10/11/07

IL BULGARO E I BULGARELLI


Ventuno senatori della sinistra, fra i quali purtroppo due giornalisti dalla testa libera come Zavoli e Polito, scrivono al governo per chiedere «un’adeguata risposta» a Filippo Facci, il corsivista che sul Giornale aveva criticato la Rai, definendola «una cloaca» ed esortando i politici a privatizzarla o a trasformarla in un vero servizio pubblico. Con la prontezza di riflessi di un portiere, o di un cecchino, la tv di Stato estromette Facci dal parco ospiti del programma di Santoro, che per ironia della sorte lo aveva invitato a discutere della censura patita da Biagi dopo il famoso editto bulgaro di Berlusconi. Gli epurati che epurano, un’autentica squisitezza. Condivido l’opinione di Facci sulla Rai, con l’eccezione della terza rete, l’unica ad aver conservato una personalità non becera e volgare. In un afflato mal riposto di utopia, mi auguro che quando la sinistra troverà finalmente un quarto d’ora per fare la legge Biagi (Enzo) sul conflitto di interessi, avrà la forza di accostare al provvedimento il suo gemello naturale: la liberazione di Saxa Rubra e Viale Mazzini dall’abbraccio oppressivo della politica. Ma se anche non fossi d’accordo con Facci (mi capita spesso, per fortuna di entrambi), troverei ugualmente aberrante che si impedisca di far parlare alla tv pubblica chi quella tv ha osato criticare con linguaggio ruvido. La Rai non è casa loro e tanto meno cosa loro. La Rai è di tutti, anche di colui che la spernacchia. E quelli che predicano bene contro la prepotenza della gens Silvia, dovrebbero poi sforzarsi di razzolare un po’ meglio.


di Massimo Gramellini da "La Stampa" del 10/11/07

06/11/07

DIOMIRO


Ci aveva sempre creduto, perché amava i suoi genitori e perché era sensibile. Il nome di Dio invano non lo si poteva dire, mai! Un giorno di primavera, a scuola, una coloratissima farfalla entrò dalla finestra e al suo apparire, Beppino, un suo compagno di classe, non riuscì a trattenersi e proruppe: “Dio, dio, che farfalla!” Diomiro scattò, come la molla di una trappola, alzando la mano e chiedendo di essere urgentemente ascoltato dall’insegnante e con slancio sincero e il cuore in gola si affrettò a denunciare con enfasi e ritmo particolarissimi la clamorosa sentenza: “Maestro, Beppino-ha-detto-dio-dio-che-farfalla!”. La classe scoppiò in una fragorosa risata, e Diomiro ci restò male.
Era così, puro e semplice, convinto che bisognasse sempre essere coerenti e rispettare ciò che ti era stato insegnato. Amava la musica, e l’arte in genere, come capita spesso a chi è di animo buono. La sua formazione religiosa inculcata col rigore della dottrina preconciliare stentava ad adattarsi alla revisione del Concilio Vaticano secondo. Dall’austera dogmatica sontuosità delle liturgie in latino alla leggera trasparenza postconciliare; dalla schematicità rigorosa, manichea e a tinte forti del Catechismo ripetuto all’infinito, dove l’Inferno era rappresentato dal rosso del fuoco eterno e dai dannati senza pace e il Paradiso da un celeste e rarefatto sospeso di anime incantate e gaudenti, si era passati a una indefinita interpretazione dei luoghi dell’oltretomba dall’incerto immaginario, che avrebbe in pochi decenni trasformato la religione cattolica nella più confusa delle professioni di fede. E difatti a Diomiro il conto non tornava più. Troppi tasselli erano stati sottratti o modificati e l’impalcatura traballava paurosamente. Ciò che prima era proibito adesso era concesso. Anzi era dovuto! Molti tabù improvvisamente rimossi, o quasi…
La fregatura stava proprio lì. Avere in testa “un racconto” con un suo preciso impianto filologico mandato a memoria come prevedeva l’insegnamento del vecchio Catechismo e poi ritrovarsi improvvisamente con troppi vuoti, troppe licenze. E non sapere più sin dove osare. Ciò che per i più era apparsa come una “liberazione”, a quelli per intenderci che a messa, la domenica, ci andavano per avere la coscienza a posto o meglio, come si diceva in quel paese, “par esser sò de festidi”, per Diomiro invece, era stata l’origine di un grave conflitto interiore cui non riusciva a dare soluzione. Probabilmente era stata quella Chiesa, vecchia di secoli, fatta e pensata per governare le comunità chiuse e le antiche economie rurali e il cui presupposto apparente era un’umanità denaturata e rigidamente controllata nei rapporti interpersonali a tradirlo. Il vero credente doveva essere totalmente alieno dalle pulsioni dell’es: ciò era, ovviamente, una pretesa inconciliabile con le ragioni biologiche del vivere e dunque, giocoforza, ipocrita. Diomiro proveniva da una famiglia agiata, il padre artigiano, la madre casalinga. Non conosceva la durezza della vita contadina che a quel tempo accomunava la maggioranza delle famiglie del paese. E la sfortuna gli veniva proprio dall’impossibilità di tirarsi fuori da quella "cultura di chiesa" così opprimente e soffocante che lo aveva accompagnato sin da bambino. Messe, funzioni, vespri, rosari, novene, funerali, dottrina, catechismo, eccetera. Un troppo pieno che gli negava il resto. E come se non bastasse, dopo tutte quelle partecipazioni liturgiche e i doveri scolastici quotidiani, il tempo che gli avanzava lo dedicava un po’ per forza e un po’ per abitudine a leggere ciò che la biblioteca di casa offriva: libri di devozione, di peccati, di penitenze, di atti impuri, di tormenti infernali. Non c’era stalla in casa di Diomiro, non c’erano né ’l porcel te la rèla da accudire né le vacche da mólser o da menàr a pasto e vardàr via e così lui non viveva in contatto coi campi, con i asèrdi e con le bisse, col bosco, col pascolo, con la terra, con gli amici. La mancanza del gioco, del tempo ludico di quella sua giovinezza alla fine pesò eccome. Gli divenne tutto pesante, impegnativo. Troppe energie psichiche se ne stavano andavano in quel vortice di pensieri ricorrenti. Gli altri si adeguavano. La natura questo prevedeva, comunque. E seppur l’intransigenza dell’autorità religiosa in paese fosse tollerata generalmente da tutti o quasi, ed i precetti, i comandamenti, gli obblighi, fossero da tutti (o quasi) rispettati e assolti, la vita presupponeva altro e dunque in fondo la doppiezza di quella comunità che si percepiva anche allora, pur mitigata dalla semplicità di quei tempi e di quella vita, diventava una necessità, se si voleva vivere: fingere per non morire. E proprio per questo, forse, quel paese, che era stato un’autentica fucina di sacerdoti, aveva nel suo DNA una fortissima dose di fariseismo…
Passarono alcuni anni. In una grande città del Nord – dove si era trasferito per lavoro – gli capitò un brutto incidente d’auto. Restò in coma per parecchi mesi e al suo risveglio, qualcosa era cambiato.
Diomiro non era sposato, non perché le donne lui non le vedesse o non lo interessassero, ma perché alle donne, che sono animali veri, anche allora (è legge di natura) piacevano gli aitanti, di bell’aspetto e vigorosi, i pragmatici intraprendenti, gli opportunisti ed estremisti per finta, quelli che alla fine si confanno astutamente alle tendenze dei tempi. In natura è sempre l’elemento femminile che conduce le danze. La cultura maschilista si illude di decidere, ma in realtà le scelte le compie sempre la donna. È tutto ovvio e governato dalle leggi biologiche. La natura così vuole e le cose così vanno… Diomiro purtroppo, era semplicemente un uomo, né aitante, né particolarmente vigoroso: un normotipo tranquillo dotato di qualità poco apprezzate: sincerità e sensibilità. Insomma, il tempo passò e lui restò scapolo. Una condizione che dopo una certa età comincia a pesare. Proprio quando si perdono per ovvie ragioni anagrafiche, gli affetti più cari, quelli primari, quando forte diventa il bisogno di qualcuno vicino con cui condividere il tempo, parlare, confrontarti. E invece nulla, nessuno. Guardandosi intorno si sentiva sempre più solo, fisicamente solo e bisognoso d’affetto, e oltre tutto privato della possibilità di scambiare idee e pensieri che i più non sentivano affatto importanti. Fu così che poco a poco, iniziò la fase di interiorizzazione e di elaborazione delle sue convinzioni. La solitudine in una società che privilegia l’esteriorità, che ha i suoi cardini nei termini ipocrisia e approfittare è la compagna più sconveniente che possa capitare a chi è semplice, sincero e di animo gentile. Perché ti cinge e da essa non riesci più a liberarti. Per Diomiro era ogni giorno più difficile dare un senso alla sua esistenza. Perché la vita ha i suoi presupposti inderogabili e affinché possa dirsi compiuta attraverso di essi bisogna passare. Ma da soli non si può… Lui non poteva raggiungere quell’ obiettivo minimo, di base, perché s’era ritrovato solo. Completamente solo! Con le sue convinzioni, la sua sensibilità, i suoi sentimenti genuini, in un mondo materialista sostanzialmente “falso”. I primi sintomi di quel malessere furono degli improvvisi e repentini cambiamento d’umore. Dall’euforia alla prostrazione in un niente. Il gusto dell’eccesso, della stravaganza, il dire chiaro, gridato!, pane al pane, sempre e comunque. La insopprimibile necessità di farsi notare. Per sentirti ancora esistente, vivo. Ma Diomiro, tutto questo lo esternava agendo attraverso la sua cultura e la sua sensibilità, che in quel luogo erano aliene ai più. Il tempo alimentò la maldicenza e il bisbiglio isolato si fece in breve rumore di fondo. L’è mato, l’è mato!... Perché trascorrere gran parte della notte girovagando in auto di locale in locale e “farsi” di psicotropi e straparlare e affogare i pensieri dell’alcol obnubilando i sensi e… è una tollerata “necessità” che non pregiudica affatto il pubblico giudizio di sanità mentale, ma far passare le ore più difficili ascoltando uno struggente “Libera Me” di Verdi nel buio di una stanza, con le lacrime agli occhi e la finestra socchiusa, è indubitabilmente segno di pazzia…

Tratto da “Il Paese dei sapienti” di Ario Dannati

02/11/07

A LIVELLA


Ogn'anno, il due novembre, c'é l'usanza per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza, anch'io ci vado, e con dei fiori adorno il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.

St'anno m'é capitato 'navventura...dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo, e che paura!, ma po' facette un'anema e curaggio.

'O fatto è chisto, statemi a sentire: s'avvicinava ll'ora d'à chiusura: io, tomo tomo, stavo per uscire buttando un occhio a qualche sepoltura.

"Qui dorme in pace il nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese morto l'11 maggio del '31"
'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto......sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto: cannele, cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore nce stava 'n 'ata tomba piccerella, abbandunata, senza manco un fiore; pe' segno, sulamente 'na crucella.

E ncoppa 'a croce appena se liggeva: "Esposito Gennaro - netturbino":
guardannola, che ppena me faceva stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettavaca pur all'atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero, s'era ggià fatta quase mezzanotte,
e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero, muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.

Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano? Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...Penzaje: stu fatto a me mme pare strano...Stongo scetato...dormo, o è fantasia?

Ate che fantasia; era 'o Marchese: c'o' tubbo, 'a caramella e c'o' pastrano; chill'ato apriesso a isso un brutto arnese; tutto fetente e cu 'na scopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro...'o muorto puveriello...'o scupatore. 'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro: so' muorte e se ritirano a chest'ora?
Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo, quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto, s'avota e tomo tomo..calmo calmo, dicette a don Gennaro: "Giovanotto!

Da Voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato di farvi seppellir,
per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va, si, rispettata, ma Voi perdeste il senso e la misura;

la Vostra salma andava, si, inumata; ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non possola Vostra vicinanza puzzolente, fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso tra i vostri pari, tra la vostra gente"


"Signor Marchese, nun è colpa mia, i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' sta fesseria, i' che putevo fa' si ero muorto?
Si fosse vivo ve farrei cuntento, pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'ossee proprio mo, obbj'...'nd'a stu mumentomme ne trasesse dinto a n'ata fossa".


"E cosa aspetti, oh turpe malcreato, che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!"
"Famme vedé.. piglia sta violenza...'A verità, Marché, mme so' scucciato'e te senti;

e si perdo 'a pacienza, mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...


Ma chi te cride d'essere...nu ddio? Ccà dinto, 'o vvuo capi, ca simmo eguale?......Muorto si'tu e muorto so' pur'io; ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".
"Lurido porco!...Come ti permetti paragonarti a me ch'ebbi natali

illustri, nobilissimi e perfetti,da fare invidia a Principi Reali?".


"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!! T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella che staje malato ancora e' fantasia?...'A morte 'o ssaje ched'è?...è una livella.
'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo, trasenno stu canciello ha fatt'o punto c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme: tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssenti...nun fa 'o restivo, suppuorteme vicino, che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"

Antonio de Curtis (Totò)

30/10/07

LA RESA DEI CONTI




Egregio Euro, ho scoperto il tuo blog e devo ammettere che è molto meglio del mio; più profondo e divertente, più dotto, più documentato. Dopo i dovuti apprezzamenti, permettimi di fare due osservazioni a questo "vecchio" post (LEZIONI DI ECONOMIA), perché proprio di economia o roba simile, mi occupo. Niente da dire in merito al paradosso. Se non che: 1. l'amico PIL è un aggregato statistico, e come tale non centra con i "meccanismi economici" ma è solo frutto della stupidità umana; 2. la spesa (anche quella pubblica) "genera" PIL e il problema non è una scelta fra spese e PIL. Il fatto è che il PIL non considera i "mali" prodotti dal sistema (immondizia, inquinamento, distruzione del patrimonio etc.) proprio quelli che tu combatti!; 3. i topi non sanno niente di economia, ma si comportano esattamente come i modelli (astratti) degli economisti vorrebbero l'economia (nostra, reale) funzionasse: cioè fondati sull'egoismo utilitarista. vi sono in merito interessanti esperimenti: ebbene si, noi economisti facciamo anche esperimenti con i topi!) Allora, per concludere, ti chiedo, non sarà che se loro sopravviveranno e noi no, è solo colpa della nostra "umanità"?


Cordialmente. Un giovane economista

Gentile economista, scusa il ritardo con cui ti rispondo e la sommarietà della mia risposta, ma poiché lavoro posso dedicare a questo spazio solo tempi residuali. Premetto, per correttezza, che il pezzo cui fai riferimento non è mio, cosa che peraltro avevo ben messo in evidenza in calce allo stesso. Dunque mi permetto di risponderti considerando la sola puntualizzazione n°3 del tuo commento sperando di aver interpretato esattamente il senso della tua domanda. Tu mi chiedi se l’ipotetica scomparsa dell’uomo potrebbe in qualche modo essere conseguenza della sua “umanità”. Beh, se per umanità intendi quel coacervo fatto di conoscenze, di capacità di raziocinio, di passioni, di memoria storica, di fantasia, di estro, di irrazionalità, financo di stupidità, che costituisce la magmatica essenza dell’uomo, allora certo posso condividere la tua ipotesi. L’uomo è in effetti l’unico animale in grado di pensare e ragionare ma anche l’unico capace di essere imprevidente e stupido. I topi citati in quel post agiscono come dici per puro egoismo utilitarista, ma quando sono sazi (e la sazietà nel loro caso coincide con un appagamento fisiologico) si fermano. L’uomo invece, che è fatto d’altro, non solo di istinti, ma appunto di passioni, di smanie, di presunzione e di stupidità, ed è istigato ossessionatamente a consumare all’impazzata dall’invasiva onnipresente pubblicità, non riesce mai a saziarsi e a capire di doversi fermare. Qui sta il punto dolente: l’impossibile quadratura del cerchio! Perché il mito della crescita economia che viene evocato ad ogni piè sospinto dalla classe politica (qualunque essa sia e, beninteso, sempre suggerito dall’intangibile “Libero Mercato”), e spacciato per la panacea del mondo, non tiene affatto conto dell’impossibilità fisiologica della crescita infinita. Economia è parola ambigua con parecchie e antitetiche accezioni. Tra queste, ad esempio, parsimonia, risparmio, e cioè, liberamente traducendo, uso controllato e coscienzioso delle risorse. In verità però l’accezione più comunemente intesa del termine significa il suo esatto contrario: spregiudicato uso delle medesime risorse per far si che la “macchina economica” cui fa conto una parte minoritaria di umanità continui la sua corsa verso un sempre più improbabile benessere. Se pensiamo a quali siano i “bisogni” che questo sistema soddisfa, per l’appagamento dei quali l’uomo sta distruggendo il suo habitat, viene da credere che i topi appunto siano molto, molto più evoluti di noi. Comunque la si pensi, una cosa è certa: questa parte di Umanità - al di là dello sviluppo tecnologico - è in una fase involutiva. E a riprova di ciò basti considerare che l’uomo ha toccato le vette artistiche, filosofiche, spirituali, e di conoscenza in generale, molto prima di raggiungere questo “benessere”. Oggi, mentre noi, abitatori del “primo” mondo viviamo immersi nella volgarità dei costumi e nella corruzione diffusa, agognando, invidiosi, automobili lussuose e residenze principesche in cui ostentare tutta l’insipienza di questa decadente “civiltà occidentale”, i rimanenti 2/3 dell’Umanità sopravvivono tra quotidiani attentati, guerre, fame e disperazione. Immagini e scenari di lutti e tormenti indicibili che le televisioni ci propongono ogni giorno, alternandole a dosi sempre più massicce di programmi rincretinenti. La somministrazione quotidiana di stupidità ci permette di percepire il tutto molto ovattato e lontano. Un doping di massa con un “target” indiscriminato. Sopire e dimenticare: è uno dei presupposti del nostro stile di vita. Lo sviluppo industriale dal dopoguerra in poi è stato costellato da tragedie ambientali e umane di ogni tipo (da Bhopal a Chernobyl, da Seveso a Marghera, dal Vajont a Stava) che però in nome del progresso sono sempre state “metabolizzate” e nel comune sentire considerate accidenti inevitabili del cosiddetto benessere. Finché quelle tragedie restavano circoscritte all’ambito geografico in cui accadevano, questa parte di Umanità poteva (grazie all’anzidetto presupposto) continuare tranquillamente a non pensare. Ma l’oste a sbornia conclusa esibisce sempre il conto. Sempre. Ora la situazione è cambiata. Adesso la misura è colma e lo sviluppo economico senza freni perseguito a partire dalla rivoluzione industriale sino ad oggi (per oltre 150 anni solo nel cosiddetto Occidente, ma ormai mito planetario, leggasi Cina e India) già comporta drammatiche conseguenze ambientali a livello globale, tendenzialmente in peggioramento. L’ecosistema è al limite, credere (e far credere) che grazie alle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo economico ogni individuo di questa parte di Umanità possa continuare a comportarsi irragionevolmente e ostentare più agi e privilegi di quanti ne avevano Luigi XIV di Francia e la sua corte, nonché sostenere oltre ogni logica che detto “sviluppo” non potrà mai avere fine, è semplicemente folle. Chi riesce ancora a pensare non ha più dubbi in merito, è urgentissimo riconsiderare il nostro stile di vita: moderandone i consumi e riconsiderandone i “bisogni”, per permettere a noi drogati di "benessere" di disintossicarci e ai restanti 2/3 di abitatori di questo pianeta di disporre delle risorse naturali fondamentali per vivere. Ne va semplicemente del mantenimento del nostro habitat. Ora faccio io due domande a te. Ma dove vogliamo arrivare? E gli economisti che tutto questo studiano quando cominceranno a preoccuparsi?

euro

29/10/07

L'ULTIMISSIMA CENA


Invoco un secolo di tregua per il Cenacolo di Leonardo. Da quando Dan Brown lo ha posto al centro del suo complotto planetario, per l’affresco milanese non c’è più stata pace. La polemica sull’identità del personaggio alla destra di Gesù - Giovanni o la Maddalena - ha attirato addosso al dipinto ancora più turisti. E i turisti hanno attirato ancora più smog. Circostanza smentita ieri dall’assessore alla cultura Vittorio Sgarbi, che ha addossato tutte le colpe del logorio all’improvvido pennello di Leonardo: «Quella cagata di affresco non si può danneggiare più di così». Sgarbi va capito. E’ inconcepibile che gli studiosi internazionali non abbiano neppure contemplato l’ipotesi che la figura alla destra di Gesù nell’Ultima Cena possa essere lui. Inoltre, avendo egli esaurito la lista di persone da insultare, era abbastanza prevedibile che prima o poi avrebbe cominciato ad attaccar briga con gli oggetti inanimati. Prossimamente prenderà a schiaffi un obelisco egizio e querelerà l’Everest per eccesso di freddezza nei suoi confronti. Passare in quindici anni dagli improperi a Di Pietro a quelli contro Leonardo rappresenta anche per Sgarbi un bel salto esistenziale. Ora che il più è stato fatto, avrà meno remore a definire «cagata» un canto di Dante, una sonata di Mozart o un gol di Maradona. Purtroppo non basta seppellire di letame i capolavori per passare alla storia. Fra un secolo la «cagata» di Leonardo avrà ancora torme di visitatori. Quelle di Sgarbi, invece, non interessano più a nessuno già adesso.

Massimo Gramellini – La Stampa 29/10/2007

26/10/07

C'E' OPINIONE E OPINIONE, OVVERO L'IMPORTANZA DI ESSERE "FORESTI"


La lettura dell’articolo di Renzo M. Grosselli (L’Adige, mercoledì 12 settembre 2007), avente come oggetto la grave congestione da traffico in cui versano i centri storici delle valli, ha suscitato in noi delle perplessità non tanto in merito ai contenuti della questione quanto ai termini in cui essa è stata posta.
Siamo infatti ben consapevoli della problematica e della necessità di attuare dei provvedimenti che la ridimensionino e che conducano verso una mobilità maggiormente equilibrata.
Tuttavia ci interroghiamo sull’opportunità di sollevare il problema attraverso i giudizi e le osservazioni dei villeggianti anziché porgere l’orecchio ai lamenti di chi per necessità si ritrova a subire la situazione non solo durante un paio di brevi settimane estive bensì lungo un intero e faticoso anno.
Ammettiamo che magari sia non banale trovare qualche indigeno che si produca in simili esternazioni. Infatti gran parte dei nativi sono saldamente e compulsivamente al volante di ridondanti automezzi intenti a percorrere, ogniqualvolta si renda necessario anche il minimo spostamento, le strette strade del borgo dando prova di insipienza e totale sconsideratezza.
Si dà il caso però che qualora qualche coraggioso paesano dissidente – non dimentico del piacere di calpestare gli annosi “salesài ” e i ruvidi “bolognini” – si permetta di avanzare delle critiche, questi venga prontamente tacciato di eresia, bollato come retrogrado passatista, incapace di vivere al passo coi tempi, di partecipare all’arrembante frenesia consumistica – altrimenti detta progresso – associata alla concezione di un benessere tanto effimero quanto illusorio, più ostentato che percepito.
Le sortite del dissidente sono attribuite alla bizzarria, alla stravaganza di uno spirito eccentrico non meritorio di significativa attenzione se non forse di un accondiscendente sorriso.
Ma i turisti, ovvio, costituiscono un’altra categoria, dopotutto sono e restano sempre “i siori” come programmaticamente s’usa dire fra questi monti.
Ecco quindi che il turista solamente ha il privilegio di ergersi quale autorevole giudice ed i verdetti emessi vengono accolti dai buoni amministratori, divenuti improvvisamente solleciti, quali sentenze degne della massima nota.
In nome dell’antica ospitalità delle nostre rustiche genti montanare questo ed altro.
Abbiamo infatti da tempo palesato quanto sappiamo essere prodighi quando si tratta di soddisfare le esigenze del sacro e pregiato ospite che qui giunge da ogni dove per ritemprarsi, fra coste selvose e … soavi olezzi.
Lo stiamo tuttora dimostrando in termini di insistito sfruttamento territoriale, di spregiudicate politiche urbanistiche, di sfregi paesaggistici, attraverso il kitsch ed il cattivo gusto venduti per cultura e tradizione.
Sostenibilità economica, ecologica e sociale sono concetti buoni esclusivamente a riempire la bocca in occasione di fatui esercizi retorici.
Ma la retorica serve a poco se non vi è autentica comprensione dei problemi, lungimiranza per presagirli, emancipazione rispetto alla filosofia del “cliente ha sempre ragione” e soprattutto la capacità di elaborare una visione olistica dell’esistente in opposizione all’ invalsa pratica del ragionar per compartimenti stagni, quel tanto per realizzare in fondo che il traffico ipertrofico non è che un accidente, un aspetto patologico di un sistema di sviluppo economico e turistico lungi dall’essere sostenibile.

Settembrini

24/10/07

TELEGIORNALI: PARIS HILTON BATTE AFRICA 63 A 21




Milioni di vite al limite della sopravvivenza valgono un terzo dei pochi giorni trascorsi in carcere dall’ereditiera.



Uno studio realizzato da Medici Senza Frontiere (MSF) in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia rileva come le principali edizioni dei telegiornali Rai e Mediaset abbiano dedicato, nei mesi di giugno, luglio e agosto, 21 notizie alle guerre e alle loro conseguenze sulla popolazione di cinque paesi dell’Africa subsahariana; esattamente un terzo delle notizie - ben 63 - che sono state dedicate nello stesso periodo ai giorni trascorsi in carcere da Paris Hilton. Guerre, violenza, villaggi bruciati, milioni di persone in fuga costrette a vivere in campi sovraffollati, donne violentate, bambini che muoiono di fame: questa è la realtà in Darfur, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana e Ciad, dove sanguinosi conflitti hanno continuato a imperversare per tutta l’estate, nell’indifferenza pressoché totale del resto del mondo. Nello stesso periodo Paris Hilton affermava, in occasione dell’ultima passerella agli Mtv Movie Awards, prima di recarsi nella prigione di Los Angeles «Sono preoccupata, avrei potuto scontare la pena in un carcere a pagamento dove avrei trovato più comfort, ma non ho voluto cercare scorciatoie». La notizia sulla prigionia della platinata ereditiera fa il giro del mondo e viene coperta pedissequamente dai media nostrani. Le crisi umanitarie difficilmente riescono a fare breccia nell’impaginazione di tg e quotidiani perché "non fanno notizia". Ovvero accadono in paesi dove non sono in gioco interessi italiani, lontani culturalmente e geograficamente; i fatti non contengono elementi spettacolari né straordinari, fuori cioè dall’ordine comune delle cose che ci hanno (e ci siamo), nostro malgrado, abituati ad accettare. Nessun "uomo che morde il cane", per intenderci, secondo la celebre metafora sui criteri di notiziabilità giornalistici. I risultati della cura sono sotto gli occhi di tutti, basti pensare al politico che, colto alla sprovvista dalle Iene, alla domanda "Che cos’è il Darfur?" rispondeva "uno stile di vita veloce". Internet riesce quasi sempre a offrire contenuti approfonditi su tematiche generalmente trascurate dal mainstream, ma anche dal web giungono dati emblematici: nel 2007, sul motore di ricerca di Virgilio, la voce "Darfur" è stata cercata 1.412 volte, mentre Paris Hilton si aggiudica 159.108 query. A fronte allo sconcertante quadro che emerge dal rapporto sulle crisi dimenticate, Medici Senza Frontiere decide di non arrendersi al convincimento che il pubblico italiano sia più interessato alle vicende di un’ereditiera piuttosto che alla situazione di milioni di donne, uomini e bambini vittime delle guerre e lancia la campagna di sensibilizzazione "Dimmi Di Più". Contro il malcostume della mancanza di informazione, MSF offre un’occasione per far sentire la propria voce e chiedere un’informazione più attenta alle crisi umanitarie, rivolgendosi con una petizione sottoscrivibile on-line ai direttori dei principali telegiornali e dei quotidiani italiani.



di L.F. tratto da http://www.alice.it/ notizie del 24/10/2007

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

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