e all’invasione di betoniere, trivelle, ruspe e mostri di asfalto. Non vi è angolo d’Italia in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento: piani urbanistici e speculazioni edilizie, residenziali e industriali; insediamenti commerciali e logistici; grandi opere autostradali e ferroviarie; porti e aeroporti, turistici, civili e militari. Non si può andare avanti così! La natura, la terra, l’acqua non sono risorse infinite. Il paese è al dissesto idrogeologico, il patrimonio paesaggistico e artistico rischia di essere irreversibilmente compromesso, l’agricoltura scivola verso un impoverimento senza ritorno, le identità culturali e le peculiarità di ciascun territorio e di ogni città, sembrano destinate a confluire in un unico, uniforme e grigio contenitore indistinto. La Terra d’Italia che ci accingiamo a consegnare alle prossime generazioni è malata. Curiamola!
Il consumo di territorio nell’ultimo decennio ha assunto proporzioni preoccupanti e una estensione devastante. Pur in presenza di un sensibile calo demografico della popolazione italiana negli ultimi vent’anni, il nostro Paese ha cavalcato una urbanizzazione ampia, rapida e violenta. Le aree destinate a edilizia privata, le zone artigianali, commerciali e industriali con relativi svincoli e rotonde si sono moltiplicate ed hanno fatto da traino a nuove grandi opere infrastrutturali (autostrade, tangenziali, alta velocità, ecc.). Soltanto negli ultimi 15 anni circa tre milioni di ettari, un tempo agricoli, sono stati asfaltati e/o cementificati. Questo consumo di suolo sovente si è trasformato in puro spreco, con decine di migliaia di capannoni vuoti e case sfitte: suolo sottratto all’agricoltura, terreno che ha cessato di produrre vera ricchezza. La sua cementificazione riscalda il pianeta, pone problemi crescenti al rifornimento delle falde idriche e non reca più alcun beneficio, né sull’occupazione né sulla qualità della vita dei cittadini. Questa crescita senza limiti considera il territorio una risorsa inesauribile, la sua tutela e salvaguardia risultano subordinate ad interessi finanziari sovente speculativi: un circolo vizioso che, se non interrotto, continuerà a portare al collasso intere zone e regioni urbane. Un meccanismo deleterio che permette la svendita di un patrimonio collettivo ed esauribile come il suolo, per finanziare i servizi pubblici ai cittadini (monetizzazione del territorio). Tutto ciò porta da una parte allo svuotamento di molti centri storici e dall’altra all’aumento di nuovi residenti in nuovi spazi e nuove attività, che significano a loro volta nuove domande di servizi e così via all’infinito, con effetti alla lunga devastanti. Dando vita a quella che si può definire la “città continua”. Dove esistevano paesi, comuni, identità municipali, oggi troviamo immense periferie urbane, quartieri dormitorio e senza anima: una “conurbazione” ormai completa per molte aree del paese. Ma i legislatori e gli amministratori possono fare scelte diverse, seguire strade alternative? Sì! Quelle che risiedono in una politica urbanistica ispirata al principio del risparmio di suolo e alla cosiddetta “crescita zero”, quelle che portano ad indirizzare il comparto edile sulla ricostruzione e ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente. Il movimento di opinione per lo STOP AL CONSUMO DI TERRITORIO individua 6 principali motivi a sostegno della presente campagna nazionale di raccolta firme.
STOP: PERCHÉ?
Perché il suolo ancora non cementificato non sia più utilizzato come “moneta corrente” per i bilanci comunali.
Perché si cambi strategia nella politica urbanistica: con l’attuale trend in meno di 50 anni buona parte delle zone del Paese rimaste naturali saranno completamente urbanizzate e conurbate.
Perché occorre ripristinare un corretto equilibrio tra Uomo ed Ambiente sia dal punto di vista della sostenibilità (impronta ecologica) che dal punto di vista paesaggistico.
Perché il suolo di una comunità è una risorsa insostituibile perché il terreno e le piante che vi crescono catturano l’anidride carbonica, per il drenaggio delle acque, per la frescura che rilascia d’estate, per le coltivazioni, ecc.
Per senso di responsabilità verso le future generazioni.
Per offrire a cittadini, legislatori ed amministratori una traccia su cui lavorare insieme e rendere evidente una via alternativa all’attuale modello di società.

UN VATICANO DA PAURA


Un vescovo che nega l'esistenza delle camere a gas e derubrica l'olocausto a evento secondario della storia. Il Vaticano è arrivato ad accettare questo pur di far rientrare nel suo grembo lo scisma lefebvriano. Attirandosi addosso le giuste accuse di tutto il mondo dotato di memoria - o di semplice buon senso -, la rabbia delle comunità ebraiche, appena attenuate dalla prudenza diplomatica dello stato d'Israele. Un fatto che nessuna «scusa» degli ex scismatici può rendere meno grave. E' solo l'ultimo episodio che rivela una crisi profonda d'Oltretevere, una crisi che si estende al di là dell'Atlantico, visto che il Vaticano si dichiara «deluso» dalla nomina di Obama a presidente degli Usa, perché sui più delicati temi di etica - aborto, staminali - le posizioni del neopresidente sono contrarie a quelle vaticane. Poco dopo è arrivato il reintrego nella chiesa cattolica dei vescovi di Lefebvre, con annesso il negazionista Williamson. Un rientro clamoroso: non è parsa sufficiente la giustificazione offerta e proclamata, il desiderio di sanare uno scisma che «vale» 600.000 fedeli. Ma ai lefebvriani e a Obama si devono aggiungere parecchi altri dati, anche se difficili da quantificare. Anche dalle nostre parti aumentano i segnali di sconfitta o, per lo meno, di imbarazzo. Basti pensare a tutta la vicenda della povera Eluana con la contestazione che la posizione vaticana ha suscitato quasi dappertutto. Una contestazione che sta salendo come non mai sia sulla grande stampa che nell'opinione pubblica non specializzata. Basta pensare alle posizioni di Vito Mancuso e altri. Mai, prima di oggi, una opposizione così estese e autorevole. Per non parlare dell'abbraccio, a dir poco discutibile, fra le posizioni del papa e quelle di pensatori come Marcello Pera. Come mai? Che cosa sta succedendo nei palazzi d'Oltretevere? Non è facile dirlo. Ma si può con relativa certezza, anche se con dolore, parlare del declino di un'epoca. Siamo al declino dell'epoca del Concilio Vaticano II. Un'epoca che, con le importanti conseguenze che l'avevano caratterizzata, aveva segnato una svolta. Fra le conseguenze penso, fra le altre, alla teologia della liberazione e a tutta una fioritura di posizioni cattoliche che favorivano il dialogo e l'ecumenismo. Verso il mondo e la cultura moderna, verso altre forme di cristianesimo e di religione. Anni e decenni che oggi, alla luce di quello che accade in Vaticano, sembrano lontani non decenni ma secoli. Sembrano mai esistiti, appena accennati. Oggi sembra proprio prevalere la paura. Paura che si perda quella unità e compattezza che secondo Roma costituisce l'essenza stessa della chiesa cattolica. Paura di quella religione «fai da te» che si sta diffondendo nel mondo e che sfugge al controllo di Roma. La voce incontrollata dei mass media si sta sostituendo a quella dei vescovi e dei parroci. Soprattutto, ma non soltanto, in America Latina e in Africa. Logico l'imbarazzo di Roma, mentre non pochi cominciano a pensare alla necessità di un altro concilio.

Filippo Gentiloni

26/01/09

MARX, IL GRAN RITORNO



Trascurati dai partiti socialisti europei in quanto «vecchie teorie semplicistiche» che sarebbe bene abbandonare, detronizzati nelle università dove furono a lungo insegnati come base dell'analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano di nuovo grande interesse. Del resto, è stato proprio il filosofo tedesco ad analizzare a fondo la meccanica del capitalismo, i cui soprassalti disorientano gli esperti. Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx ha cercato di mettere a nudo i rapporti sociali.

Erano quasi riusciti a farcelo credere: la storia era finita, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell'organizzazione sociale; la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, si era ormai compiuta, solo alcuni incurabili sognatori agitavano ancora lo spettro di non si sa quale diverso futuro. Lo spettacolare terremoto finanziario dell'ottobre 2008 ha spazzato via di colpo questo castello di carte. A Londra, il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 resterà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalistico britannico ha riconosciuto il suo fallimento A New York, davanti a Wall Street, i manifestanti brandiscono cartelli con la scritta: «Marx aveva ragione!». A Francoforte, un editore annuncia che la vendita del Capitale è triplicata. A Parigi, una nota rivista, in un dossier di trenta pagine, analizza, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «i motivi di una rinascita». La storia si riapre... Ad immergersi in Marx, più di uno fa delle scoperte. Righe scritte un secolo e mezzo fa sembrano parlarci con sorprendente attualità. Esempio: «Poiché l'aristocrazia finanziaria dettava le leggi, controllava la gestione dello stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l'opinione pubblica nei fatti e con la stampa, si riproducevano in tutti gli ambienti, dalla corte fino al caffè più malfamato, la stessa prostituzione, lo stesso inganno spudorato, la stessa sete di arricchirsi non certo con la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui...» Marx parla della situazione in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che far riflettere. Ma al di là delle sorprendenti somiglianze, la diversa epoca rende gratuita qualsiasi trasposizione diretta. L'attualità, ancora una volta evidente, di quella magistrale Critica dell'economia politica che è il Capitale di Marx, si situa ben più in profondità. Infatti, a cosa è dovuta l'ampiezza della presente crisi? A leggere quel che quasi tutti sostengono, responsabili sarebbero la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l'incapacità del mercato dei capitali di auto-regolarsi, la scarsa moralità di chi gestisce i soldi... In pratica, si tratterebbe unicamente di errori interni al sistema il quale gestisce, oltre all'«economia reale», quella che viene definita l'«economia virtuale» - come se non si fosse appena constatato quanto anche quest'ultima sia reale. Eppure, la crisi iniziale dei subprime è nata proprio dalla crescente mancanza di denaro di milioni di famiglie americane, a fronte dell'indebitamento dovuto all'essersi candidate a proprietarie. Il che obbliga ad ammettere che, in fin dei conti, il dramma del «virtuale» ha le sue radici nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l'insieme globalizzato del potere d'acquisto popolare. Dietro lo scoppio della bolla speculativa creata dal dilatarsi della finanza, c'è l'universale accaparramento, da parte del capitale, della ricchezza creata dal lavoro, e dietro questa distorsione, per cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti, un calo colossale, c'è un quarto di secolo di austerità per i lavoratori in nome del dogma neoliberista. Le trombe della moralizzazione. Carenza di regolazione finanziaria, di responsabilità gestionale, di moralità borsistica? Certo. Ma se si riflette senza tabù, si deve guardare ben oltre: occorre mettere in discussione il dogma gelosamente protetto, di un sistema di per sé al di sopra di ogni sospetto, e poi meditare su quella ragione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell'accumulazione capitalistica». Egli dimostra che, là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi atti a sviluppare la produzione si mutano in mezzi di dominazione e sfruttamento del produttore», sacrificato all'accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di se stessa e tende dunque a diventare folle. «L'accumulazione di ricchezza in un polo» crea necessariamente per converso un'«accumulazione proporzionale di miseria» all'altro polo, e da qui rinascono inesorabilmente le premesse di violente crisi commerciali e bancarie. È proprio di noi che si parla in questo caso. La crisi è scoppiata nella sfera del credito, ma la sua forza devastante si è formata in quella della produzione, con la spartizione sempre più squilibrata del valore aggiunto tra lavoro e capitale, un maremoto che un sindacalismo di bassa lega non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica che tratta Marx come un cane rognoso. Non è allora difficile immaginare che valore possano avere le soluzioni alla crisi - «moralizzazione» del capitale, «regolazione» della finanza - proclamate da politici, gestori, ideologi, che ancora ieri fustigavano il semplice sospetto di un atteggiamento non «tutto liberista». «Moralizzazione» del capitale? È una parola d'ordine che merita un premio all'umorismo nero. Se c'è infatti un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza, è proprio la considerazione morale: l'efficienza cinica guadagna colpo su colpo, con la stessa sicurezza con cui la moneta cattiva scaccia la buona. La preoccupazione «etica» è pubblicitaria. Marx risolveva la questione in poche righe nella sua prefazione al Capitale: «Non dipingo certo di rosa il personaggio del capitalista e del proprietario fondiario», ma «meno di qualsiasi altra, la mia prospettiva, in cui lo sviluppo della società in quanto formazione economica è studiato come processo di storia naturale, potrebbe rendere l'individuo responsabile di rapporti di cui rimane socialmente un prodotto... ». Ecco perché non basterà certamente qualche ceffone, per «rifondare» un sistema in cui il profitto resta l'unico criterio. Non si tratta di essere indifferenti all'aspetto morale delle cose. Anzi, al contrario. Ma, valutato in modo serio, il problema è di tutt'altro ordine rispetto alla delinquenza di padroni canaglia, all'incoscienza di traders pazzi o anche all'indecenza dei paracaduti dorati. Quel che il capitalismo ha di indifendibile in questo senso, al di là dei comportamenti individuali, è il suo stesso principio: l'attività umana che crea ricchezza vi ha lo statuto di merce, ed è dunque trattata non come fine in sé, ma come semplice mezzo. Non c'è bisogno di aver letto Kant per vedervi l'origine prima dell'amoralità del sistema. Se si vuole veramente moralizzare la vita economica, bisogna prendersela con ciò che la de-moralizza. Il che passa certo - amena riscoperta di molti liberisti - per la ricostruzione di regolamentazioni statali. Ma affidarsi, a questo scopo, allo stato sarkozyano dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione delle Poste supera i limiti dell'ingenuità - o dell'ipocrisia. Quando si pretende di affrontare la questione della regolamentazione, è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un'analisi di indiscutibile attualità: quella sull'alienazione. Nella sua prima accezione, elaborata in celebri testi giovanili, il concetto definisce la maledizione che costringe il salariato del capitale a produrre la ricchezza per altri, solo producendo la propria indigenza materiale e morale: deve perdere la vita per guadagnarla. La multiforme inumanità di cui la massa dei salariati è oggi vittima, dall'esplosione delle patologie del lavoro ai licenziamenti borsistici passando per i bassi salari, mostra con grande crudeltà quanto l'analisi sia ancora valida. Ma, nei suoi lavori della maturità, Marx ritorna sull'alienazione dandole un senso ben più vasto: poiché il capitale riproduce costantemente una radicale separazione tra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non sono di chi vi lavora - , le loro attività produttive e cognitive, non collettivamente controllate alla base, sono lasciate all'anarchia del sistema della concorrenza, dove si convertono in incontrollabili processi tecnologici, economici, politici, ideologici; gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano. Gli uomini non fanno la propria storia, è la loro storia che li fa. La crisi finanziaria illustra in modo terrificante questa alienazione, proprio come la crisi ecologica e quel che bisogna chiamare la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto queste crisi, ma tutti le subiscono. È da questo «spossessamento generale», spinto all'estremo dal capitalismo, che risorgono inarrestabilmente le rovinose assenze di regolamentazione concertata. Per cui chi si vanta di «regolare il capitalismo» è sicuramente un ciarlatano politico. Regolare sul serio, richiederà molto più dell'intervento statale, per quanto necessario esso possa essere, perché, chi regolamenterà lo stato? Occorre che a riprendere il controllo dei mezzi di produzione siano i produttori materiali - intellettuali finalmente riconosciuti per quel che sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, aventi come tali l'indiscutibile diritto di prendere parte alle decisioni di gestione in cui si decide della loro stessa vita. Di fronte ad un sistema la cui evidente incapacità di regolarsi ci costa un prezzo esorbitante, bisogna, secondo Marx, iniziare senza indugio il superamento del capitalismo, lunga marcia verso una diversa organizzazione sociale dove gli esseri umani, grazie a nuove forme di associazione, controlleranno insieme le loro forze sociali impazzite. Tutto il resto è fumo negli occhi, dunque tragica delusione annunciata. Si va ripetendo che Marx, molto incisivo nella critica, mancherebbe di credibilità quanto alle soluzioni, poiché il suo comunismo, «testato» all'Est, sarebbe radicalmente fallito. Come se il defunto socialismo staliniano-brezneviano avesse avuto qualcosa di veramente comune con l'idea di comunismo di Marx, di cui quasi nessuno peraltro cerca di recuperare il senso reale, che è agli antipodi di quel che l'opinione corrente mette sotto la parola «comunismo». In realtà, quel che potrebbe essere il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo, in senso autenticamente marxista, si delinea sotto i nostri occhi in modo completamente diverso. La bancarotta dell'Homo Ïconomicus. Ma qui ci fermiamo: volere un'altra società sarebbe una cruenta utopia, perché non si cambia l'uomo. E «l'uomo», il pensiero liberista sa cosa è: un animale che trae la sua essenza non dal mondo umano, ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse individuale - Homo Ïconomicus - , con cui non è possibile altro che una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata». Ora anche questa idea fa bancarotta. Sotto l'eclatante tracollo del liberismo pratico si consuma sottovoce il fallimento del liberismo teorico e del suo Homo Ïconomicus. Doppio fallimento. Scientifico, prima di tutto. Nel momento in cui la biologia si separa da un semplicistico «tutto-genetico», l'ingenuità dell'idea di «natura umana» salta agli occhi. Dove sono i geni, annunciati con grande clamore, dell'intelligenza, della fedeltà o dell'omosessualità? Quale mente colta può ancora credere, ad esempio, che la pedofilia sia congenita? E fallimento etico. Perché quel che protegge da lustri l'ideologia dell'individuo concorrenziale, è la disumanizzante pedagogia del «diventate assassini», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una de-civilizzazione a tutto tondo per la follia dei soldi facili, che dovrebbe fare arrossire chi osa annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Dietro il naufragio storico in cui la dittatura della finanza affonda e ci fa affondare, c'è quello del discorso liberista su «l'uomo». E lì, sta la più inattesa delle attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell'economia è anche, nello stesso momento, l'iniziatore di una vera rivoluzione nell'antropologia. Una dimensione totalmente misconosciuta del suo pensiero, che non si può esporre in venti righe. Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ne esprime lo spirito in due frasi: «L'essenza umana non è un'astrazione inerente all'individuo preso a parte. Nella sua realtà, è l'insieme dei rapporti sociali». Al contrario di quanto pensa l'individualismo liberista, «l'uomo» storicamente sviluppato, è il mondo dell'uomo. Lì ad esempio, e non nel genoma, si forma il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato un marxista a lungo misconosciuto, Lev Vygotski, uno dei grandi psicologi del XX secolo, il quale ha così aperto la strada ad una visione completamente diversa dell'individualità umana. Marx è attuale e anche più di quanto non si pensi? Sì, purché si voglia attualizzare l'idea tradizionale che spesso ci si fa di lui.

LUCIEN SÈVE - Filosofo. Ha appena pubblicato il tomo 2 di Penser avec Marx aujourd'hui, intitolato L'homme?, La Dispute, Parigi.

25/01/09

J.S.B. CONCERTI BRANDEBURGHESI


Nell’estate del 1720 Bach incontra nella località termale di Karlsbad Christian Ludwig, margravio di Brandeburgo, che gli chiede di scrivere una serie di composizioni per la propria cappella. Ma, al ritorno a casa, un’amara sorpresa attende il Maestro di Eisenach: l’amata moglie Maria Barbara è morta improvvisamente durante la sua assenza. Per il musicista è un colpo durissimo, destinato a segnarlo nel profondo. Nonostante il lutto, e tenendo conto che egli ha da provvedere a quattro figlioli in tenera età, Bach si getta a capofitto nel lavoro. Il progetto è creare entro breve tempo una serie di Concerts avec plusieurs instruments (come specificherà sul manoscritto originale il titolo in francese dell’opera) per il margravio, i quali in effetti verranno ultimati entro l’inverno del 1721 e saranno poi noti come Concerti Brandeburghesi. Denominazione peraltro arbitraria, dovuta al primo biografo di Bach, Philipp Spitta, che li associò alla sede del margravio, presso la quale essi però con tutta probabilità non furono eseguiti integralmente nemmeno una volta, causa la loro complessità, coniugata alla non eccellenza dell’orchestra di corte. Bach vivente, i Concerti Brandeburghesi purtroppo non conobbero quindi notorietà alcuna. Scivolati ben presto nell’oblio e riscoperti fortunosamente solo nel secolo successivo da parte di Mendelsshon, essi furono dati alle stampe esattamente cent’anni dopo la morte del compositore; ma almeno a partire da tale data la loro fama aumentò sempre più sino ai giorni nostri, tanto da venire oggi (giustamente) considerati tra i capolavori bachiani. In queste composizioni Bach, pur ispirandosi soprattutto ai concerti grossi italiani, non si fa però ingabbiare entro alcun modello compositivo tradizionale. I Brandeburghesi rappresentano perciò una novità assoluta che travalica, svecchia e rompe ogni schema. Qui il concerto solistico si affianca e si ibrida rispetto a quello cosiddetto grosso. Come ha sottolineato a suo tempo Alberto Basso, Bach propone agli orchestrali un vero e proprio “campionario” di acrobazie virtuosistiche e di innovazioni tecnico-stilistiche, attraverso un’inedita creazione musicale che – osserva con felice sintesi ermeneutica Paule du Bouchet – unisce insieme: “stile italiano, gusto francese, austerità tedesca, polifonia e omofonia, movimenti di danza e strutture contrappuntistiche”. Il Primo Concerto brandeburghese (l’unico in quattro movimenti, a differenza degli altri concerti: tutti tripartiti) di gusto francese, è caratterizzato da una struttura cosiddetta “di gruppo” che contrappone a sei fiati sei archi (oltre al clavicembalo) e vede come strumento principale il corno da caccia. Il Secondo, che risente l’influenza vivaldiana, ha come primo attore la tromba, ma prevede al contempo il felice gioco dialettico tra il “concertino” (insieme solistico di alcuni strumenti) e il resto dell’orchestra. Nel Terzo, eminentemente contrappuntistico, Bach fa intervenire i soli archi, in un disegno polifonico che non comporta preminenze solistiche, sebbene tra di essi si noti la presenza del clavicembalo. Nel Quarto, che potremmo rubricare come concerto grosso, due flauti e un violino dialogano giustapponendosi ai “tutti”; anche se nella fuga finale il violino emerge virtuosisticamente. Il Quinto Concerto brandeburghese resta senza dubbio il più celebre, popolare e amato dei sei. Oltremodo nota è l’impegnativa cadenza clavicembalistica alla fine del primo orecchiabilissimo movimento (è la prima volta nella storia della musica in cui tale strumento appare come solista in un concerto). Infine il Sesto, concepito per soli archi (ma sono assenti i violini) e basso continuo, appare quasi una sorta di sestetto cameristico dall’atmosfera intensamente espressiva, ma icastica ed eterea, quasi. Trevor Pinnock, alla guida dell’eccellente European Brandemburg Ensemble, torna a misurarsi coi Brandeburghesi dopo la sua acclamata edizione di circa 25 anni fa per la gioia dei melomani. Il risultato è un doppio CD all’insegna della correttezza filologica, contraddistinto da notevole bravura interpretativo-esecutiva e da grande affiatamento strumentale all’interno dell’ensemble che fan risaltare il fascino senza età di questi concerti bachiani davvero rivoluzionari. Non posso concludere questa breve presentazione senza citare la sua testimonianza in merito alla scelta di misurarsi con questa partitura in modo diverso rispetto alla volta precedente: “Mentre nel 1982 ero pieno del più grande rispetto per la disciplina e l’ordine di Bach, oggi apprezzo il suo senso dell’audacia e della sovversione musicale. Desideroso di evitare qualsiasi concezione limitativa dello stile dell’epoca, ho invitato strumentisti di diversi paesi e di diverse generazioni ad unirsi al mio nuovo viaggio esplorativo”. Un viaggio e un approdo musicale che mi paiono davvero riusciti.

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

MINU
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