26/09/20

TESERO E I SUOI ABITANTI

Come volevasi dimostrare, dopo la pubblicazione dell'ultimo post "Coraggio, la Stasi non c'è più", il profluvio di commenti anonimi che intasava i nostri server si è miracolosamente interrotto. Di ciò, noi che la storia di questo paese la conosciamo abbastanza bene, sia per averla direttamente vissuta che indirettamente 'studiata' frequentando gli archivi di casa, non ce ne stupiamo. Questo è lo stile di codesta Comunità, forgiatosi nel tempo e introiettato via via dalla stragrande maggioranza dei residenti. 

La storia e lo stile, dicevamo. Non tutto è casuale in quel che accade nella storia di un popolo. Pesa, eccome, anche la componente genetica, che affonda le sue radici nella notte dei tempi. Seguendo questo fiume carsico, quindi, ci perderemmo di certo. Dello stile abbiamo invece contezza. La sua data di formazione risale a tempi meno remoti. Più o meno un'ottantina di anni fa. Ma le conseguenze puntuali di questo costume diffuso iniziarono a manifestarsi una ventina d'anni dopo. A dirla tutta, il libro delle Tiéserade (cioè delle malefatte pubbliche conseguenti a quello stile) registra la prima porcata già nel 1947: si trattava però di una questione tutto sommato di poco conto. Dal 1956 in avanti, a passo di carica, le malefatte amministrative si susseguono con continuità culminando, senza peraltro interrompersi, con la tragedia di Stava. Insomma, è tutto scritto. E, passando dalla storia alla cronaca di questi giorni, possiamo ribadire che, se Barbolini, per divina intercessione, questi nostri archivi li avesse bazzicati e studiati qualche mese fa, avrebbe capito che la sua squadra elettorale, come il Titanic, stava per schiantarsi contro l'iceberg ceschiniano e forse avrebbe potuto correggerla in tempo per evitare la disfatta del 22 settembre scorso. 
Ma riavvolgiamo il nastro...




Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a Tesero bastava alzare lo scudocrociato per avere ragione di un gregge ubbidiente, senza necessità di cani pastori. Paese agricolo, comunità chiusa, contatti föravia praticamente inesistenti. Si viveva dentro le cinta comunali, senza porsi domande su cosa stesse succedendo non diciamo a Roma, non diciamo a Trento, ma nemmeno a Cavalese o a Predazzo. L'artigianato, in lenta fase espansiva, permetteva ai soli 'capitani d'industria' di avere contatti con le realtà più lontane. 

Le persone parlavano di questioni basilari e concrete, del morbio e del secco, de l' aisüda e de l' altógno, de filò, de maridamenti, de nati e de morti, del tempo, de vacche e de pascoli, de campi e patate, de legna e de bosco. E poco altro. L'unica distrazione settimanale era rappresentata dalla partecipazione coatta (pena l'Inferno) ai riti religiosi della domenica.



Agli studi superiori venivano avviati soltanto i bravi macéi delle famiglie vicine al campanile. Lo stratagemma, ancorché involontario, era semplice. Ai familiari del prescelto, individuato di solito dal parroco, veniva prospettata l'opportunità di andare in Seminario per farsi sacerdote. I genitori, seppur con qualche titubanza iniziale, quasi sempre accettavano la proposta, anche per alleggerire i costi di sopravvivenza (una bocca in meno da sfamare). Al ragazzo, poi, si richiedevano 'soltanto' disciplina, applicazione allo studio, morigeratezza. La cosiddetta vocazione altro non era che uno sforzo di fantasia successivo all'investitura del prevosto. I giovani prescelti, presi tel trabichèl di parroco e famiglia, quasi sempre non opponevano resistenza e i neva 'n zo. Così, dopo il difficile ambientamento dentro la Fabbrica dei preti di Trento, per non recar danno alla famiglia e reprimendo a fatica i naturali istinti, con somma pena terminavano gli anni di studio e si consacravano; non a caso infatti il paese, intorno alla metà degli anni Cinquanta, fu una delle fucine di preti più importanti del Trentino. Non pochi però, giunti sin quasi al termine della formazione teologica, si ritiravano per sopravvenuti 'mal di testa', ovvero, usando un eufemismo, voglia di matrimonio. Furono questi i primi 'stüdiai' laici del paese, senza un titolo preciso, ma con un bagaglio culturale di tutto rispetto, acquisito peraltro gratuitamente. Nel 1960 in paese non c'era praticamente famiglia che non avesse al suo interno uno zio prete o un prete mancato diventato genitore, e conseguentemente i componenti di quei nuclei familiari, chi più chi meno, assorbivano per vicinanza, e non poteva essere altrimenti, quello stile ibrido un po' sfuggente che il termine fedelin rappresenta con efficacia, caratterizzato dalla doppiezza nei rapporti interpersonali che da seminaristi, per autodifesa, il genitore o lo zio avevano dovuto far proprio. 

In quell'epoca dunque la classe dirigente teserana si formò poco alla volta per cooptazione di mancati preti divenuti rispettabili, istruiti capifamiglia e successivamente, per 'diritto dinastico', dalle loro discendenze. Era pertanto del tutto ovvio, data la preponderanza numerica dei fedelini che il paese non contemplasse, né, conseguentemente, accettasse il pluralismo. Quelli al di fuori del gregge privi di quel calco originario e di quelle incombenti presenze familiari erano reprobi senza speranza, inascoltati dalla comunità e non ammessi a entrare dentro le stanze del comando. In quegli anni il riferimento politico era ovviamente la Democrazia Cristiana e il popolo, come un sol uomo, chiamato alle urne, votava compatto D.C. Punto e basta. Rare le eccezioni: qualche socialista, qualche socialdemocratico, un paio di comunisti, l'Anselmo Tisi e il Varisto Longo e alcuni nostalgici del Ventennio. 

Sono passati decenni. Di preti neanche più l'ombra. I seminari sono vuoti. La D.C. scomparsa da trent'anni, per i più è una sigla insignificante. Eppure quel meccanismo di selezione della classe dirigente è ancora intatto, la tara paesana non è affatto sparita. A Tesero i nipoti di quelle famiglie, un tempo in odor di sacrestia, sono ancora qui a comandare, per 'diritto dinastico'. Con quella doppiezza ereditata, alla quale con l'emancipazione hanno aggiunto la spocchia. Il Comune è Cosa Nostra. Con le buone o con le cattive nessuno si azzardi a togliercelo. 

Continuerà così. In saecula saeculorum. Amen. 

Ario Dannati 


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