Se qualcuno di voi deambulasse per il Lombardo Veneto alla ricerca dei trecentomila martiri (in fila per sei col resto di due) che Bossi ha minacciato di far scendere dalle montagne «coi fucili caldi» a difesa del Fe-de-ra-li-smooooo, gli suggerirei di rientrare immediatamente alla base. Il capo della Lega è manesco soltanto a parole. E sono parole, per fortuna, che in vent’anni di maltrattamento continuo del vocabolario non hanno mai prodotto neppure un fatto. Non dico un pugno, ma neanche una spinta. La platea naturale di Bossi sono i bar di provincia immortalati dai libri di Stefano Benni. Quelli dove il bullo del paese passa le ore a titillare il vassoio delle patatine, raccontando agli astanti sempre le stesse storielle, ogni volta dilatando i numeri e gli aggettivi. L’Umberto in versione Osama Boss Laden non è mica l’algido Alemanno, che misura anche i respiri, e quando dice una cosa esiste il sospetto fondato che la farà. E’ un burbanzoso Varesotto con la testa finissima ma l’eloquio roboante: così scostato dalla realtà da risultare innocuo. Indignarsi a ogni piè sospinto per i suoi modi inurbani, lanciando allarmi democratici contro l’equivalente di un rutto, non presenta alcuna utilità. Più interessante sarebbe accorgersi che i suoi elettori parlano come lui e quindi lo capiscono molto meglio della sinistra e dei giornalisti, non necessariamente di sinistra, che in questi vent’anni della Lega non abbiamo mai capito un… volevo dire: niente
Massimo Gramellini
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