31/10/09

LA SAGRA DEI RAVALESSI


Tra le tante sagre di Tesero che qui ricordiamo, Sant’Eliseo profeta (14 giugno, patronale), Madonna de le Grazie (2^ de maggio, Lago), Santissima Trinità (maggio/giugno, rione Pedonda), Madonna Addolorata (3^ de settembre, Stava) e San Bartolomeo (24 agosto, Pampeago), ve n’è una dimenticata che si festeggiava, ancora sino a 50, 60 anni fa, nel pomeriggio dell’ultima domenica d’ottobre. Era la sagra del rione di San Gianardo (da Casa Rana e Casa Löbela sino al Brüstol) chiamata “sagra dei ravalessi”. Era una sagra atipica per Tesero. L’unica pagana (e forse per questo abbandonata). Come tutte le feste pagane, che venivano e vengono tutt’ora festeggiate in questo periodo stagionale, celebrava il passaggio dalla fertilità al riposo vegetativo delle campagne, dalla luce alla tenebra e in modo più criptico e simbolico dalla vita alla morte. Era una festa di ringraziamento a conclusione dell’anno agrario (che corrispondeva più o meno a quella di origine celtica, detta di Halloween, che si festeggia il 31 ottobre). Nel rione, per l’occasione, si lessavano i ravi (tipica orticola autunnale) che venivano serviti a tavola assieme a patate tonde e miel de saügo. Contemporaneamente i ragazzi si recavano te Piasòn per il caratteristico lancio de le móncele (le più grosse rape raccolte) facendole ruzzolare a valle. Questa particolare festa meriterebbe forse di venire riscoperta e riproposta ad uso e consumo dei soli residenti, visto che, da qualche tempo, è in discreta ripresa la coltivazione della campagna locale. Suggeriamo quindi al Comitato sagre di Tesero di farci un pensierino per il prossimo anno, allestendo davanti ai Conventi e alla chiesa di San Gianardo dei banchetti di pietanze fumanti, magari aggiungendo ai ravi, alle patate tonde ed al miel de saügo, del vino novello e delle castagne. E condendo il tutto, naturalmente, con la sopraffina musica de ‘l Bandin.

L’Orco

P.S.

A proposito di fine anno agrario e di ringraziamenti il presidente onorario della Mi.Sa.Po., signor Mario Delladio, non potendolo fare personalmente, ci chiede di far pervenire agli ignoti (e idioti) buontemponi che anche quest’anno si sono divertiti a roncare con motocross o fuoristrada le campagne di Milón e Porina, la sua più profonda gratitudine.

28/10/09

27/10/09

“CONNECTING PEOPLE “


Alla corta o alla lunga voler stare ai tempi ed essere adeguatamente moderni può far emergere non poche contraddizioni. Oggigiorno nessuno fa più caso alla musichetta che si diffonde nei supermercati mentre si fa la spesa. Si iniziò qualche decennio fa. Adesso per quelli che hanno vent’anni, o giù di lì, sembra una cosa del tutto ovvia, naturale. Ma non è sempre stato così. Per chi, come il sottoscritto, visse quel fondamentale passaggio dall’essenziale nar a provéder al superfluo to go shopping, la cosa apparve effettivamente strana all’inizio. Poi ci si abituò. In seguito capimmo che si trattava di una tecnica di condizionamento subliminale per far disconnettere temporaneamente il cervello e stimolare la compulsione all’acquisto. Dietro a quelle innocenti musichette non si nascondeva dunque alcun intento filantropico. Nient’altro che psicologia applicata alle strategie di marketing.
Ormai in ogni luogo di interesse pubblico (eccezion fatta – per ora – nell’amministrazione pubblica) è un proliferare di apparecchi diffusori di suoni e immagini, quasi sempre peraltro di gusto discutibile. E così, giorno dopo giorno, al paziente del dentista, piuttosto che al cliente della cooperativa, o del bar sottocasa, si somministra un’ulteriore e 'gratuita' dose di rincoglionimento. Da un po’ di tempo, inopinatamente, anche la nostra cassa rurale si è attrezzata alla bisogna. Stupisce che il benemerito istituto di credito, sempre pronto al mecenatismo culturale, volto a mantenere quel filo importante tra presente e passato e quindi a tener desta la soglia critica del confronto tra ieri e oggi, si sia premurato di piazzare un maxischermo televisivo nel salone principale, limitando la possibilità di conversazione tra i clienti in attesa del proprio turno. Non sappiamo da chi sia partita l’idea, ma almeno in questo caso la logica della bella trovata ci è oscura.
Si vive in un mondo alienato e alienante sempre più ostile all’interazione sociale e dove le occasioni estemporanee per parlare, per confrontarsi e per discutere diventano sempre più rare. E quando quell’unica opportunità quotidiana si presenta, magari sotto forma di coda allo sportello della banca, la si compromette quasi fosse un’eventualità terrificante. Dalla cassa rurale non ce lo saremmo aspettato. Ma forse pensiamo male (come sempre!). Forse in questo caso l’intento è davvero filantropico. E forse con questa trovata la benemerita intendeva soltanto mitigare il senso di solitudine e di smarrimento, a volte addirittura di panico, che ci prende prima di entrare dentro a quei suoi confessionali vetrati... Così adesso, anche in banca, grazie ad un moderno televisore, puoi stare tranquillo, eviti di parlare 'a sproposito' delle cose locali e soprattutto hai la possibilità di non perderti nulla di ciò che accade in tempo reale sul pianeta. Sky news, la caleidoscopica 'finestra sul mondo' adesso, grazie alla cassa rurale, non ti abbandona nemmeno mentre ti accingi a pagare il conto dell’idraulico. E ti permette di essere in contatto col resto dell’umanità. Sempre, comunque e ovunque 'connected people'. L’unica controindicazione è che poi, mentre modernamente 'sai', in tempo reale, ciò che accade a Kabul, a Caracas o a Singapore, non sai quello che succede sotto i tuoi occhi te Valusella, te Sa Noesco o te Begnesin. Che (nel primo caso) la speculazione edilizia, indecentemente, s’è mangiata una parte importante di paesaggio, per lucrarci sopra (a 5.000,00 euro al metro quadro) magari anche con denaro mafioso che rientrerà sul suolo patrio grazie al delinquenziale decreto governativo dello scudo fiscale. Che (nel secondo) per far entrare nella Historia Teseri un Tizio dall’ego smisurato (che nel suo paese di residenza, Carano, evidentemente conta troppo poco, ma che qui purtroppo conta ancora tanto) il Comune ha dato il permesso di edificare una casa di riposo per ricchi nel posto più sfigato possibile tra i tanti siti più adatti disponibili in valle. Che (nel terzo) la sistemazione con la bella pavimentazione che sempre il Comune sta ultimando (grazie anche all’attivismo dell’assessore Barbolini) presupporrebbe che pian piano, anzi veloce veloce, la gente si riabituasse a frequentare gli scorci caratteristici del paese a piedi, mentre, lungi da ciò, quella gente sta invece tramando per fare lo sgambetto elettorale proprio all’assessore Barbolini. Guarda un po’ te la gratitudine…
Insomma, di musichetta in musichetta, di news in news, facendoci credere di essere veramente 'connected people' ovvero liberi di sapere e di comunicare con tutti di tutto e di più, ci stanno invece togliendo la capacità di ragionare e di pensare autonomamente in maniera critica alle cose più prossime e contingenti. Ma di questo la cassa rurale non è affatto preoccupata perché sa che ad informare esattamente la nošša ŝente delle cose locali ci penserà poi la prima radio libera d’Italia alias la os de caša nošša con il suo formidabile anchorman Emme Effe.

Post scriptum

E i 'giovani' che dicono al proposito? Niente, naturalmente! Stanno tranquilli. Ma si allenano con grande abnegazione per entrare tra qualche mese nella 'stanza dei bottoni'. Organizzando feste campestri, giornate ecologiche, sagre, corte e parlando senza convinzione di Memoria.

Ario Dannati

26/10/09

PASSAPAROLA - 26/10/2009


IL MITO DEL WEEK END: LO SFOGO DEGLI SCHIAVI


C’è una parola che, con anglofila e intrigante “verve”, si è insinuata nella coscienza comune del nostro paese, e che è diventata un pò una nuova religione: il weekend. Il fine settimana, per dirla alla casereccia, ha assurto, negli anni, a vero e proprio status symbol, con tutti i suoi derivati e connessi: happy hour, serate all’insegna del “divertimento” (leggesi sballo), frenesia anticipatoria da grande evento. Al di là delle differenze prettamente “sociali” del fenomeno, che, in luogo di un “giorno di riposo” che era altresì un momento di socializzazione, in cui si cementavano i rapporti che già si intrattenevano durante la settimana (nel lavoro, nell’osteria o bar di paese, nelle scuole e via dicendo), è diventato ora un “esodo” in una delle mecche del divertimento, luoghi spersonalizzanti in cui l’individuo, solo tra soli, è riconfermato più che mai nel suo anonimato collettivo, nel suo essere numero, quello che ci interessa è la sensazione diffusa di una “febbre da weekend”. La sensazione cioè che ci siano migliaia di persone che “vivono” per inebetirsi di aperitivi, di serate in discoteca, con gli annessi di alcool e droghe, e via dicendo. Questo fa pensare che, nella realtà, a pochissime persone piaccia la propria vita. Se il weekend diviene un momento di “sballo”, di fuga dalla realtà collettiva, di “finzione collettiva”, in cui molte volte si simula una personalità e una persona (nel senso di maschera), che non si è durante il resto della settimana, se ci sono persone che “vivono” letteralmente per questi due giorni, ci rendiamo conto facilmente che vi è un “disagio del quotidiano”, che prima non era avvertito.Strano, perché ci avevano sempre fatto credere, prima della paradisiaca epoca moderna, che ha eliminato i frustranti lavori nei campi e a contatto con la natura e di artigianato manuale, per sostituirli con la più razionale catena di montaggio, che la gente si ammazzasse di lavoro, che fossero tutti degli epigoni di schiavi, che non avevano altra ragion d’essere. La realtà è che nell’epoca in cui il lavoro è divenuto il valore assoluto dell’esistenza, con i suoi corollari della carriera, dello stipendio e della “posizione”, non si è prodotto in realtà una libertà dal bisogno e una serenità, visto che molti lavori faticosi sono stati sostituiti dalle macchine, ma al contrario si è creato un senso più sottile, più penetrante, e strisciante di schiavitù: schiavitù non solo dei bisogni, che ora sono moltiplicati rispetto alle epoche precedenti (e totalmente inutili), ma anche una forma di alienazione e di insoddisfazione dello stile di vita che si è costretti a fare per “soddisfare” questa molteplicità di bisogni indotti. E cosi la valvola di sfogo dell’operaio, dell’elettricista, della commessa, ma anche dell’impiegato, del laureato e del professionista, è divenuto il famigerato “weekend”, di cui vengono cantate le lodi in canzoni e programmi televisivi, come di un nuovo “giorno sacro”. Ma in tutto questo agitarsi e delirare per un fine settimana che compensi delle squallide esistenze che la gente è costretta a vivere, in questo desiderio di fuga continua, di “non pensare”, di cercarsi e di cercare un senso all’interno dei “templi del divertimento”, noi vediamo l’evasione onirica di schiavi, che, nel buio delle loro celle, sognano una vita diversa. L’ironia è che nemmeno nei loro “sogni”, propiziati dall’etilismo o dallo sballo chimico, essi si immaginano qualcosa di più che appartenenti ad una indefinita e convulsa moltitudine, che ama, desidera, ambisce e invidia, le stesse situazioni, gli stessi oggetti, gli stessi luoghi e le stesse persone. Allo schiavo moderno manca anche in sogno, la capacità di elevarsi a singolo, ad unico, ad individuo in luogo di “massa”, di “popolo della notte”, di consumatore di divertimento, prefabbricato e standardizzato, che dovrebbe regalare le stesse sensazioni di euforia a buon mercato, a chi vive anestetizzato nell’illusione di essere “libero” perché lavora.

Fabio Mazza

22/10/09

BUONSENSO QUASI MAI, MERDA QUASI SEMPRE!


Il lavoro nella stalla è duro. Non ci sono ferie, non c’è sabato e, manco che manco, domenica. E poi quel forte odore di ammoniaca, a cui fai l’abitudine, che ti impregna i vestiti, già sudati di loro, e fa tutt’uno con il resto dei tuoi umori. È come quello dell’aglio, dopo un po’ non lo senti. Ma lo sentono gli altri. Un recente studio americano ha scoperto che il contatto protratto nel tempo con l’ammoniaca dà al cervello. (Šaràlo vera? Sti americani i še ne ‘mpenša ogni dì ‘na növa.) È per questo che chi lavora tra le vacche non riesce a ragionare. Ventiquattrore ore su ventiquattro con l’ammoniaca nei polmoni e le bestie nella testa, da fieterar, da molser, da secodìr. Un lavoro ingrato perché di quei mansueti quadrupedi non riesci a fartene amico alcuno che alla fine possa ringraziarti. Vivono troppo poco. Le bestie sono merce, non anima-li con una loro anima, una loro affettività, un loro sentire. Quando vengono caricate sul camion, a fine carriera, per quel primo e ultimo viaggio, destinazione mattatoio, per diventare merce di consumo, sono troppo giovani per aver potuto affezionarsi a chi le accudiva. Sì, quello dello stalliere è un lavoro duro, ingrato e soprattutto “a vita”: fine pena mai! Giorno dopo giorno ti abbrutisce, ti fa perdere il senso del resto. Se ti va bene resti in pace con te stesso. Altrimenti covi un rancore contro chi fa altro. Dicono che all’origine di quella scelta di lavoro ci sia una grande passione! Bah…, può darsi, magari in rari casi. Forse, perlopiù invece, è solo un giogo dal quale non si è avuta la forza di liberarsi prontamente. E così il tempo passa. Le giornate si ripetono uguali, i mesi, le stagioni, gli anni. E la forma mentale dello stalliere si sclera. Nell’aia, nei cortili dell’azienda zootecnica, non si parla in lingua alta. Gli argomenti non lo richiedono. Si sbragia, facendo largo uso di addolcimenti vocali: le ü e le ö si sprecano. Nel ripetersi delle scarne espressione idiomatiche in uso, c’è un intercalare continuo di una semplice breve locuzione: dio porco! (o, a seconda del contesto, la variante inversa porco dio!) Che non è un improperio o peggio una bestemmia, non più. È un fronzolo, un abbellimento, anzi, meglio, è la colonna sonora della giornata dello stalliere. Ripetuta in ogni occasione. Con innumerevoli variazioni tonali e di efficacia a seconda dell’argomento in cui viene infilata. Stupore, rabbia, incredulità, sgomento, stanchezza, tutto viene sottolineato e infiorato con un dio porco!
Ma non c’è solo la stalla. I bovini mangiano. Hanno bisogno di foraggio. E dunque lo stalliere si trasforma, nella stagione estiva, in procacciatore di vegetali per il sostentamento degli erbivori. Una volta i piccoli allevatori (sostanzialmente ogni capo famiglia), quelli con due, tre, cinque vacche nella stalla, controllavano il grado di maturazione dell’erba, prima della falciatura. Sapevano che la sua buona qualità era fondamentale per garantire agli animali un adeguato alimento per l’inverno. I prati, tutti, erano dei campi in fiore: l’azzurro delle salvia e il rosa carico della lupinella s’alternavano al giallo oro della ginestrina, a quello meno intenso della vulneraria e al bianco/rosa tenue dell’achillea, al rosso/viola della centaurea. L’erba profumava. E quando ci si avvicinava alla sfioritura, solo allora iniziavano le operazioni della segagione. Perché il fiorime che poi decantava sotto l’assa dal fen era apprezzato dai bovini. Con esso si preparavano succulente mestüre, che – immagino – rallegrassero le vacche durante la lunga stagione invernale nella semioscurità delle stalle di una volta…
Da tempo però le cose sono cambiate. Oggi lo sfalcio è un pretesto. Diciamo, più o meno, una furberia ai danni delle finanze pubbliche. Per introitare contributi. Per poter edificare in zone altrimenti precluse e magari farsi la villa o in alternativa l’ agritur… I prati non profumano più di fiori colorati. Servono soltanto per disfarsi dei liquami della stalla. Della pissigna. All’inizio della primavera le bótti cariche di escrementi liquidi fanno la spola tra le vasche di raccolta e i prati dove vengono svuotate. Idem dopo ogni sfalcio allorquando il tempo minaccia pioggia. L’ammoniaca, concentrata nella pissigna in quantità spaventose, brucia le sementi dei fiori, i prati si trasformano in orribili selve di velenose ceviti (conium maculatum). Le quali, appena mature, rinsecchiscono velocemente colorando le praterie di un triste uniforme giallo-marroncino. Il fiorime non c’è più. Le cornute si accontentino delle farine e dei mangimi! E’ la modernità, bellezza. Gli allevatori di montagna, sui quali per opportunità politica i nostri amministratori spesso fanno facile apologia, costretti a barcamenarsi col mercato del latte (e del primario in generale) globalizzato e dai margini economici ristrettissimi, operano sostanzialmente come quelli di pianura, ma con la non trascurabile differenza che lì la resa quantitativa è enormemente maggiore. E infatti, da noi, senza i copiosissimi contributi che l’ente pubblico provinciale eroga a queste attività, dal punto di vista economico l’intrapresa sarebbe assolutamente deficitaria. Facendo un semplice conto della serva si può osservare sbalorditi che a fronte di un capitale animale di poche decine di migliaia di euro, queste nostre imprese zootecniche dispongono di macchine, macchinari e attrezzatura per centinaia di migliaia di euro. Insomma, pur riconoscendo che questo lavoro in ogni caso è duro, durissimo, a prescindere e che qualcuno lo farà di certo con passione, considerando la scarsa resa economica e il fatto che da un po’ di anni si riscontri un proliferare un po’ ovunque di “stalloni” con annessi villa e barbecue, qualche dubbio sulle vere finalità di questa attività è legittimo… Comunque, dubbi o non dubbi, passione o non passione, una cosa è certa: la forma mentale degli appartenenti alla categoria dei bacani è omogenea.
Quel giorno, quando arrivai nel campo, Martino e i suoi fratelli stavano cercando di sechentàr proprio quella sottospecie di foraggio brunastro in località Roncosogno. Erano stati giorni di piogge e le ceviti, ancorché ŝà šecche ‘n pè erano fradice d’acqua. Anche se l’instabilità del tempo avrebbe dovuto sconsigliare qualsiasi proposito de begàr co i atrezi, la stagione inoltrata li aveva indotti all’azzardo. Falciatrici, trattori, ranghinatori, rastrelli e uomini erano sparsi qua e là nell’ampia piana che si estende a est dell’abitato della piccola frazione teserana, verso Panchià, sulla sinistra orografica dell’Avisio. Proprio lì, dove da alcuni anni, coltivo un piccolo campo di circa mezzo staio, a patate e fagioli. Memore del disastro che la peronospora aveva provocato l’anno precedente, avevo intenzione di fare un trattamento preventivo col verderame per un possibile attacco della terribile fungina (ma anch’io azzardavo: se avesse piovuto di lì a poco il trattamento sarebbe stato del tutto vano). Dopo, se mi fosse avanzato del tempo, avrei voluto sfodegàr te i patatari per vedere come che le mossava. Dunque, entrando dalla stretta strada di accesso interpoderale, avevo percorso una quarantina di metri sul prato sfalciato e già sgombro d’erba col mio “ape” per poter portare il necessario, una pompa irroratrice, una tanica d’acqua e un po’ di attrezzi, in prossimità del šedime del medesimo campo.
Scaricato il tutto avevo iniziato il lavoro. Improvvisamente, passati pochi minuti, il caratteristico rumore di azionamento della pompa a mano venne soverchiato da uno stentoreo Dio pooorco!. Riconobbi la voce (non feci fatica) e mi girai quasi interdetto. Vidi la faccia tra il beffardo e l’ostile di Martino che, evidentemente, covava da chissà quanto la voglia di cantarmele, e rimasi ad ascoltarlo senza parlare. Ma no ŝon miga d’accordo cossita! Te l’aveva ben dito l’an passà che no te pös vegnir into con l’ “ape”! Porco dio! Te pös vegnir into sol a meterle e a cavarle!... Quante olte tel cogne dir? Dio porco! A quel punto s’interruppe. Restai ancora un momento in attesa e poi visto che non proseguiva capii che la sua lectio magistralis era già terminata. Allora tentai di replicare e almeno un po’ di ragionare: Probabilmente, ‘n ponta de diritto, ti t’as reson e mi ae torto, però se no ne perdon massa te le monae, che te cambielo? Mi šon šul mio, ‘l resto l’è ŝa šiegà. Le tre olte de numero che šon vegnü into sin qua con l’ “ape”, par no te dar despiašer t’ae addirittüra šiegà ‘l viacio e portà l’erba sin föra la stala. Me l’ae descargàda, ghe l’ae data into a le vacche,... che voe pü che merda no ghe dasé... E po’, vardete ‘ntorno…, avé qua na mesa de mezzi te tutta la piana. Še qua con trattori con rode che ghe völ la scala a montar šü, machine da šiegar, ranghinatori… e te stas qua a romper i cojoni parché šon vegnù into par la terza olta ten tré meṧi con l’ “ape” 40 metri tel šiegà par me portar sin qua sta roba che peṧa… Ma l’altro – come prevedibile – non sentiva ragione (il diritto d’altronde era sempre stato il suo punto forte): ma no, no, dio porco, no te pös, e basta!... A quel punto, capendo che continuare sarebbe stato tempo sprecato, gli tirai giù, a mia volta, un po’ di sacramenti, tanto perché la finisse. L’incanto della mattinata agreste era ormai svanito. Dopo un po’ lasciai il lavoro e me ne andai, discretamente alterato.
Il giorno appresso, sperando di aver miglior fortuna e non imbattermi nuovamente nell’irragionevolezza di quell’uomo, ritentai la sorte e scesi di nuovo al campo. Per non provocare eventuali altri dispiaceri fermai l’ “ape” föra i Stefenati pur sapendo che avrei dovuto fare più di un viaggio per portare a mano, dal motocarro al campo, quel che serviva per proseguire il lavoro interrotto. Mi accorsi però immediatamente, ancor prima di metter piede nei prati antistanti, che un’inaspettata rappresaglia per le mie incaute parole del giorno innanzi era stata compiuta. L’olezzante profumo di lavanda francese che si poteva percepire a distanza e il bel marrone intenso della piana non lasciava alcun dubbio in merito. Guardando sconsolato quel lago di pissigna, ripensai alle alte parole di Martino e a quanto era stata opportuna e soprattutto logica la sua magistrale lezione di diritto… Contemporaneamente però realizzai che lo studio americano sugli effetti dell’ammoniaca doveva essere indubbiamente esatto.

A.D. – tratto da “Il paese dei Sapienti”

21/10/09

E L'UOMO MODERNO SI COMPRO' LA LUNA...


La notizia era stata annunciata appena un giorno prima, nel modo più arrogante, praticamente a cose fatte: la NASA, l’ente aerospaziale americano, lancia un missile sulla luna “per vedere di quale natura è la polvere sul satellite terrestre. Il missile nell'impatto solleverà una nuvola di polvere e gli scienziati sperano di capire se c'è acqua o ghiaccio. L'idea è di confermare la presenza d’acqua, essenziale per la vita dei futuri pionieri umani” (fonte: agenzia AP Com). A parte il sospetto che l’esperimento celi ben altre finalità (militari?), noto con indignazione e sgomento che la boria dell’Homo Americanus, sottospecie evoluta dell’Homo Occidentalis, non conosce né limiti né rispetto, per nessun essere o posto del Creato. Così, passo dopo passo, di conquista in conquista, la dea Scienza, sostituto comodo e beneaugurante dell’oramai sorpassato Spirito, nei cuori degli uomini “emancipati”, miete ininterrottamente successi o vittime, al variare della visuale. L’interrogativo, però, anche nella sensibilità di alcuni inguaribili idealisti (li scusi, se può, la NASA) appare a grandi lettere sullo schermo: ma la luna è proprietà americana? E se oggi è accaduto questo, domani qualunque ente, Stato, associazione a fini eversivi (nel senso di eversione dell’ordine cosmico) potrà senza preavviso alcuno scaraventare i suoi missili sul satellite della Terra, o magari su Giove o Marte? O subissare corpi celesti di scorie radioattive, inondarli con tonnellate di spazzatura che il nostro pianeta non riesce più a smaltire, grazie al grandioso e progredito stile di vita di una minoranza di abitanti terrestri che contamina acqua, aria, spazio, sottosuolo per conto proprio e altrui? Qualcuno dovrebbe spiegare (magari nei telegiornali, al posto dei gossip sulla coppia Clooney – Canalis) il motivo reale della ricerca dell’acqua sulla luna; studio peraltro perseguito a suon di dollari, spesi arditamente mentre nel mondo miliardi di persone soffrono la fame. Che cosa dovrebbero scoprire eventuali esploratori? Chi siamo? Da dove veniamo? Chi ci ha creati? O, al massimo, quanto è grande in metri cubi l’universo? Miliardi di dollari, anni di energie per un numerino incomprensibile o per sapere che l’oggetto che ci contiene è piramidale con scappellamento a destra, avrebbe potuto osservare il buon Ugo Tognazzi.E' proprio vero che la curiosità è femmina ma la stupidità è umana. E deleteria. Il fatto inquietante, appreso durante secoli di storia, è che, una volta superate le colonne d’Ercole nell’assurda corsa verso il cosiddetto sviluppo, l’uomo non e riuscito più a fermarsi. Ubriaco di maniacale delirio d’onnipotenza, si è travestito da Dio del mondo e delle cose, convinto - ma questo è un cardine del credo capitalista, responsabile in appena tre secoli della distruzione della Terra dopo millenni di sonnacchiosa tranquillità - che volere sia uguale a potere e, per dirla col filosofo inglese Francesco Bacone, conoscere sia indispensabile per dominare.“O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l'anno, sovra questo colle / io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva / siccome or fai, che tutta la rischiari”. Un giorno questi versi leopardiani potrebbero essere l’ultimo manifesto lirico di quando l’astro celeste, da sempre inseparabile compagno notturno del genere umano, era la solitaria consolazione di poeti, amanti e suicidi. Non discarica, né zona di conquista per basi futuristiche di cui l’umanità non saprebbe che fare.Aveva ragione il poeta Giuseppe Ungaretti quando, sull’onda degli sconvolgenti eventi vissuti in prima persona durante la Prima Guerra Mondiale, scrisse cupo di sconforto che l’erba è “lieta dove non passa l’uomo”. Di sicuro tanti avvenimenti successivi non l’hanno smentito. Se ci fossi io al posto della luna non sarei per nulla tranquillo.

Antonio Talarico

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

MINU
Foto di Sabina

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