13/04/07

PEDONI IN SICUREZZA

riceviamo e volentieri pubblichiamo il presente documento inoltrato ai sottoindicati indirizzi dal signor Mario Delladio



Spett.le
Consorzio di Polizia Municipale
Via Cauriol, 1
38033 CAVALESE

e p.c. Spett.le
COMUNE DI TESERO
Piazza C.Battisti
38030 TESERO


OGGETTO: Sicurezza stradale all’interno del centro abitato

A seguito di due gravi fatti accaduti il giorno 26 marzo u.s. a Tesero lungo la statale 48 in corrispondenza dell’entrata della fabbrica d’organi elettronici Delmarco, tra l’incrocio per la S.P.215 di Pampeago e l’imbocco di via Soc, sottopongo alla vostra attenzione quanto segue.
Poco prima delle ore 14 del giorno anzidetto un autocarro betoniera effettuando la curva sinistrorsa a velocità impropria e in sovraccarico, causava un forte ondeggiamento all’interno dell’autobotte che a sua volta provocava lo svuotamento sullo stradone di un significativo quantitativo di calcestruzzo liquido contenente acciottolato ghiaioso di dimensioni rilevanti. Fortunatamente in quel mentre nessun pedone era in transito sull’adiacente marciapiede e le conseguenze dell’accidente si limitarono alla sola lordura del piano stradale e del marciapiede, che successivamente vennero ripuliti da alcuni addetti del servizio strade della P.A.T. ivi sopraggiunti. Con analoga dinamica dopo circa 2 ore dal primo evento, un secondo autocarro, che a velocità sostenuta trasportava dei pannelli edili accatastati sul pianale inadeguatamente legati, “svuotava” nello stesso punto parte del carico, con un fragoroso rumore che si percepiva nettamente all’interno della fabbrica di cui sopra, ancorché fossero in funzione alcuni rumorosi macchinari. Il sottoscritto che in quel momento stava appunto lavorando con una piallatrice, udendo il “botto” dei pannelli scagliati sul marciapiede si precipitava all’esterno dell’opificio. Sul marciapiede e sullo stradone giacevano 5 o 6 pesanti pannelli e, a differenza dal primo episodio, in questo caso se in quel mentre qualcuno si fosse trovato a passare sul marciapiede le conseguenze per il malcapitato sarebbero state sicuramente molto, molto pesanti. Poco prima dell’increscioso accaduto stavo lavorando alla manutenzione di una ringhiera proprio sul marciapiede e nel punto preciso in cui giacevano i pannelli ma per mia fortuna un mio collega mi aveva richiamato in fabbrica per un lavoro urgente. Nel rientrare, sentendo alcuni ragazzi che vociavano lungo il marciapiede, mi riaffacciai dal piazzale che sovrasta lo stradone e vidi mio figlio ed un suo amico che stavano ritornando da una lezione di catechismo tenuta a Soc; colsi l’occasione per raccomandargli “scherzosamente” di non inciampare nella scala che stavo usando per tinteggiare la ringhiera, ignaro dell’incombente mortale pericolo che di lì a poco avrebbe potuto causare una tragedia. Comunque, passata la paura, ho ritenuto di dover informare dell’accaduto le mamme residenti nella zona che ovviamente si sono indignate, considerando che in quel luogo transitano ogni giorno parecchi bambini per recarsi a scuola e all’asilo. Dai fatti qui brevemente accennati molte considerazioni si potrebbero fare: che l’abitudine a trascorrere parte considerevole del proprio tempo in auto provoca sufficienza in chi guida e questo fatto, gravissimo di per sé, è sconcertante se riferito a chi esercita per professione il lavoro di autista; che troppi automobilisti considerano la strada come un luogo ad esclusivo “uso e consumo” dell’autoveicolo; che sarebbero oltremodo necessari controlli puntuali e insistiti da parte delle forze di polizia; che data appunto la situazione, andrebbero urgentemente promosse campagne di sensibilizzazione nei confronti di tutti gli utenti auto-motorizzati. Ma la considerazione più amara che qui voglio palesare è che in conseguenza della ormai generalizzata auto-dipendenza si percepisce ogni giorno di più quanto sia grande l’insofferenza degli automobilisti per i pedoni all’interno dei centri abitati, luoghi questi che dovrebbero invece essere prioritario appannaggio proprio della mobilità pedonale.

Cordiali saluti

Mario Delladio


Tesero, 3 aprile ’07

12/04/07

LETTERA A EUGENIO DEFLORIAN

Caro Eugenio,

se non ti disturbo gradirei prestassi un po’ d’attenzione alla presente. Ieri sera il tuo approccio così inusuale e senza preamboli mi ha lasciato sbalordito. Sulle prime non ho capito, poi ho realizzato che anche tu evidentemente dovevi essere stato “pizzicato” dai cosiddetti amici della terra. Me ne aveva parlato tempo fa l’Alberto Carpella che mi recapitò via posta elettronica una richiesta di chiarimenti piuttosto perentoria con riferimento a una lettera che aveva ricevuto il giorno prima, “firmata” anonimamente da una non meglio identificata associazione Amici della Terra dietro la quale secondo lui si nascondeva un sicuro mandante: il sottoscritto! Cadendo dalle nuvole, dopo l’ovvio iniziale stupore lo invitai pertanto a farmene avere una copia. E così fu. Dalla lettura della stessa e dalla constatazione che l’indirizzo elettivo della fantomatica associazione ne indicava la sede presso la biblioteca comunale o comunque a quel numero civico, trassi la conclusione che doveva trattarsi di una “goliardata” organizzata da qualche studente. Pur tuttavia nella lettera non trovai nulla di offensivo. Tuttaltro! Anche Alberto alla fine convenne che tutto sommato in essa si dicevano cose del tutto condivisibili. Pur continuando a sottolineare “sdegnato” il fatto che quella missiva gli era stata recapitata in forma anonima. Proprio per questo, ragionando, deducemmo entrambi che gli estensori potevano essere appunto degli studenti che approfittando del contemporaneo invito dell’Amministrazione comunale alla giornata ecologica avevano “colto l’occasione” per un’azione concertata senza doversi esporre direttamente. Ad ogni modo, dissi ad Alberto, anonimo o non anonimo che fosse, se io avessi ricevuto un documento siffatto non mi sarei per nulla indignato, ma piuttosto avrei fatto semplicemente un esame di coscienza e ponderato il senso delle parole in esso contenute. Perché a mio parere ciò che discrimina tra un fatto comunque accettabile e un fatto disdicevole o addirittura offensivo, non è conoscerne o meno l’autore, bensì la sostanza oggettiva del fatto medesimo. E a me, ti ripeto, quella è sembrata una lettera con intenti positivi e lontanissima dall’intenzione di offendere chicchessia. E qui chiudo sperando di essermi chiarito. Adesso però visto che mi hai tirato in ballo vorrei entrare nel merito della questione perché il tuo approccio di ieri, riflettendoci a freddo, mi è parso volutamente tendenzioso e insinuante. Sappi allora che il sottoscritto da due anni abbondanti sta interessando l’opinione pubblica (in primis l’Amministrazione comunale tutta) con riferimento al problema del traffico e dell’inquinamento nel nostro bel paesello. Non so se te ne sei accorto (da come ti “muovi” penso di no!) ma io che per lo più giro ancora a piedi (senza per questo sentirmi un eroe) posso garantirti che nel centro storico di Tesero non si respira affatto aria buona e da tre anni (e cioè da quando ho cambiato residenza), nonostante le finestre siano nuove e ben insonorizzate per dormire mi devo mettere i tappi di cera. Questo non solo non è giusto, questo è vergognoso! Perché Il diritto alla salute e alla tranquillità precede di gran lunga quello cosiddetto “alla mobilità”. Se i signori della Tesero alta (tra i quali mi permetto di includerti) non fanno più uso del cavallo di san Francesco non sono certo fatti miei, ma sia chiaro che non per questo possono ledere un mio (e di molti altri compaesani) diritto sacrosanto. Quindi ho suggerito al Comune di cominciare a fare dei sensi unici e di obbligare chi abita dal Brustol in su (via Rododendri inclusa) che eventualmente decidesse di scendere in paese in automobile a percorrere la circonvallazione ovest lungo il rio Stava. Questo per distribuire un po’ su tutto il territorio l’onere del disturbo che reca il traffico. Chiaro il concetto? Ho altresì scritto che è intollerabile che in un centro storico dimensionato e strutturato a misura d’uomo o al massimo di bue, i pedoni debbano “sfregolare” i muri per camminare lungo la pubblica via. Chiaro? Se i signori dell’ ”hinterland” paesano si sono impoltroniti, non c’è problema, purché non scarichino la loro poltroneria (che sarebbe il meno) e soprattutto i veleni e i molesti rumori dei loro motori su quelli che casualmente si trovano pro tempore a vivere nel mezzo del paese. E ti dico di più: è scandaloso (e questo la dice lunga sui cosiddetti montanari) che in un centro abitato dalle dimensioni de ‘n linzől dal fen come è quello di Tesero, con le distanze massime da luogo a luogo che si percorrono a piedi in non più di 10-15 minuti, non si riescano a fare 30 (trenta) metri senza avere dietro o davanti al culo una merdosa auto (quando va bene, più spesso un merdosissimo fuoristrada) che ti rompe i coglioni e ti avvelena. Chiaro? Il paese va liberato! da questa generale, deleteria, anacronistica stupidità. Da questa inciviltà. Se non sbaglio (e se sbaglio ti chiedo scusa)tu sei (o eri) un gran camminatore: vai (o andavi) per “trosi” di montagna, fors’anche per corozzi, scii o almeno un tempo sciavi (ricordo di aver visto una tua foto sul libro della Cornacci del Remo de la Centrale)e dunque credo non ti manchi né la forza né il piacere di muoverti. E allora perché sei così riluttante a percorrere a piedi le strade del paese (destinate per costituzione fisica prioritariamente all’uso pedonale)? Perché il centro paese deve trasformarsi in un abbruttente volgare deposito di lamiere barbaramente abbandonate ovunque? Perché alla cittadinanza deve venire sottratta la vivibilità, il piacere della conversazione, la tranquillità, per assecondare il narcisismo e la stupidità di chi non riesce più a ragionare? Mi piacerebbe poter continuare ma purtroppo ho altre cose da fare e non avevo previsto di doverti scrivere, sarò lieto di potermi confrontare con te in un’altra eventuale auspicabile occasione su queste e altre questioni che mi stanno a cuore. Ovviamente la conditio sine qua non è di poterti incontrare strada facendo, o magari in piazza Nuova, luogo ove un tempo si ascoltava con piacere “’l Genio” che s’avventurava col diabolico Tancredi: oggi purtroppo anche l’ascolto della Banda in piazza è andato a farsi benedire per far posto agli stupidi “porta poltroni”!
Ti dovevo queste righe scritte in fretta e magari ineleganti perché ci tenevo a farti sapere che io mi firmo. Sempre! E ho intenzionalmente calcato la mano così che se ti capiterà una prossima volta di ricevere una lettera, prima di incazzarti per la mancanza della firma (e poi prendertela erroneamente con chi la propria firma non ha problema a metterla) verifica e pondera il contenuto della stessa!

Cordialità.




Tesero, paese dei presepi, addì 12 aprile 2007

11/04/07

IL FETICCIO

Su te vile feticcio

Che trastulli i cretini
Che siedi i culi degli stolti
Che diffondi la stupidità
Che assecondi i poltroni
Che rompi il Silenzio
Che sottrai il Paesaggio
Che impedisci il Sonno
Che arricchisci i malvagi
Che generi l’idolatrìa
Che avveleni l’Aria
Che inquini l’Acqua
Che devasti la Terra
Che uccidi la Vita

Vomito tutto il mio odio.

09/04/07

GABBIANI


Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.


Vincenzo Cardarelli

INTERVISTA A ERMANNO OLMI


Cammina a fatica, piegato dalla malattia. Evita la folla, gli appuntamenti mondani, i salotti della cultura. Preferisce la pace della casa di Asiago, fra le montagne che ama, tra i suoi ricordi contadini di una civiltà che non c'è più, quella che ha cantato attraverso la cinepresa in film come l'«Albero degli zoccoli». Ma all'ospite che lo va a trovare, seduto attorno al tavolo come un tempo ci si sedeva attorno al focolare e si faceva famiglia, apre lo sguardo sul mistero dell'uomo, sul legame vitale che ha unito generazioni alla natura e che oggi s'è interrotto, sul «fardello di inutilità di cui ci siamo caricati nell'illusione che tutto questo ci portasse felicità e sicurezza, e invece ha svuotato la nostra vita». Le parole cadono lente come la pioggia d'autunno penetra nel terreno. Gli occhi, carichi di una luce intensa, toccano il profondo dell'animo. «Abbiamo perduto il nostro rapporto personale con quello stupore che ogni mistero porta con sé e sollecita l'uomo a pensare», sospira Ermanno Olmi, il grande maestro del cinema, che in questi giorni ha portato nelle sale cinematografiche «Centochiodi», il suo ultimo film, ultimo nel senso che non ce ne saranno proprio altri, come lui stesso ha dichiarato. «Se non troviamo un rapporto con ciò che è vivo attorno a noi, non saremo mai uomini di fede, perché perdiamo il legame col mistero. La nostra sarà solo adesione passiva ad una proposta - filosofica, politica, religiosa - ma non sarà la fede. Sarà ideologia dei valori, ma non valori vissuti». Maestro, perché il benessere economico ha cancellato i valori profondi dell'anima di popolo? «Quando l'uomo dipendeva totalmente dalla natura, la natura imponeva regole di rispetto: di sè, degli altri, del proprio lavoro». «Se non trattavi bene il campicello, non campavi; se non ti armonizzavi alle leggi naturali, sbagliavi raccolto. Era una dipendenza non di sottomissione ma di armonizzazione con la natura. Nel momento in cui si è innestato il virus che permette di sostituirci alla natura, ci siamo come infettati. È diventato possibile produrre ricchezza come surrogato dei valori affettivi e morali. E quindi è subentrata in noi la presunzione di eludere le regole naturali e di produrne di nuove artificiali a seconda delle nostre convenienze ed egoismi. La devastazione è davanti ai nostri occhi». La ricchezza è diventata misura di tutto. «Proprio così. Non importa più essere onesti, capaci, rispettosi. Ciò che conta è la ricchezza che diventa anche la misura della capacità di una persona, anche del politico. Pure l'innamoramento, unica via d'uscita dalla solitudine inaccettabile alle nostre esistenze, si propone attraverso la ricchezza. Un tempo l'innamorato poteva contare solo su se stesso da proporre all'altra. Oggi arriva armato di mille supporti - i soldi, il successo, l'estetica - che diventano il motivo preliminare e fondamentale. Quando vengono meno quelli, viene meno anche la ragione di stare insieme. Ecco perché la coppia è in crisi». Come mai i poveri di ieri hanno dimenticato cosa vuol dire solidarietà e tolleranza? «La prima cosa che fa il ricco che è stato povero, è dividersi dai poveri. Alza barriere per difendere il benessere finalmente raggiunto. Il povero, l'immigrato, il diverso dà fastidio perché contamina la ricchezza che abbiamo accumulato, la mette in discussione. Essergli fratello, come ci richiama il Vangelo, vorrebbe dire riconoscere che il nostro benessere materiale, ciò per cui abbiamo sacrificato la nostra vita, non conta nulla. Perché ciò che conta è qualcuno che ti siede accanto, mentre tu sei gravemente malato o morente, e ti tenga la mano. Solo la malattia, la sofferenza, la morte, ci può scrollare da questa devastazione. La malattia ci libera dai vincoli della ricchezza». Il benessere fa dimenticare anche Dio? «I poveri si aggrappavano a Dio, perché sapevano che tutto dipende da Dio. Oggi l'uomo crede di non averne più bisogno, anche se magari lo frequenta nell'ufficialità delle cerimonie, più per folklore che altro. All'uomo che si è costruito il suo benessere sostituendosi alla natura, che importa di Dio? Pensa di essere lui più bravo di Dio». Lei è uomo di fede. A fianco della sua sedia da regista, c'è sempre la Bibbia. Crede che la fede può essere la bussola all'uomo per ritrovare se stesso? «Certo, ma una fede vissuta che consente di ritrovare lo stupore del mistero, di un rapporto con ciò che è vivo perché è vivo. Dobbiamo recuperare la contemplazione, atto d'amore e presupposto della creatività. E ciò implica un rapporto diverso con le realtà che ci circondano, e quindi anche con l'assoluto». Olmi, come mai la cultura oggi non aiuta l'uomo in questo compito di ritrovare se stesso? «La mia sensazione è che oggi la cultura, e chi la pratica per attività professionali, sia diventata una merce. Può in altri termini essere usata non per armonizzarci alla natura e all'uomo, ma per ottenere profitti. È preoccupata di servire il potere in tutti i suoi aspetti, compreso il successo come conquista vanitosa di potere. Di questa cultura io non so che farmene. A me dà pace solo il pensiero di quelle antiche generazioni che avevano intuito, attraverso una relazione stretta col creato, i riferimenti autentici che sono stella polare della vita e dell'uomo».
p.giovanetti@ladige.it

08/04/07

EVVIVA EVVIVA


Si è recentemente costituita in Tesero l'Associazione Coltivatori Milon - Saltogio - Porina (MI SA PO). L'intento sociale è di ripristinare in loco le antiche colture agricole che più di cinquant'anni fa caratterizzavano gran parte della campagna locale. Ritornano dunque (oltre alla patata) il mais da polenta, il frumento, l'orzo e quest'anno (forse) il grano saraceno. E' un'iniziativa senz'altro lodevole il cui merito va in particolare al Signor Mario Delladio (Scolin), classe 1963, vera anima della neonata associazione. Grazie a lui, alla sua intraprendenza e alla sua caparbietà le campagne di Tesero ritorneranno a produrre (seppur in modiche quantità) gli elementi base che per secoli permisero alle popolazioni locali di sopravvivere autonomamente. Onore al merito dunque a Mario e agli altri componenti del nuovo sodalizio, tra i quali ricordiamo Diego Zeni (classe 1978, 'l bocia de la banda, specializzato nel coltivo dei girasole e ortaggi), Fabiano Delladio (coltivazione di varietà rare di patata) e i fratelli Giuliano e Paolo Sartorelli (patate, phacelia tenacetifolia e da quest'anno appunto grano saraceno).
Alla Mi-Sa-Po i migliori auguri di un proficuo lavoro e di un ottimo raccolto!

MOBILITA' - I segni del collasso


Il Prof. Dr. h. c. Frederic Vester presiede il Gruppo di Studio per Biologia e Ambiente a Monaco di Baviera ed è socio del Club di Roma. Attraverso libri come LEITMOTIV PENSIERO INTRECCIATO; USCITA FUTURO; PENSARE, APPRENDERE, DIMENTICARE; ZONE AD ALTA CONCENTRAZIONE IN CRISI o FENOMENO STRESS, è divenuto uno dei più noti autori di libri divulgativi di successo. MOBILITÀ - I segni del collasso, diretto stavolta a una più ampia cerchia di lettori, dovrebbe ampliare ulteriormente il processo che si è avviato. In questo libro Frederic Vester descrive, partendo dal suo principio di pensiero intrecciato, la situazione fuorviante provocata dalla tendenza verso una automobilità, non delineando scenari senza via d'uscita, bensì proponendo con chiarezza di stile soluzioni concrete per il futuro del traffico che delineano una nuova definizione di mobilità. Riportiamo la manchette promozionale di presentazione del volume redatta da Annalisa Pini: Quando un delfino 'triangola' per individuare la sua posizione, ha un comportamento analogo al nostro, quando diamo un nome e confrontiamo le "cose" incontrate nella vita quotidiana, e stabiliamo così il nostro posto nel mondo. (da "Le vie dei canti", Bruce Chatwin) A tutt'oggi restano sconosciuti i motivi che, talora, inducono branchi di cetacei ad un suicidio collettivo attuato con il cosiddetto "spiaggiamento", con lo spingersi, cioè, su di una spiaggia e lì restare, deliberatamente, a morire. Altrettanto sconosciute rimangono le cause profonde che spingono le società umane ad attuare un progressivo e sempre più rapido suicidio di massa attraverso l'inquinamento. Mobilità significa movimento, vitalità, mutamento. Questo vale soprattutto per il pensiero. Solo un pensiero che si trasforma può andare aldilà degli orizzonti dati. Ma siamo ancora capaci di mettere in moto il nostro corpo, la nostra anima, i nostri pensieri? In realtà, oggi, a muoversi sono le macchine e noi diventiamo sempre più statici, sempre più riluttanti ad ogni cambiamento. Non riusciamo a "triangolare". Privi di punti di riferimento, non riusciamo a dare un nome alle "cose", a confrontarle, a comprenderne gli intrecci. E il nostro posto nel mondo, dov'è? Figli di una società che tende ad identificare il "progresso" con l'avanzamento della tecnologia, ci affidiamo alle macchine, impiegando tutte le risorse disponibili per rendere loro la vita facile, mentre i nostri spazi vitali diventano sempre più angusti. La nostra era, infatti, è contraddistinta da una mobilità solo apparente. Da questa premessa parte l'esigenza dell'autore di esporre, in modo comprensibile a tutti, l'intero fenomeno della nostra attuale mobilità. Non è un caso che Frederic Vester sia un oncologo. Forse questo farà storcere il naso ai "tecnici" e ai super-esperti del settore, ma il superamento della settorialità e della sua visione parziale dei problemi, è proprio uno dei presupposti per il cambiamento della mentalità riguardo al traffico, sulla base di quello che Vester chiama "pensiero intrecciato".La salute dell'uomo e l'ambiente in cui egli vive sono parti fondamentali di questo intreccio. Ecco perché l'autore, da profondo conoscitore, quale egli è, dei meccanismi che riguardano il funzionamento del corpo umano, usa spesso la metafora medica parlando dei "disturbi del traffico come malattia della civilizzazione". Affidare le soluzioni, come avviene purtroppo attualmente per quanto riguarda la cura delle malattie, ad una tecnologia riparativa, seppur sofisticata, volta unicamente alla rimozione del sintomo, significa, alla lunga, favorire la degenerazione e la cronicizzazione dei problemi, aggravando la situazione complessiva. Dobbiamo desistere - dice Vester - dal mettere in pratica una mobilità, allettata da vantaggi economici a breve termine, i cui costi ecologici e, quindi, a lungo termine anche economici, vanno a compromettere i postulati basilari della vita sociale e delle generazioni future. Una mobilità che porta alla paralisi. Perché le conseguenze di questo modo di concepire la mobilità, tutto volto ad un profitto "tutto e subito", è sotto gli occhi di tutti. Anche in economia ci avviamo verso la paralisi. Il fenomeno della mondializzazione, il movimento incessante delle merci, dovuto al trasferimento della produzione nei paesi a basso salario, sono un altro esempio di mobilità che non produrrà, a lungo andare, ricchezza per nessuno ma, semmai, più sfruttamento nei paesi poveri e più povertà nei paesi cosiddetti "progrediti" a causa della crescente disoccupazione e della stagnazione conseguente al blocco salariale. Ma è ancora possibile uscire dall'emergenza? Chi pensa di trovare in questo libro toni apocalittici, rimarrà deluso. Vester traccia gli scenari della mobilità attraverso un'attenta valutazione di tutti i fattori in gioco ed illustra, con grande lucidità, le possibili vie d'uscita, offrendo soluzioni concrete e vantaggiose. Beppe Grillo, cui va il merito della scoperta, lo presenta come "un libro straordinario che dovrebbe essere regalato agli assessori al traffico, all'urbanistica e al ministro dei trasporti pubblici, con l'obbligo di meditarne venti pagine ogni sera prima di coricarsi". Noi non arriviamo a tanto. Ci limitiamo a dar loro un buon consiglio. Forse, leggendolo con attenzione, potrebbero trarne proposte nuove, più fantasiose, sicuramente diverse da quella di costruire nuove strade o nuovi parcheggi per fronteggiare il traffico, poiché - come dimostra l'autore - "Se lo si affronta con misure parziali, lo si appesantisce anziché alleggerirlo". Insomma, ormai è matematico: più strade - più auto - più parcheggi; uguale: più traffico. Ma pensiamo di consigliarne la lettura anche agli ambientalisti che si sono scordati di pensare globalmente per agire localmente. Vester, infatti, mette in guardia dall'uso disinvolto di una politica tutta rivolta a ricercare le compatibilità. Spesso piccoli successi parziali, fini a se stessi, riaddormentano le coscienze dei cittadini e di coloro che avevano dato vita ad importanti iniziative civiche. Per quanto ci riguarda, crediamo di aver fatto la nostra parte, portando sulle nostre spalle - scoperte - di editori "piccoli, ma belli" il peso dei costi di traduzione e di pubblicazione di quest'opera importante. Ma, si sa, all'amore non si comanda. Ora il libro è disponibile nella Biblioteca per il Terzo Millennio. A voi la lettura!

Neve artificiale? Pensiamoci!

All'inizio la neve artificiale completava qua e là la neve naturale. Oggi sulle piste è l'inverso
Internazionale 677, 25 gennaio 2007

Sempre dal cielo viene. Ma è diverso se la neve la portano le nuvole oppure gli elicotteri che l'hanno prelevata su una montagna lontana. L'eliski, cioè portare con l'elicottero alcuni facoltosi sciatori là in alto dove c'è la neve, è già discutibile.Ma cosa pensare dell'elisnow, cioè portare con l'elicottero la neve là in basso ad alcuni facoltosi sciatori? Non ci volevo credere finché non l'ho visto con i miei occhi: con 150 voli di elicottero e per 300mila euro hanno trasportato seimila metri cubi di neve per ricoprire la stretta lingua verde della pista di slalom di Kitzbühel a fine gennaio.Contratti televisivi e pubblicitari, decine di sponsor, milioni di telespettatori, migliaia di posti di lavoro nel turismo e nelle attività indotte, il prestigio internazionale della località: più che di uno sport si tratta di un business. Se tutto questo è in gioco, si può capire che ai responsabili locali non resti altro che andare a cercar la neve con gli elicotteri, quando in pieno inverno le nevicate non bastano. Non fa una piega. Lo stesso vale per la neve artificiale: se dove si sono investiti miliardi per funivie, ristoranti e alberghi c'è sempre meno neve, non resta che fabbricare la neve artificiale. Non fa una piega. Ma proviamo a fare un passo indietro e a guardare le cose nel loro insieme. A febbraio l'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, pubblicherà lo studio I cambiamenti climatici nelle Alpi: adattamento del turismo invernale e gestione dei rischi naturali (snipurl.com/187u0) in cui ricorda che nelle Alpi il 1994, il 2000, il 2002 e il 2003 sono stati i più caldi degli ultimi cinquecento anni.Già oggi 57 su 666 delle regioni sciistiche alpine non possono contare più su neve sicura, cioè su almeno 30 centimetri per almeno tre mesi. Per ogni aumento di un grado della temperatura media, il limite dell'innevamento si innalza di 150 metri. Secondo l'Ocse il numero di aree sciistiche con neve sicura si ridurrebbe a 500 con un grado di riscaldamento medio, a 400 con due gradi e a 200 con quattro gradi.Se andiamo avanti così a San Remo invece dei fiori coltiveremo le banane. I garofani cominceremo a coltivarli sulle pendici dell'Adamello, dove una volta c'erano i ghiacciai, e le stelle alpine dovremo importarle dalla Groenlandia.La neve manca? Allora facciamola. Cento milioni di metri cubi d'acqua, 600 milioni di kWh e 800 milioni di euro: tanto è costato nel 2004 produrre 200 milioni di metri cubi di neve commerciale sulle Alpi con decine di migliaia di cannoni da neve. Equivale al consumo d'acqua di una città di 1,5 milioni di abitanti e al consumo annuale domestico di 130mila famiglie di quattro persone.Per trenta centimetri di neve artificiale su un ettaro di pista occorrono mille metri cubi d'acqua, pari al consumo annuale domestico di venti famiglie di quattro persone, e 25.000 kWh, pari al consumo annuale domestico di sei famiglie di quattro persone. Per innevare un chilometro di pista servono 650mila euro di investimenti e 30-50mila euro di costi annuali d'esercizio. La manutenzione di una pista da sci ormai costa di più di quella di un campo da golf.Secondo la Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra, www.cipra.org; snipurl.com/187tw) dei 90mila ettari di piste delle Alpi, nel 2004 un quarto (24mila ettari) era dotato di impianti di innevamento artificiale, con investimenti superiori a tre miliardi di euro.Campione alpino assoluto della neve artificiale è l'Alto Adige, che può innevare il 70-80 per cento delle piste, seguono Italia e Austria con il 40 per cento, poi Francia, Germania e Svizzera con circa il 10 per cento ognuna. Questi livelli, raggiunti in meno di quindici anni, crescono in modo esponenziale e con parziali sovvenzioni pubbliche. Mentre all'inizio la neve artificiale completava qua e là la neve naturale, oggi sulle piste sta accadendo l'inverso. Come spesso accade, la tecnica ci prende la mano: nata per rimediare a qualche nevicata in meno, l'industria della neve commerciale sta dilagando e diventa un modo per rendere più lunga la stagione sciistica.Come in tanta parte dell'economia, i disastri con cui facciamo del male a noi e ai nostri nipoti sono la conseguenza di milioni di singole decisioni che, una per una, non fanno una piega. Le Alpi si riscaldano. La neve e i ghiacciai diminuiscono, molto probabilmente a causa dei nostri esagerati consumi di energie fossili. E noi, per far fronte a questi effetti, aumentiamo ulteriormente i consumi di energia, in parte fossile, fabbricando la neve artificiale.Per gli economisti più ascoltati non fa una piega. Anzi. Se fosse vero che il pil è la principale misura del nostro benessere, dovremmo rallegrarci. La neve che cade dal cielo è gratuita, non aggiunge un solo euro al pil. È solo la neve commerciale che lo fa crescere, perché per farla si muovono miliardi di euro.Avere ciò che prima era gratuito ora ci costa milioni di ore di lavoro, di metri cubi d'acqua, di kWh e centinaia di migliaia di tonnellate di metalli, cemento e plastica. Sciamo esattamente come prima, ma il pil ci dice che ora il nostro benessere è aumentato.

Destrani


Da pöc ‘l sol ‘l se n’andà via
E a mi che varde föra da ‘sta finestra
Me ven ‘n torn ‘na gran malinconia.

Fos l’è tüt che aida: no s’ha pü vint agn,
E par ‘n moment come ‘n te spege
Te par de veder la to vita davànt.

De cande s’èra tosati e con gnent še še sugava,
de chi gran mazi de fiori d’aisuda che ‘n tei prai se binava
e par l’autarin del la Madona a maj se ghe portava.

A le domeneghe d’istà pasade te ‘l bosc col papà
A binar sü de de tüt... ma nant che vegne fret
‘na bela aša de legna ‘n asada sora tüt.

Me recorde ancora chel’aria certa e crüa
de erbe brüsade, l’era tüt ‘na fümena;
chele ghebe fite e baše vegnir sü da sti campi de patate.
E tüt ‘ntorn ‘l bosc dai laresi ai peci
come par incanto ‘l müdava ‘l so color.
Che destrani no se ‘l ve’ pü l’auton.


La prima nef che festa,
e che odec a pesticiarla co le sapatole sü strada,
la boca averta e la lenga föra
par ciapàr sti fiochi che crodava.
E i oci i se perdeva ‘na ota sera a vardar
sto vel che da partüt pian pian ‘l se posava.

Prest l’era ‘l dì del gran Nadal,
e par noi tosati l’era ‘na gran emozion e ‘n bel baticör
parché se spetava ‘l Bambinol
‘l papà te la nef fona co ‘na scoa de višce ‘l faseva ‘l troj
‘l ne diseva – me recorde ancora - “ spesegà!”
‘l Bambinol ‘l ne speta a la mesa de l’Aurora.
Me ven ‘n magon ‘n te nosi agn a vardarme ‘ntorn,
e no so parché sentirme così sol,
‘na lagrema me scampa via,
ma da lontan sente sonar l’Ave Maria
e ‘l par che la volese dirme - par ‘n moment -
no stai a creser che sü sto mondo no l’e pü gnent

Lidia Zorzi






NATALE (poesia aMara)


Natale, un’altra volta ancora.
Un tempo, lontano, era la gioia, ora solo un pensiero.

Laido Paese, che come Circe gli uomini in maiali hai trasformato, quale mistero sveli con quest’orgia di luci e ipocriti presepi?
come hai ridotto l’Essere in questo frastornante mercimonio? dove hai gettato il Sacro, dove il Silenzio e dove l’Infinito?

Questa è la vita? per questo siamo nati? per sopraffare l’Altro e sprofondare i giorni nell’Avere? per morire d’invidie, adoratori tristi di feticci?
“…fatti non foste per viver come bruti…” scrisse il Poeta, ma invano passano veloci le stagioni e non capiamo.

Ribellati! mio spirito, non rassegnarti al barbaro declino, e tu Donna, tu che la vita decidi, dimmi se puoi, dimmi qual ne è l’Essenza! Lo scherzo forse? l’inconsapevolezza, l’abbandono? o solitario e muto qui io dovrò restare, e infine naufrago in questo desolato mare poi perire?

Solo la tua natura può salvarmi e i tuoi occhi lo sanno, e perdermi, confuso, nel loro dolce blu mi dà sollievo.



ario dannati
IL PAESE DEI SAPIENTI
novella di Ario Dannati


Prefazione

La vicenda qui narrata si svolge nel paese di T nell’arco temporale che dal 1985 arriva sino ai giorni nostri. Protagonista del racconto la popolazione di T nella sua interezza, con riferimento ai suoi comportamenti quotidiani, alla sua cultura, alla sua smisurata narcisistica voglia di protagonismo.


Prologo


Al tempo dei fatti qui narrati T era un paese di 2467 cristiani. La vita delle persone scorreva senza particolari entusiasmi, tra lavoro – nobilitato passatempo in cui quasi tutti a T trovavano piacere, ragione e scopo – e piccole residuali attività ricreative che rompevano il monotono scorrere del tempo. A T si stava bene. C’era tutto quanto una persona normalmente dotata di cervello avrebbe potuto desiderare. C’erano chiese, c’erano bande musicali, c’erano cori polifonici, c’era un teatro, c’era una radio, c’erano campi di bocce, di tamburello, di pallone, c’era un oratorio, c’era una casa di riposo, c’era un asilo, c’era una scuola, c’era campagna, c’erano stalle, c’era la neve, c’erano monti, c’erano rivi e torrenti, c’erano api e apicoltori, c’erano monache e c’erano preti; e tanto e tanto ancora. Soprattutto però c’era a quel tempo il più prezioso dei beni che si potesse desiderare e che molti, in altri luoghi, meno fortunati, agognavano: la tranquillità. Ebbene – ciò nonostante – la popolazione di T non si sentiva affatto soddisfatta: aveva uno spirito irrequieto, smanioso; una voglia mai appagata di sentirsi sempre al centro dell’attenzione, di fare e di apparire, di essere protagonista e di far sapere a tutti di essere la migliore, la più capace, la più dotata. E forse c’era del vero: ma di una cosa era totalmente priva: di umiltà. Anche per questo col tempo nei paesi vicini T venne chiamato ironicamente (ma non troppo) il paese dei sapienti.
Accadde tutto, rapido e inaspettato, in una calda giornata di luglio. Da poco era passato mezzogiorno. La tragedia si compì in pochi minuti: un piccolo invaso di fango ruppe gli argini e piombò sulle abitazioni sottostanti. Ci furono 268 morti. Vittime anch’essi di quella sapienza tanto ironica quanto inesistente che da sempre aveva contraddistinto oltre che la popolazione anche – giocoforza – chi essa amministrava. Il lutto fu elaborato con sorprendente velocità. E i poveri morti, tragico risultato dell’incuria e della superficialità asservita alla brama di profitto, che puntualmente nelle successive, ripetute, enfatiche, ipocrite, celebrazione dell’anniversario si ricordavano uno ad uno su grandi necrologi affissi ovunque nel paese – nell’intimo della coscienza collettiva della popolazione – furono velocemente dimenticati.
Quei tragici giorni lungi dal far rinsavire la comunità di T agirono come il morso della tarantola. T fu percossa da una spasmodica convulsione. La brama di profitto che era stata all’origine della tragedia e che annualmente veniva fintamente esorcizzata con le celebrazioni dell’anniversario, divenne la vera ragione di vita di gran parte degli abitanti di T.
I familiari delle vittime furono risarciti con una valanga di denaro che una legge appositamente promulgata obbligava fosse investita in beni immobili, e fu proprio questa imposizione che involontariamente dette inizio alla frenetica danza collettiva. La chiamarono “ricostruzione”. In realtà nulla del preesistente fu ricostruito. Iniziò così la lunga corsa, al giorno d’oggi ancora non conclusa, della gente di T verso l’effimero miraggio della ricchezza e alla ricerca di un irraggiungibile equilibrio tra avidità, narcisismo e benessere.
La frenesia arrivò velocissimamente al parossismo. T divenne una specie di Bengodi. Per la legge del contrappasso a T ogni occasione era buona per organizzare feste di popolo, ogni nuovo morto, specie se giovane non riusciva nemmeno a suscitare rimpianto che diventava un nuovo “memorial”. Si contarono in pochi anni decine di memorial. 1° memorial Tizio, 3° memorial Caio, 8° memorial Sempronio, e così via. In dicembre il paese veniva indecentemente addobbato da centinaia e centinaia di luminarie. Si facevano presepi ovunque. Ogni balcone, ogni finestra, ogni portone, un presepe. Una vera e propria gara. In estate altre gare, altre mostre. Feste della birra. Festa dei grostoli. Festa dei crofeni. Festa delle luganeghe. La tonda del Frànzele. La tonda del Céschele. La tonda del Teodoro. E ancora gare di ogni genere: la comunale, quella dei rioni. La gara dei pedondèri, la gara dei laghèri, la gara degli stavaròli, la gara dei socèri. Un crescendo immondo di occasioni di superficialità, di esternazione della parte più grossolana e volgare della comunità, e contemporaneamente la corsa sempre più spasmodica alla speculazione, edilizia in primis, e di ogni altro genere in secondo, che era ormai divenuta la cifra di T….


Capitolo 1

Emarginato da un contesto che appariva e si rivelava sempre più schifosamente vacuo, effimero, esclusivamente materialista. Sembrava impossibile che una comunità così duramente provata non trovasse altra ragion d’essere che quella di divertirsi, speculare e di cercar profitto.
Gli amici se n’erano andati, risucchiati dal fremito collettivo…

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

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Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
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MINU

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