02/12/08

ALFABETIZZARE AI MEDIA: LO “SCHERMO UNIVERSALE” SFIDA LA DEMOCRAZIA


La singolarità della nostra situazione è definita dal fatto che gli sviluppi delle tecnologie della comunicazione hanno già prodotto una regressione collettiva umana di portata epocale. Qualcuno l’ha definita – e io concordo con l’autore – una “modificazione antropologica”. Questa la definizione di Giovanni Sartori, per tratteggiare il passaggio dall’homo legens all’homo videns. Intendendosi con questo non un passo avanti ma uno indietro. Cerco di spiegarmi, anche se penso che questo pubblico sia già al corrente del problema, altrimenti non saremmo qui a discutere di “media literacy”, che io tradurrei in italiano come “educazione ai media”. Tuttavia, essere al corrente non significa essere d’accordo. Infatti, se fossimo d’accordo non avremmo i problemi che la società contemporanea sta dolorosamente affrontando mentre si avvia ad una transizione verso un’altra società di cui non sa nulla mentre dovrebbe sapere tutto. Già, perché se i telespettatori avessero potuto fruire pienamente dei vantaggi delle tecnologie comunicative moderne, delle possibilità teoriche di accesso a ogni tipo di informazione, della quantità stupefacente di dati che ogni motore di ricerca può mettere a nostra disposizione in una frazione di secondo, allora essi saprebbero da tempo che uno sviluppo crescente indefinito in un sistema finito di risorse è impossibile. E quindi non avrebbero creduto alle entusiasmanti descrizioni della crescita del Prodotto Interno Lordo che venivano loro ammannite ogni giorno da tutti gli schermi televisivi. Anzi ne avrebbero diffidato e le avrebbero temute come presagi di sventura. Né avrebbero comprato automobili al ritmo forsennato con cui lo hanno fatto se avessero saputo che la quantità di anidride carbonica che avrebbero contribuito a produrre sarebbe cresciuta fino al punto da minacciare la sicurezza dei loro figli. La singolarità di cui parlo è dovuta al fatto che, nella storia delle tecnologie, in ogni passaggio da un grado di sviluppo a uno superiore, la regola è sempre stata quella di un elevamento della cultura, di un allargamento delle possibilità di fruizione del sapere. Si pensi all’invenzione di Gutenberg, dei caratteri mobili di stampa. Fino a quel momento, per secoli dopo la caduta dell’Impero Romano, il sapere era rimasto confinato all’interno dei monasteri, dove amanuensi, spesso a loro volta analfabeti, copiavano i manoscritti antichi per la fruizione di una ristrettissima élite in grado di leggere e scrivere. L’alfabetizzazione di massa è cominciata con Gutenberg. Da quel momento, con una progressione di impressionante velocità, comparata con i ritmi dell’epoca, prima migliaia e poi milioni di individui poterono avere accesso alla conoscenza. La riproduzione tecnologica del libro produsse il cambiamento economico, sociale, culturale dell’umanità intera. Ciò che era conoscibile per i pochi divenne conosciuto per le moltitudini. Ma gli ultimi venti anni del secolo XX e i primi dieci di questo hanno visto una rivoluzione tecnologica incomparabilmente più grande e possente. Che è avvenuta coinvolgendo non milioni ma miliardi di individui. Ed essa ha – come ho detto all’inizio – prodotto una involuzione. In che senso? Nel senso, assai preciso, che ha prodotto un “analfabetismo di massa”. Cioè non un progresso ma un regresso. Alfabetizzazione, analfabetismo sono però termini che hanno a che fare con l’homo legens. Non esistono termini adeguati per descrivere questo “analfabetismo televisivo”, che è un modo sintetico per definire un più vasto analfabetismo, connesso con l’incapacità di lettura delle immagini, specialmente delle immagini in movimento. L’ “analfabetismo televisivo” è quello che io e Giovanni Sartori (ma anche l’illustre neurofisiologo dell’Accademia dei Lincei, Lamberto Maffei) chiamiamo la regressione verso l’ homo videns. In che consista questa regressione è, tutto sommato, presto detto. Le immagini, specie quelle in movimento, rappresentano un linguaggio. Sono un linguaggio, nel senso precisissimo che comunicano. Una immensa quantità di cose, per altro. Cose “già pronte”, cose che appaiono complete in tutti i loro particolari. Cose che lasciano poco spazio alla fantasia perché sono già esse prodotto complesso. Cose che penetrano direttamente nel cervello perché la fisiologia dell’occhio umano è quella stessa del cervello. Come tutti i linguaggi, quello delle immagini ha una sua grammatica, una sua sintassi, le sue proprie regole insomma. Ma contiene al suo interno un equivoco. Chi guarda immagini in movimento, riprodotte da tutte le innumerevoli tecnologie di cui oggi disponiamo, ha l’impressione di capire tutto ciò che vede. È l’evidenza stessa dell’immagine a dirgli che non ha bisogno d’altro: ha “visto con i suoi occhi”. In questo è nascosta l’illusione. Perché per capire ciò che si sta vedendo, è indispensabile conoscere la grammatica e la sintassi di quel linguaggio. Se non la si conosce si crede di avere “visto con i propri occhi”, ma in realtà si è visto ciò che altri hanno visto per noi. E nemmeno questo è del tutto esatto, perché – non conoscendo la grammatica e la sintassi di quel linguaggio - si vede, nello stesso tempo, molto di più di ciò che, consapevolmente, chi ha girato quelle immagini ha voluto mostrare, e si percepisce, per esempio attraverso i suoni che le accompagnano, ovvero attraverso i contesti visivi in cui quella comunicazione avviene, molte altre cose che con quelle immagini, apparentemente e sostanzialmente, non hanno nulla a che vedere. Come ha detto giustamente, in altra sede, Carlo Freccero, da tempo ormai siamo entrati nell’epoca in cui una immagine o una serie di immagini può essere interamente creata dal nulla. E può apparire altrettanto reale di una immagine reale. In tal caso credere a “ciò che si è visto” - se non si sa che quella immagine non è reale – equivale a essere totalmente ingannati. In tutti gli altri casi, non conoscendo la grammatica e la sintassi della lingua delle immagini in movimento, si può essere facilmente manipolati. Noi viviamo esattamente in un contesto del genere. Tanto più manipolati quanto più la “verità” delle immagini ci appare nitida, in alta definizione, perfetta, senza ombre. Se poi i detentori della proprietà dei media sono consapevoli della potenza di fuoco che hanno nelle loro mani, allora le ripercussioni, culturali, politiche, sociali del problema in questione diventano gigantesche, modificando l’intera fisionomia della vita collettiva. E mettendo in pericolo la stessa democrazia delle società democratiche. Si può trovare su You Tube, riesumata da un antico programma Rai, una bellissima intervista a Pasolini di Enzo Biagi, in cui Pier Paolo diceva cose di straordinaria anticipazione, in questo senso, spiegando come la televisione fosse la quintessenza di una comunicazione “autoritaria”. Non soltanto per il suo carattere unidirezionale, ma per il suo carattere gerarchico. Una gerarchia automatica, prodotta dalla macchina, che pone chi guarda, sempre, in ogni condizione, in stato di subordinazione rispetto a chi parla. E non c’è, sotto questo profilo, nessuna interattività in grado di compensare questa diversità di collocazione rispetto al messaggio. Su questo Mc Luhan ha già detto e scritto cose fondamentali. Il mezzo è il messaggio e non c’è niente da fare per modificare questo stato di cose. Niente da fare? Forse una cosa da fare c’è ed è quello di cui stiamo qui discutendo. Si tratta di vedere se non sia possibile “alfabetizzare ai media” grandi masse di popolazione. Insegnare loro questo linguaggio nuovo, che segnerà inesorabilmente la loro esistenza e quella delle generazioni future, poiché siamo ormai nell’era dell’immagine, dello “schermo universale” e non potremo tornare indietro mai più. Il che significa che, se le grandi masse popolari non saranno in grado di leggere quel linguaggio, esse saranno private della conoscenza del Potere. Ci vorrebbe un altro don Lorenzo Milani per descrivere questo rapporto di espropriazione post moderna. È possibile porsi questo compito? Di alfabetizzare all’immagine il cittadino? Anzi di considerare il linguaggio delle immagini, la capacità di leggerlo e di “scriverlo”, cioè di creare immagini, come un fondamentale diritto democratico? Io credo che porsi questo compito equivale a porsi il compito di ricostruire la democrazia nell’era dell’immagine, perché non potrà esservi democrazia in una società di individui analfabeti. Come non vi era democrazia prima che gli individui sapessero leggere e scrivere. Siamo, come si vede, ben oltre il fondamentale articolo 21 della Costituzione Italiana. Molto più in là – pur senza minimamente contraddirlo – del diritto ad essere informati e ad esprimersi liberamente con la parola e con lo scritto. L’homo videns essendo più minacciato nei suoi diritti dell’ homo legens, necessita di una superiore tutela.

Giulietto Chiesa

01/12/08

15 POESIE INCIVILI


IL CONSUMATORE INESISTENTE


Alle prese con la peggiore crisi economica dell'ultimo secolo, Silvio Berlusconi ha deciso di tornare alle origini e di rivestire i panni del “piazzista di Arcore”, come lo chiamava Indro Montanelli. Comprate, spendete, consumate! Questa, infatti, è la semplicistica ricetta che il Cavaliere insiste a predicare da tempo nell’ottusa convinzione che i suoi consigli per gli acquisti possano essere la pozione miracolosa per evitare lo scivolamento del Paese da una congiuntura recessiva a una fase di dolorosa depressione. Se egli oggi si occupasse soltanto di guidare l’impero televisivo di Mediaset, simili sortite sarebbero tutto sommato innocue e potrebbero essere giustificate in nome della deformazione professionale, oltre che del lampante interesse aziendale a sostenere il fatturato pubblicitario della propria impresa. Ma il fatto è che chi lancia simili messaggi al Paese riveste ora la carica di presidente del Consiglio dei ministri. Esercita, cioè, quel potere politico dal quale dipendono le decisioni principali di contrasto a una tempesta economica, di cui si avvertono al momento le prime avvisaglie mentre il peggio - per unanime opinione internazionale - arriverà nel corso del 2009. Affermare, come fa Berlusconi, che “solo i cittadini (...) con lo stile dei loro consumi possono determinare la profondità della crisi” significa ignorare il senso e la portata di quanto sta accadendo, ma soprattutto denunciare insensibilità e indifferenza per lo stato di difficoltà in cui versano milioni di bilanci familiari dal Nord al Sud del Paese. Spendere di più? Ma con quali soldi, per favore? Quelli della cosiddetta “social card” forse? Per carità, va benissimo che a chi si trova con l’acqua alla gola arrivi qualche decina di euro in più al mese, ma non ci si venga a raccontare che con l’obolo per costoro si possono rilanciare sul serio i consumi e l’economia Se davvero il presidente del Consiglio è convinto di quel che dice, allora spetta a lui trovare i soldi che possano rimettere in moto la salvifica ripresa dei consumi. E qui scatta una legge ineludibile, di fisica prima ancora che di economia: il denaro va preso dove sta e spostato dove manca. Poiché il bilancio pubblico ha i guai che si sanno, il problema si può risolvere soltanto attraverso una redistribuzione dei pesi all’interno della società. Insomma, occorre che il piissimo e neosturziano Giulio Tremonti - una volta riscoperti Dio, Patria e Famiglia - la smetta di fare il Robin Hood per finta e indossi sul serio i panni di chi toglie ai ricchi per dare ai poveri. Altro che estendere anche ai più abbienti l’esenzione dall’Ici o detassare straordinari inesistenti o distribuire elemosine natalizie. Occorre, piuttosto, abbandonare le promesse di Bengodi tributario diffuse a mani piene e cervello vuoto: smettendola di strizzare l’occhio agli evasori e rivedendo la curva del prelievo sui redditi, alzandola per i maggiori e abbassandola per i minori. Forse credendo di stare ancora a Mediaset, Silvio Berlusconi stavolta ha sbagliato indirizzo: da Palazzo Chigi l’invito a far ripartire i consumi non lo deve rivolgere ai cittadini ma a se stesso.

Massimo Riva

29/11/08

L'ECOLOGIA CI SALVERA'


Le case automobilistiche europee, americane e cinesi stanno facendo appello ai rispettivi governi affinché vengano in loro soccorso con una consistente infusione di capitali pubblici. E avvertono che se gli aiuti non saranno immediati potrebbero andare incontro allo sfacelo. Se da una parte alcuni sono favorevoli a un intervento di salvataggio, perché temono che qualora le case automobilistiche fallissero l'economia subirebbe un colpo catastrofico, dall'altra parte c'è chi sostiene che in un mercato aperto le aziende dovrebbero essere lasciate libere di sopravvivere o di soccombere. Esiste tuttavia una terza strada per affrontare questo problema, che esigerebbe un cambiamento radicale di mentalità in relazione alla natura e al significato di ciò a cui stiamo assistendo e di ciò che dovremmo fare in proposito. L'introduzione del motore a combustione interna e l'inaugurazione di una infrastruttura di reti autostradali contrassegnarono nel Ventesimo secolo l'inizio dell'era petrolifera e della seconda rivoluzione industriale, nello stesso modo in cui nel Diciannovesimo secolo l'introduzione del motore a vapore, della locomotiva e delle reti ferroviarie avevano contrassegnato l'avvento dell'era del carbone e della prima rivoluzione industriale. La seconda rivoluzione industriale si avvia ormai al tramonto e l'energia e la tecnologia che più di altre l'hanno alimentata sono tenute in “vita artificiale”. L'incredibile aumento del prezzo del petrolio sui mercati internazionali registrato negli anni più recenti indica l'inizio della fine, non soltanto per le automobili che consumano molta benzina, ma anche per lo stesso motore a combustione interna. L'amara realtà è che la richiesta di petrolio in forte aumento a livello internazionale si scontra con scorte e rifornimenti sempre più limitati e sempre più in calo. Ne consegue un prezzo sempre più alto del combustibile, che provoca una spirale inflazionistica e si ripercuote lungo l'intera catena logistica e dei rifornimenti, e che a sua volta funge da freno naturale per i consumi globali, specialmente nel momento in cui il greggio inizia a sfiorare i cento dollari al barile. È questa, infatti, la soglia in cui si collide contro il muro di sbarramento del “Picco della Globalizzazione”. È a questo punto che il motore economico globale si ferma, che l'economia si contrae, che i prezzi dell'energia scendono perché il mondo intero usa meno petrolio. L'industria dell'auto è un segnale di allarme precoce, che ci fa comprendere come ci stiamo avvicinando al tramonto della seconda rivoluzione industriale. Che cosa possiamo fare concretamente? Dobbiamo saper cogliere questa circostanza alla stregua di un'opportunità e rilanciare il dibattito globale sull'industria dell'auto nel suo complesso. Ciò implica di spostare il dibattito, passando dagli interventi di soccorso e di salvataggio in extremis dell'industria del motore a combustione interna alimentato a benzina alla ricerca, lo sviluppo, l'utilizzo di veicoli elettrici e ricaricabili a idrogeno con celle a combustibile, alimentati da energie rinnovabili. La trasformazione del nostro attuale regime energetico e della tecnologia automobilistica è il punto di ingresso nella terza rivoluzione industriale e in un'economia post carbonifera nella prima metà del Ventunesimo secolo. Affinché questa transizione possa aver luogo, dobbiamo renderci conto che le rivoluzioni nei mezzi di trasporto sono sempre state parte integrante delle rivoluzioni nelle infrastrutture più ampiamente intese. La rivoluzione del motore a vapore alimentato a carbone impose grandi cambiamenti alle infrastrutture, ivi compresa la trasformazione nei trasporti, con un passaggio da quelli via di mare e su acqua in genere a quelli su rotaia ferroviaria, e la cessione di terreni pubblici per lo sviluppo di nuove città, sorte in corrispondenza di importanti snodi e incroci ferroviari. Analogamente, l'introduzione del motore a combustione interna alimentato a benzina richiese la realizzazione di un sistema di strade nazionali, la messa in opera di oleodotti, la creazione di una rete di strade secondarie commerciali e residenziali suburbane lungo il sistema autostradale internazionale.
Il passaggio dal motore a combustione interna a veicoli ricaricabili a idrogeno con celle a combustibile comporta un impegno equiparabile nei confronti di un'infrastruttura adatta alla terza rivoluzione industriale. Tanto per cominciare, la rete elettrica nazionale e le linee di trasmissione dell'energia dovranno essere trasformate, e passare da una gestione attuata tramite comandi e controlli centralizzati e servomeccanici a una gestione decentralizzata e digitalizzata. Daimler ha già firmato un accordo di partenariato con Rwe, società energetica tedesca, e Toyota ha fatto altrettanto con Edf, società energetica francese, per installare milioni di postazioni di ricarica lungo le autostrade, nei parcheggi e nei garage, nelle aree commerciali come in quelle residenziali, per consentire alle nuove automobili di fare il pieno ricaricando le batterie collegandosi semplicemente a una presa. Per adattarsi a milioni di nuovi veicoli ricaricabili, le società erogatrici di elettricità stanno iniziando a modificare le loro reti, utilizzando le medesime tecnologie che hanno dato luogo alla rivoluzione di Internet. Le nuove reti elettriche, cosiddette reti intelligenti o intergrid, rivoluzioneranno le modalità tramite le quali l'elettricità è prodotta, distribuita e resa disponibile. Milioni di edifici già esistenti - appartamenti residenziali, uffici, fabbriche - dovranno essere modificati o ricostruiti per fungere da “impianti elettrici autentici”, in grado cioè di catturare l'energia rinnovabile disponibile a livello locale - solare, eolica, geotermica, delle biomasse, idroelettrica e prodotta dal moto ondoso di mari e oceani - per generare elettricità che possa alimentare gli edifici, condividendo al contempo l'energia prodotta in eccesso tramite le reti intelligenti, proprio nello stesso modo in cui noi oggi produciamo informazioni e le condividiamo grazie a Internet. L'elettricità che produrremo nei nostri edifici, a partire dalle energie rinnovabili, potrà essere utilizzata anche per alimentare le automobili elettriche ricaricabili o per creare idrogeno che alimenti i veicoli con celle a combustibile. A loro volta, tutti gli autoveicoli elettrici ricaricabili e a idrogeno con celle a combustibile fungeranno da impianti elettrici mobili, e potranno rivendere l'energia prodotta in eccesso alla rete elettrica. Il passaggio alle infrastrutture indispensabili per la terza rivoluzione industriale richiederà un ingente sforzo e finanziamenti pubblici e privati. Dovremo trasformare completamente l'industria automobilistica, dotandola di nuove apparecchiature, riconfigurare le reti elettriche, convertire milioni di edifici commerciali e residenziali in autentici impianti energetici. La sola creazione di una nuova infrastruttura comporterà l'investimento di centinaia di miliardi di dollari. C'è chi sostiene che non possiamo permettercelo: in tal caso, però, gli scettici dovrebbero spiegarci come si prefiggono di riportare in crescita un'economia globale oberata dai debiti, che oltretutto dipende in tutto e per tutto da un regime energetico che sta per collassare. Cerchiamo di essere chiari: i trilioni di dollari con i quali ci si ripromette di riportare in vita l'economia globale non sono niente più che un semplice “espediente di sopravvivenza”. Se invece intendiamo dare nuova vita all'economia globale, risolvendo al contempo la triplice minaccia costituita dalla crisi finanziaria globale, dalla crisi energetica globale e dalla crisi del cambiamento del clima globale ciò che dobbiamo fare è creare le premesse per una nuova era energetica e un nuovo modello industriale. Le infrastrutture necessarie alla terza rivoluzione industriale creeranno milioni di posti di lavoro 'verdi', daranno vita a una nuova rivoluzione tecnologica, aumenteranno considerevolmente la produttività, introdurranno nuovi “modelli di business open source” e creeranno molteplici opportunità economiche nuove. Se i governi non interverranno immediatamente e con determinazione per far procedere celermente la realizzazione di una nuova infrastruttura per una terza rivoluzione industriale, l'esborso di fondi pubblici per sostenere un'infrastruttura economica vecchia e un modello industriale obsoleto decurterà ancor più le risorse finanziarie rimaste, lasciandoci privi delle riserve necessarie a effettuare i cambiamenti fondamentali. La terza rivoluzione industriale comporta una nuova era di capitalismo allargato, in virtù del quale milioni di proprietari di casa e di aziende esistenti e nuove diventeranno produttori di energia. Così facendo, avrà luogo la transizione verso un'era post-carbonifera sostenibile, che di fatto potrà attenuare gli effetti del cambiamento del clima sulla biosfera terrestre. Collocando l'industria dell'automobile al centro del cambiamento delle infrastrutture necessarie a passare dalla seconda alla terza rivoluzione industriale, inizieremo a cambiare mentalità, e il dibattito passerà dall'aiuto alle aziende in gravi difficoltà a come investire al meglio in un nuovo schema economico planetario. Investire miliardi di dollari diverrà un presupposto indispensabile e necessario per creare nuove opportunità economiche per tutti nel Ventunesimo secolo.

Jeremy Rifkin

27/11/08

C’È POSTA PER ME


Riceviamo da una lettrice di Medil...

Gentile Orco, sono una trentenne di Medil. Vivo dalla nascita in quest’eremo dolomitico timorata di Dio. Frequento fiduciosa il Tempio la domenica, osservo con diligenza i Comandamenti, ma non sono serena. Da qualche tempo ho un non so che di indefinibile che mi tormenta la notte. Pensieri ricorrenti mi stramballano il cervello. Non posso dormire. L’insonnia mi prende quasi sempre un po’ dopo mezzanotte e per circa tre quarti d’ora mi fa remenare nel letto. Sono pervasa da una strana sensazione… Le (poche) donne del paese, cui ho confidato queste mie inquietudini, si sono guardate con un sorriso d’intesa, ma non ho affatto capito a cosa alludessero. Pur con un po’ di pudore, ma desiderosa di una parola ristoratrice, voglio confidarle un segreto che vagamente sento possa avere una qualche relazione con questa mia prostrazione d’animo: credo di essere illibata, ma non ne sono sicura. Le potrà sembrare strano, me ne rendo perfettamente conto; ma nel Paradiso delle Donne tanto può ben succedere e anche questo rovello non mi da pace. Mi ero finalmente riproposta di capire frequentando per un certo periodo la biblioteca di Moena, ma, pur leggendo tutta la dotazione di libri d’anatomia disponibile, il dubbio non mi abbandona. Per farla breve vengo al dunque. Sono preoccupata. Purtroppo anche nella mia piccola e amata Medil, nonostante tutto, il tempo passa e noto che la peluria sotto il mento s’inspessisce giorno dopo giorno. Qui non ci sono estetiste e Dio non voglia che, per la mia troppa indolenza, magari una mattina specchiandomi nell’acqua della brentela mi accorga di avere la barba più lunga di quella delle mie anzòle. Ho deciso perciò di sfidare la mia naturale ritrosia e di darmi una scorlata. Costi quel che costi e prima che sia troppo tardi. Signor Orco, mi aiuti. Vorrei tanto conoscere un principe azzurro, o, al limite, il figlio di Re Laurino, e poi essere invitata a un ballo a corte. Come Lei sa da cosa nasce cosa… La prego mi dia un consiglio. Grazie.


Ermenegilda ’77 – Medil (TN)


Cara Ermenegilda, sarò franco con te. D’altronde se vuoi guarire da quel tuo ineffabile turbamento così devo essere. Della tua presunta illibatezza non so che dire: non sono medico. Riguardo al principe azzurro invece devo purtroppo dirti che esiste solo nelle favole e credo che anche Re Laurino sia frutto della fantasia di qualche buontempone. Quel remenare che mi dici è un segno inequivocabile di uno spasmo amoroso. È una cosa abbastanza comune tra gli umani. Insomma, anche a Medil può capitare. Tranquillizzati comunque, credo ci sia un rimedio. Ecco il mio consiglio. Innanzitutto sii più mondana. Fuggi dal tuo eremo e lascia per un po’ le tue capre in val Duron. Abituati a girovagare. Nel tuo caso è fondamentale cercare persone, possibilmente uomini. Anche se adesso, addentrandoci nella stagione delle nevi, le occasioni di socializzazione si faranno più rare, non è detto che qualche festa acconcia possa saltar fuori. Dai luoghi ove ti scrivo infatti, per lo meno ai miei tempi, le opportunità d’incontro capitavano soprattutto in inverno: al bal de la banda o a quel de i pompieri, le pulzelle irrequiete avevano l’opportunità di sedare quei turbamenti notturni. Ma questa è un’altra storia. Ad ogni modo, dalla prossima primavera, se non accadrà prima, ti consiglio di scendere in val di Fiemme. Lì le occasioni le troverai di sicuro. A Masi di Cavalese, per esempio, verso metà maggio, c’è la grande festa campestre della Santissima Trinità, ovvero, se preferisci, la seconda domenica dello stesso mese, c’è quella di Lago che, fra l’altro, ti farebbe risparmiare qualche chilometro. Se poi proprio non resisti e le smanie notturne si facessero più insopportabili puoi provare a Trodena che là già in febbraio, alla sagra di San Biagio, si fanno bagordi come Dio comanda. Certo Medil-Trodena non è un viaggio da poco… Capisco dalla Tua lettera che hai anche un leggero deficit d’esperienza e dunque ti confido dell’altro. Per capire dov’è la festa orientati con l’orecchio: quando senti grande strepito di musica tirolese sarai vicina. Come devi comportarti? In maniera semplice e naturale. A quelle feste – è prassi – rostono pollastri. Dunque, non appena giungi in loco ne ordini uno con un tot di patate e un mezzo litro di birra, ti siedi, ti guardi intorno e aspetti. Non dovrai attendere molto perché di solito c’è sempre qualcuno che si fa avanti. Quanto arriverà quel qualcuno tu fa finta di niente, perlomeno all’inizio. Lui ti dirà un po’ di cretinate, perché di solito con le cretinate funziona. Se non è troppo tanghero (cosa peraltro abbastanza improbabile) a un certo punto ti offrirà un’aranciata o un chinotto. Tu, tanto per tirarla un po’, digli che hai già bevuto una bella birra e per dimostrarlo fagli un rutto. Lui allora insisterà finché gli dirai: “Va bene, se tanto insisti, facciamoci una radler”. Ricorda che questa è la fase più delicata, sta attenta a non tirare troppo la corda ché si potrebbe spezzare. Superata questa prima e fondamentale fase, praticamente è fatta. Finiti i convenevoli, che lui farà di tutto per concludere in fretta, ti inviterà a fare un giro in auto. Dopo breve tratto, adducendo la solita scusa del motore che sta grippando, fermerà la vettura e ti si farà più vicino. Causa il motore (ti dirà lui) avrà caldo e forse a quel punto (ma non dirglielo) avrai caldo anche tu. Allora lui si leverà qualche indumento. Ricordati che quasi sempre in questi casi il caldo prende da metà in giù. Non dimenticarlo. A questo punto lui ti toccherà un poco e poi (…). Ecco da qui in avanti dovresti essere in grado di arrangiarti e proseguire senza istruzioni. Purtroppo di più non posso dirti altrimenti mi chiudono. Ma sono sicuro che ce la farai... Almeno spero… Se però, malauguratamente, andando in confusione non riuscissi proprio a procedere e il tanghero ti scaricasse dall'auto sacramentando infuriato, l’ultimo consiglio che posso darti è di tornartene nel Paradiso delle donne a pascolare le tue anzòle e sperare nell’opera di misericordia di un qualche romantico occasionale spazzacamino. Ce ne sarà pur uno che fa il turno a Medil! O no? Fammi sapere. Un cordiale saluto.

L'Orco

25/11/08

SETTIMO: NON RUBARE


Il quadro della Tangentopoli trentina non è completo senza l’altro versante: quello legato al mondo cattolico. Che a sua volta è bipartisan, apparentato con il centro-destra e con il centro-sinistra. Lo snodo centrale del rapporto destra-cattolici-affari è la Compagnia delle Opere. La quale, stracciate le pagine evangeliche ove si predica di scegliere tra Dio e Mammona, di separare Dio da Cesare, prospera su un’intima commistione tra Dio, Mammona e Cesare, ossia religione, soldi e politica: che da un siffatto cocktail escano schifezze, non c’è da meravigliarsi. Così sulla tangente per la galleria idraulica di Mezzolombardo, oltre al solito Collini vediamo implicato l’avv. Todesca, fino a pochi mesi prima presidente della Compagnia delle Opere, Giacomino Osella presidente della municipalizzata Air, mentre sullo sfondo, intascando peraltro da Collini 20.000 euro, resta Mario Malossini, anch’egli ex-presidente della Compagnia. Il punto è che quando Todesca e Osella pretendono di motivare una mazzetta di ben 260.000 euro con un disarmante “erano per la Compagnia”, i vertici di quest’ultima, indicati in pratica come ricettatori, si guardano bene dal ventilare diffamazioni e se ne stanno zitti e buoni. Tutti quanti poi fanno riferimento al centro-destra, Malossini coordinatore del Pdl, Todesca uomo d’area, Osella nominato a capo di Air dai sindaci di destra della Rotaliana, in seguito a un pressing del consigliere Walter Viola, anch’egli del Pdl e della Compagnia. Una bella compagnia. Gli affaristi cattolici però, sono bipartisan. Ed ecco quindi su un altro versante dell’inchiesta, sugli appalti dell’Istituto Sordomuti, spiccare la figura del suo presidente Dino Leonesi. Legato a Dellai. Fu infatti proprio Dellai a volerlo in Provincia, promuoverlo dirigente generale con responsabilità sull’Attuazione del Programma (aria fritta), in realtà con lo specifico incarico di sovrintendere ai rapporti, diplomatici e soprattutto patrimoniali, con la Curia e il Vaticano. Così Leonesi organizzava gli incontri con l’arcivescovo e le photo-opportunity con il Papa, ma soprattutto seguiva tutti i lavori, ristrutturazioni, acquisti, in cui era coinvolta la Curia. Arlecchino servitore di due padroni. Perché Leonesi è uomo della Curia, e non si capiva per chi lavorasse. Ad aggrovigliare il conflitto d’interessi, Leonesi presiedeva l’Istituto Sordomuti, che è un istituto pubblico con una compresenza della Curia, e lì presiedeva anche alla costruzione della nuova super sede progettata da Bousquet, ma contemporaneamente era anche negli organismi provinciali che tali lavori dovevano finanziare e controllare. In questa situazione confusa, si ritagliava evidentemente ampi spazi. Troppo ampi: nell’inchiesta su Collini i magistrati hanno scoperto come Leonesi si adoperasse per far vincere l’appalto appunto a Collini. Insomma Dellai, nella scelta dei suoi collaboratori, è sfortunato? Forse non è solo sfortuna. Quando, nell’ansia di compiacere qualche potere, si tengono in non cale i conflitti d’interesse, non ci si deve stupire se poi le cose vanno a rotoli. Del resto l’Istituto sembra un bell’ambientino. Il vicedirettore, Paolo Moresco, è stato condannato in secondo grado nel processo Brill Rover, e non si è pensato di rimuoverlo; l’economo, era il testé defunto don Candido Micheli, che ha suscitato scandalo lasciando beni miliardari... E’ la solita storia del settimo comandamento, notoriamente ritenuto di scarsa rilevanza.

Questotrentino - 09/2008

23/11/08

LA NAVE DEI FOLLI


Una famiglia modello, forte perfino di ascendenze nobiliari legate alla storia risorgimentale. Un amore modello, nato nei banchi del liceo e cresciuto nella collaborazione professionale, stesso studio in pieno centro dietro piazza delle Erbe, commercialista lui avvocata lei finché lei non decide di fare solo la mamma. Un indizio da psyco-noir, lui era rimasto orfano a sei anni di tutti e due i genitori morti in un incidente stradale, e sei anni aveva il secondo dei suoi tre figli freddati con un colpo di pistola. Due colpi ci sono voluti invece per lei, che forse ha provato a schivare il primo. Uno solo per se stesso. Dicono gli esperti, snocciolando i precedenti di analoghe stragi, che si chiama «suicidio allargato» e che può essere causato da un attacco di depressione o di paranoia persecutoria: ci si uccide portandosi appresso i propri cari, in modo che la famiglia modello resti tale anche nell'aldilà. Altri esperti, dell'Eures, però fanno notare altre circostanze. In Italia, nei cassetti o nelle cantine delle case delle famiglie modello, ci sono dieci milioni di armi da fuoco: corte o lunghe, da caccia, da tiro a segno, da difesa, tutte legali, alcune ereditate o inservibili, molte perfettamente efficienti. E dopo l'approvazione, nel 2006, della sciagurata legge che ha ampliato il perimetro della legittima difesa, le richieste per il porto d'armi dilagano, specialmente nelle grandi città. Anche per questo gli esperti hanno una diagnosi: è la risposta alla «insicurezza percepita». La depressione e la paranoia qui non c'entrano: il mandante è lo stato, il parlamento che promulga queste leggi, i partiti che rubano voti alimentando e sfruttando la paura degli immigrati, le televisioni che ci campano e ci marciano. Che sia la depressione, la paranoia o l'insicurezza percepita, le famiglie modello continuano a vincere l'oscar annuale in omicidio. Un omicidio su tre, una vittima ogni due giorni, 1.300 in sei anni, un aumento percentuale del dodici per cento nel 2006 rispetto al 2005: ne uccide più la famiglia che la mafia e la tanto «percepita» microcriminalità. Ne uccide più al Nord, Sodoma, che al Sud, Gomorra. Uccide preferibilmente le donne, 134 su 195 vittime nel 2006, e preferibilmente le casalinghe fra i 25 e i 54 anni, quelle stesse madri, mogli, figlie, sul cui lavoro di cura si reggono in Italia il mercato del lavoro disintegrato e il welfare smantellato. Le uccide generalmente in casa, nove volte su dieci per mano di un uomo, usando le suddette armi da fuoco ma anche più caserecci coltelli. Le donne che oggi manifestano in tutta Italia contro la violenza sulle donne conoscono e denunciano questi dati da anni, senza altra risposta che le geremiadi e le promesse di rito della giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Forse la strage di Verona, come quelle identiche che l'hanno preceduta e che seguiranno, non c'entra nulla con tutto questo. Forse è stata solo un attacco di depressione o di paranoia di un povero uomo. Forse invece questi attacchi di depressione e paranoia convocano una responsabilità ben più larga. È sempre la nave dei folli che traccia la rotta di una società.

Ida Dominijanni

INCANTO NOTTURNO

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LE OCHE E I CHIERICHETTI

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PASSATO

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VIA STAVA ANNI '30

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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

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