27/11/07

IL LAVAGGIO DEI CERVELLI IN LIBERTA'


Acquisto di grandi testate - il «Wall Street Journal» statunitense, «Les Echos» francese - da parte di gente ricca abituata a piegare la verità ai propri interessi, mediatizzazione ad oltranza di Nicolas Sarkozy, l'informazione cannibalizzata da sport, meteo e cronaca, il tutto in un tripudio di pubblicità: la «comunicazione » costituisce lo strumento di governo permanente dei regimi democratici. È, per loro, ciò che la propaganda è per le dittature. Nell'intervista concessa a Daniel Mermet, giornalista di France Inter, l'intellettuale americano Noam Chomsky analizza questi meccanismi di controllo e li inserisce nel loro contesto storico. Ricorda, ad esempio, che i regimi totalitari si sono serviti delle possibilità offerte dalla comunicazione pubblicitaria perfezionata negli Stati uniti all'indomani della prima guerra mondiale. Riflette poi sulle prospettive di trasformazione sociale nel mondo attuale, e si domanda a cosa potrebbe somigliare l'utopia per chi, malgrado la martellante pedagogia dell'impotenza predicata dai media, non ha rinunciato a cambiare il mondo.

Intervista a NOAM CHOMSKY *

Cominciamo con la questione dei media. In Francia, nel maggio 2005, all'epoca del referendum sul trattato della Costituzione europea, la maggior parte degli organi di stampa sosteneva il «sì», e tuttavia il 55 % dei francesi ha votato «no». Il potere di manipolazione dei media non sembra dunque assoluto. Quel voto rappresentava forse un «no» anche per i media?
Il lavoro sulla manipolazione mediatica o sulla fabbrica del consenso fatto da Edward Herman e da me non affronta la questione dell'influenza dei media sul pubblico
. È un argomento complicato, ma le poche ricerche approfondite sul tema suggeriscono che, in realtà, questa influenza sia più forte sulla parte più istruita della popolazione. A livello di massa, l'opinione pubblica sembra, invece, meno dipendente dal discorso dei media. Prendiamo, ad esempio, l'eventualità di una guerra contro l'Iran: il 75% degli americani ritiene che gli Stati uniti dovrebbero cessare le minacce militari e privilegiare la ricerca di un accordo diplomatico. Varie inchieste condotte da istituti occidentali affermano che l'opinione pubblica iraniana e quella degli Stati uniti convergono anche su alcuni aspetti riguardanti la questione nucleare: la stragrande maggioranza della popolazione di entrambi i paesi pensa che la zona che si estende da Israele all'Iran dovrebbe essere interamente liberata dalle armi nucleari, comprese quelle in dotazione alle truppe americane della regione. Ora, per trovare questo tipo d'informazione nei media, bisogna cercare col lanternino. Peraltro, nessuno dei principali partiti politici dei due paesi difende questo punto di vista. Se l'Iran e gli Stati uniti fossero autentiche democrazie, all'interno delle quali la maggioranza determina realmente le scelte politiche, l'attuale scontro sul nucleare sarebbe senza dubbio già risolto. Ci sono altri casi del genere. Rispetto, ad esempio, al budget federale degli Stati uniti, la maggioranza degli americani auspica una riduzione delle spese militari e un aumento, invece, delle spese sociali, dei crediti versati alle Nazioni unite, dell'aiuto economico e umanitario internazionale, e infine la cancellazione delle riduzioni di imposta decise dal presidente George W. Bush a favore dei contribuenti più ricchi. Su tutti questi temi, la politica della Casa bianca è totalmente contraria alle richieste dell'opinione pubblica. Ma le inchieste che mostrano questa persistente opposizione pubblica raramente trovano spazio sui media. Cosicché i cittadini non solo sono allontanati dai centri di decisione politica, ma sono anche tenuti all'oscuro del reale stato d'animo dell'opinione pubblica. A livello internazionale si registra preoccupazione per l'abissale «doppio deficit» degli Stati uniti: il deficit commerciale e quello di bilancio. Ma questi esistono solo in stretta relazione con un terzo deficit, quello democratico, che continua ad ampliarsi, non solo negli Stati uniti, ma più in generale in tutto il mondo occidentale.
Ogni volta che si chiede a un giornalista di grido o a qualche presentatore di un grande telegiornale se subisce pressioni, se gli capita di essere censurato, questi risponde che è assolutamente libero e che esprime le proprie convinzioni. Sappiamo come funziona il controllo del pensiero nelle dittature, ma come si attua in una società democratica?
Quando i giornalisti sono chiamati in causa, rispondono immediatamente: «Nessuno ha fatto pressione su di me, scrivo ciò che voglio». È vero. Solo che, se esprimessero opinioni contrarie alla posizione dominante, non scriverebbero più i loro editoriali. La regola non è assoluta, certo; capita anche a me di essere pubblicato dalla stampa americana, neppure gli Stati uniti sono infatti un paese totalitario. Ma chiunque non soddisfi certe esigenze minime non ha alcuna possibilità di entrare nel novero dei commentatori di primo piano. D'altronde, questa è una delle grandi differenze tra il sistema di propaganda di uno stato totalitario e il modo di procedere delle società democratiche. Esagerando un po', si può dire che nei paesi totalitari lo stato decide la linea da seguire e tutti devono poi conformarvisi. Le società democratiche operano in modo diverso. La «linea» non è mai enunciata come tale, è sottintesa. Si procede, in qualche modo, a un «lavaggio di cervelli in libertà». Ed anche i dibattiti «appassionati» nei grandi media si svolgono nel quadro dei parametri impliciti consentiti, tenendo al margine molti punti di vista contrari. Il sistema di controllo delle società democratiche è molto efficace; insinua la linea direttrice come l'aria che si respira. Non ce ne accorgiamo, tanto che a volte ci sembra di assistere a un dibattito particolarmente vivace. In fondo, è infinitamente più efficace dei sistemi totalitari. Prendiamo, per esempio, il caso della Germania all'inizio degli anni '30. Si tende a dimenticarlo, ma allora era il paese più avanzato d'Europa, all'avanguardia in campo artistico, scientifico, tecnico, nella letteratura e nella filosofia. Poi, in un brevissimo lasso di tempo, si è prodotto un capovolgimento totale, e la Germania è diventata lo stato più sanguinario, più barbaro della storia umana. Tutto questo è stato possibile instillando la paura: paura dei bolscevichi, degli ebrei, degli americani, degli zingari, in breve, di tutti coloro che, secondo i nazisti, minacciavano il cuore della civiltà europea, cioè gli «eredi diretti della civiltà greca». In ogni caso, è quanto scriveva il filosofo Martin Heidegger nel 1935. Ora, la maggior parte dei media tedeschi che ha bombardato la popolazione con questo tipo di messaggi ha utilizzato le tecniche di marketing messe a punto... dai pubblicitari americani. Non dimentichiamo che un'ideologia viene imposta sempre nello stesso modo. Per dominare, la violenza non basta, ci vuole una giustificazione di altra natura. Così, quando una persona esercita il suo potere su un'altra - che sia un dittatore, un colonialista, un burocrate, un marito o un padrone - , ha bisogno di un'ideologia giustificatrice, sempre la stessa: la dominazione è fatta «per il bene» del dominato. In altri termini, il potere si presenta sempre come altruista, disinteressato, generoso. Quando la violenza di stato non basta più Negli anni '30, le regole della propaganda nazista consistevano, ad esempio, nello scegliere parole semplici e ripeterle in continuazione, associandole a emozioni, sentimenti, timori. Quando Hitler ha invaso i Sudeti [nel 1938], lo ha fatto invocando obiettivi estremamente nobili e caritatevoli: la necessità di un «intervento umanitario» per impedire la «pulizia etnica» dei germanofoni, e per far sì che tutti potessero vivere sotto l'«ala protettrice» della Germania, rassicurati dal sostegno della potenza più avanzata del mondo nel settore delle arti e della cultura. In fatto di propaganda, se per certi versi niente è cambiato dal tempo degli antichi greci, ci sono stati comunque molti perfezionamenti. Gli strumenti si sono molto affinati, in particolare e paradossalmente nei paesi più liberi del mondo: il Regno unito e gli Stati uniti. È lì, e non altrove, che l'industria moderna delle relazioni pubbliche, come a dire la fabbrica dell'informazione, o la propaganda, è nata negli anni '20. Questi due paesi erano infatti molto avanzati in materia di diritti democratici (voto alle donne, libertà d'espressione, ecc.), a tal punto che l'aspirazione alla libertà non poteva più essere contenuta dalla sola violenza di stato. Ci si è dunque rivolti alle tecnologie della «fabbrica del consenso». L'industria delle relazioni pubbliche produce, nel vero senso della parola, consenso, accettazione, sottomissione. Controlla le idee, i pensieri, la mente. Rispetto al totalitarismo, è un grande progresso: è molto più gradevole subire una pubblicità che ritrovarsi in una camera di tortura. Negli Stati uniti, la libertà di espressione è protetta a un livello che credo sconosciuto in qualsiasi altro paese del mondo. La norma è abbastanza recente. Negli anni '60, la Corte suprema ha esteso molto il concetto di rispetto della libertà di parola, il che, a mio avviso, corrispondeva a un principio fondamentale presente già nel XVIII secolo tra i valori dell'Illuminismo. La Corte ha stabilito che la parola è libera, con il solo limite dell'istigazione a un'azione criminale. Se, ad esempio, entro in un negozio con l'intenzione di svaligiarlo e, rivolgendomi a uno dei miei complici armato, gli dico: «Spara!», questa intimazione non è protetta dalla Costituzione. Per il resto, ci deve essere un motivo particolarmente grave per mettere in discussione la libertà di espressione. La Corte suprema ha riaffermato questo principio anche a favore dei membri del Ku Klux Klan. In Francia, nel Regno unito e, mi sembra, nel resto d'Europa, la libertà di espressione è definita in maniera molto restrittiva. Secondo me, la questione fondamentale è: lo stato ha il diritto di decidere quale è la verità storica e di punire chi non è d'accordo? Pensarlo, vorrebbe dire accettare una pratica decisamente stalinista. In Francia, ci sono degli intellettuali che hanno difficoltà ad ammettere che proprio questa è la loro tendenza. Ma il rifiuto di un tale approccio non deve ammettere eccezioni. Allo stato non dovrebbe essere concesso di punire chi sostenesse che il sole gira attorno alla terra. Il principio della libertà di espressione è estremamente elementare: o lo si difende nel caso di opinioni che si detestano, o non lo si difende affatto. Anche Hitler e Stalin ammettevano la libertà di espressione di chi condivideva il loro punto di vista... Aggiungo che c'è un qualcosa di deprimente e anche di scandaloso nel dover discutere di queste questioni due secoli dopo Voltaire, che, come è noto, diceva: «Difenderò le mie opinioni fino alla morte, ma darò la vita perché possiate difendere le vostre». Ed è rendere un ben triste servizio alla memoria delle vittime dell'Olocausto adottare una delle dottrine fondamentali dei loro carnefici. In uno dei suoi libri, lei commenta la frase di Milton Friedman: «Fare profitti è l'essenza stessa della democrazia »... In verità, le due cose sono tanto diametralmente opposte, che non c'è nemmeno un commento possibile... L'obiettivo della democrazia è che la gente possa decidere della propria vita e delle scelte politiche che la riguardano. La realizzazione di profitti è una patologia delle nostre società, cresciuta a ridosso di strutture particolari. In una società decente, etica, la preoccupazione del profitto sarebbe marginale. Prendete il mio dipartimento universitario [del Massachusetts Institute of Technology]: ci sono degli scienziati che lavorano sodo per guadagnare molti soldi, ma li si considera un po' come marginali, gente disturbata, quasi dei casi patologici. Lo spirito che anima la comunità accademica è piuttosto quello di cercare di scoprire cose nuove, sia per interesse intellettuale che per il bene di tutti.
Nell'opera che le è stata dedicata nelle edizioni de l'Herne, Jean Ziegler scrive: «Ci sono stati tre totalitarismi: il totalitarismo stalinista, nazista e ora c'è Tina
(2).» Lei metterebbe a confronto questi tre totalitarismi?
Non li metterei sullo stesso piano. Battersi contro «Tina» è un'impresa intellettuale che non si può paragonare né ai campi di concentramento né al gulag. E, nei fatti, la politica degli Stati uniti suscita un'opposizione massiccia su scala mondiale. L'Argentina e il Venezuela hanno buttato fuori il Fondo monetario internazionale (Fmi). Gli Stati uniti hanno dovuto rinunciare a quello che era la norma ancora venti o trent'anni fa: il colpo di stato militare in America latina. Il programma economico neoliberista, imposto con la forza a tutta l'America latina negli anni '80 e '90, è oggi rifiutato dall'intero continente. E su scala mondiale si ritrova la stessa opposizione contro la globalizzazione economica. Il movimento per la giustizia, illuminato dai riflettori mediatici nel corso di ogni Forum sociale mondiale, lavora in realtà tutto l'anno. È un fenomeno storico nuovissimo, che segna forse l'inizio di una vera Internazionale. E il suo cavallo di battaglia più importante riguarda l'esistenza di una soluzione di ricambio. Peraltro, quale miglior esempio di globalizzazione alternativa del Forum sociale mondiale? I media ostili chiamano «antimondialista» chi si oppone alla globalizzazione neoliberista e lotta per un'altra globalizzazione, quella dei popoli. Si può osservare la differenza tra gli uni e gli altri, perché, nello stesso periodo, si svolge, a Davos, il Forum economico mondiale, che lavora all'integrazione economica planetaria, ma nell'esclusivo interesse di finanzieri, banche e fondi pensione. Potenze che controllano anche i media. È la loro concezione dell'integrazione globale, ma al servizio degli investitori. I media dominanti ritengono questa integrazione l'unica che meriti, in qualche modo, l'appellativo ufficiale di globalizzazione. Ecco un bell'esempio del funzionamento della propaganda ideologica nelle società democratiche. A tal punto efficace che anche alcuni dei partecipanti al Forum sociale mondiale accettano a volte la malevola qualifica di «antimondialisti». A Porto Alegre, sono intervenuto nel quadro del Forum, e ho partecipato alla Conferenza mondiale dei contadini. Rappresentano da soli la maggioranza della popolazione del pianeta... Lei è catalogato tra gli anarchici o i socialisti libertari. Nella democrazia a cui lei aspira, quale sarebbe il ruolo dello stato? Viviamo in questo mondo, non in un universo immaginario. In questo mondo, ci sono istituzioni tiranniche, sono le grandi imprese. È quanto c'è di più vicino alle istituzioni totalitarie. Non hanno, per così dire, alcun rendiconto da presentare al pubblico, alla società; si comportano come predatori le cui prede sono le altre imprese. Per difendersene, le popolazioni dispongono di un solo strumento: lo stato. Ma non è uno scudo molto efficace, perché, in genere, è strettamente legato ai predatori. Con una differenza, peraltro non trascurabile: mentre, ad esempio, la General Electric non deve rendere conto a nessuno, lo stato deve talvolta dare spiegazioni alla popolazione. Quando la democrazia si sarà allargata al punto che i cittadini controlleranno i mezzi di produzione e di scambio, e parteciperanno al funzionamento e alla direzione del quadro generale nel quale vivono, allora lo stato potrà sparire poco a poco. Sarà sostituito da associazioni di volontari presenti sui luoghi di lavoro e là dove vive la gente. Cioè i soviet? Erano i soviet. Ma la prima cosa che Lenin e Trotski hanno distrutto, subito dopo la rivoluzione di Ottobre, sono stati i soviet, i consigli operai e tutte le istituzioni democratiche. Lenin e Trotski sono stati in questo caso i peggiori nemici del socialismo nel XX secolo. In quanto marxisti ortodossi, hanno ritenuto che una società arretrata come la Russia dell'epoca non potesse passare direttamente al socialismo senza prima essere immessa a forza nell'industrializzazione. Nel 1989, al momento del crollo del sistema comunista, ho pensato che questo crollo rappresentasse, paradossalmente, una vittoria per il socialismo. Perché il socialismo così come lo concepisco implica, come minimo, lo ripeto, il controllo democratico della produzione, degli scambi e delle altre dimensioni dell'esistenza umana. Tuttavia, i due principali sistemi di propaganda si sono accordati nel definire «socialismo» il sistema tirannico voluto da Lenin e Trotski, poi trasformato in mostruosità politica da Stalin. La classe dirigente occidentale non poteva che rallegrarsi per questo uso assurdo e scandaloso del termine, che le ha permesso per decenni di diffamare il socialismo autentico. Con un entusiasmo identico, ma di senso contrario, il sistema di propaganda sovietico ha tentato di sfruttare a suo vantaggio la simpatia e l'impegno che gli autentici ideali socialisti suscitavano in molti lavoratori.
Ma non è forse vero che tutte le forme di auto-organizzazione ispirate a principi anarchici sono alla fine fallite?
Non ci sono «principi anarchici» fissi, una sorta di catechismo libertario al quale si debba dichiarare fedeltà. L'anarchismo, almeno per come lo intendo io, è un movimento dell'azione e del pensiero umano che cerca di individuare le strutture di autorità e di dominazione, chiede loro di dare giustificazione di sé e, quando ne risultano incapaci, il che succede spesso, tenta di superarle. Lungi dall'essere «crollato», l'anarchismo, il pensiero libertario, gode ottima salute. A lui si devono molti progressi reali. Forme di oppressione e d'ingiustizia che venivano a mala pena riconosciute, e ancor meno combattute, non sono più ammesse. È un successo, un progresso per tutto il genere umano, non un fallimento.

note: Professore di linguistica al Massachusetts Institute of Technology (Mit), Boston, Stati uniti.(Intervista concessa a Daniel Mermet, rivista e corretta dall'autore.)
(1) Edward Herman e Noam Chomsky, Manufacturing Consent, Pantheon, New York, 2002. La «fabbrica del consenso» è un'espressione del saggista americano Walter Lippmann, che, a partire dagli anni '20, mettendo in dubbio la capacità dell'uomo comune di scegliere con saggezza, ha proposto che le élite erudite «bonificassero» l'informazione prima di farla giungere alle masse.
(2) Tina, acronimo di «There is no alternative» («Non c'è altra soluzione»), frase con cui Margaret Thatcher riassumeva il carattere ineluttabile del capitalismo neoliberista, che è solo una delle forme possibili della «globalizzazione».

26/11/07

PASSATO




I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
m'appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l'amore
brucia la vita e fa volare il tempo.




Vincenzo Cardarelli

24/11/07

QUESTIONI RESIDUALI?


Basterebbero pochi giorni di pioggia battente e di nebbie autunnali per vanificare notti e notti di cannoneggiamenti nella piana delle Noalacce: già con questa striminzita pioviggine la bianca boacia s’è parzialmente dissolta e con essa dio solo sa quanti kilowattora di corrente sono stati gettati alle ortiche. Ma fa lo stesso. Tra qualche giorno, se ritornerà il freddo la “guerra” proseguirà. È un refrain noto…
Lo so. Io penso male. Abbiate pazienza. Non ragiono in modo lineare. Scusatemi. Però dico: se indignarsi per “i costi della politica” oggi è la cosa “politicamente più corretta” che ogni cittadino responsabile cui stiano a cuore le italiche sorti possa fare, perché se oso incazzarmi anche per i 300 milioni circa di lire (detto in lire rende meglio l’idea) che ogni anno, ormai da 5 o 6 anni, il nostro Comune liquida alla Società Centro Fondo s.r.l. a copertura del buco prodotto, mi si risponde che non capisco? Cosa non capisco? Che dietro quel buco c’è un importante valore aggiunto che indirettamente distribuisce benessere su tutta la collettività? È così? E allora mi si spieghi dov’è questo valore aggiunto, chi se lo “intasca”, qual è la quota pro capite, eccetera, eccetera. Io non ne beneficio. Forse il cavalier Sfregola si, il signor Geometra si, il signor Albergatore si, il signor Scultore pure, ma io no. Lo giuro. Ergo: se il cavalier Sfregola da quel valore aggiunto ne trae un tot in più di speculazioni immobiliari, se il signor Geometra grazie ad esso elabora qualche nuovo progetto, se il signor Albergatore col medesimo aggiunge 41 pernottamenti a stagione, e se, infine, il signor Scultore, sempre grazie ad esso, riesce a vendere anche tre gnomi ed un cammello, che il buco se lo rattoppino loro. Perché devo farlo io, che invece, personalmente, causa quel valore aggiunto registro, diretti e indiretti, solo aggravi? Che per 1, o 10, o 100 beneficiari, la collettività tutta (me compreso), pur privilegiata abitatrice del paese dei presepi, debba sborsare 300 milioni di lire ogni anno, mi pare francamente eccessivo. Ah si, è vero, dimenticavo, la Società Centro Fondo s.r.l. è partecipata dal Comune. Quando fu costituita, ora ricordo, si cercò (e si riuscì) di far compartecipare il Comune nell’intrapresa, che difatti ogni anno partecipa senza il com alla “festa del risanamento”. Fu davvero una mossa strategica azzeccata, conseguenza dell’inguaribile patologia comunemente nota come “conflitto d’interessi permanente” cui da decenni (quattro per l’esattezza) le varie e succedutesi amministrazioni comunali di questo paese sono afflitte. Una furba trovata per scaricare la limitata responsabilità (e capacità) degli amministratori del Centro Fondo (s.r.l. appunto) sulla collettività. Tanto considerato, credo che voi, nostri eletti rappresentanti, avreste l’obbligo, se non istituzionale quantomeno morale, di verificare per bene come stanno le cose ed eventualmente, visto l’andazzo, proporre l’uscita del Comune da quella società. In ogni caso, cari consiglieri comunali, al di là di queste mie farneticazioni (perché, conoscendovi, sicuramente tali le considererete) sarebbe il momento di pensare oltre. Oltre la pigra convinzione che l’offerta turistica invernale nel fondovalle di Tesero (e di Fiemme) non possa prescindere dallo sci di fondo. Chi l’ha detto? I presupposti per cambiare ci sono tutti, proprio tutti (ambientali, climatici, economici). Fantasia, fantasia!

L’Orco

23/11/07

NUOVE ARMI LETALI


La guerra contro la mente in certi casi non è solo una metafora. Una volta militarizzate, le innovazioni introdotte da neuroscienze e ricerca farmacologica permetteranno di progettare armi radicalmente nuove. Alcune sono già impiegate sui campi di battaglia in Iraq, mentre, in nome dell'antiterrorismo e grazie ad una falla nelle convenzioni sulle armi chimiche, la ricerca prosegue a tutto campo. Certi ricercatori non sembrano rendersi conto delle responsabilità di cui si fanno carico.

La farmacologia di guerra è inevitabile. Questo è almeno quanto afferma l'Associazione medica britannica (Bma), in un suo recente rapporto sull'utilizzo di medicinali come armi
. Già da una quarantina d'anni, i medicinali sono studiati in base alla possibilità di essere trasformati in armi da guerra. Dal celebre Lsd al gas Bz, diverse droghe militari sono state testate sugli esseri umani: il gas Cs è stato utilizzato su larga scala nella guerra in Vietnam. Bonfire, un programma sovietico segreto, ha tentato di trasformare in armi ormoni umani responsabili di alcune delle principali funzioni del corpo. Non si contano più i prodotti chimici utilizzati negli interrogatori, né le molteplici sostanze psicoattive o paralizzanti impiegate per inibire le trasmissioni nervose, infliggere dolore o causare irritazioni. A causa della natura estremamente tecnica di queste ricerche, il dibattito è rimasto confinato agli organismi specializzati in armi non convenzionali, come il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), il Programma Harvard-Sussex sulle armi chimiche e batteriologiche e l'organizzazione Pugwash. Tuttavia, la rivoluzione delle conoscenze nelle scienze della vita ha trasformato completamente le aspettative e le capacità dei militari in materia di armamento biochimico. Le neuroscienze moderne aprono prospettive inimmaginabili. Ormai è possibile riprogrammare alcune molecole, affinché colpiscano determinati meccanismi che regolano il funzionamento neuronale o il ritmo cardiaco. Ciò che si apprendeva dall'esperienza diretta, è oggi sempre più informatizzato, e le componenti bioattive più promettenti possono essere identificate e testate a una velocità prodigiosa. Queste prodezze, che fanno la gioia delle «giovani generazioni» farmaceutiche e offrono speranza di trattamento per malattie finora incurabili, interessano anche i militari. L'applicazione securitaria delle neuroscienze non è destinata esclusivamente a nemici e oppositori. In Iraq, gli Stati uniti e i loro alleati utilizzano droghe per migliorare la vigilanza dei soldati. In un prossimo futuro, vedremo partire per la guerra truppe cariche di medicinali capaci di aumentarne l'aggressività, ma anche la resistenza alla paura, al dolore e alla stanchezza. La cancellazione dei ricordi è uno degli obiettivi a portata di mano della farmacologia; l'idea che sul campo di battaglia operi un personale militare protetto dallo stress post traumatico grazie a una cancellazione selettiva della memoria, e il cui senso di colpa sia soppresso dalle droghe, non appartiene più alla fantascienza. La tentazione economica è forte, soprattutto sapendo che i postumi mentali della guerra colpiscono cinque volte più soldati che non le sofferenze fisiche, e costano una fortuna all'esercito. Il rapporto della Bma lancia dunque l'allarme: nonostante l'esistenza di convenzioni che proibiscono le armi biologiche e chimiche, i governi «mostrano un notevole interesse circa la possibilità di utilizzare droghe come armi». Una parte di questo interesse deriva dalla ricerca di armi non letali (si legga il riquadro). Nel 1999, la Commissione per gli affari esteri, la sicurezza e la politica di difesa del Parlamento europeo aveva richiesto «un accordo internazionale volto a proibire a livello globale qualsiasi progetto di ricerca e sviluppo, sia militare che civile, tendente ad applicare la conoscenza dei processi di funzionamento del cervello umano in settori quali chimica, elettricità, onde sonore o altri per produrre armi, cosa che potrebbe aprire le porte a qualsiasi forma di manipolazione dell'uomo». Gli attentati dell'11 settembre 2001 hanno posto fine a questa volontà di controllo democratico delle tecnologie di sicurezza. Il complesso securitario-industriale si è ritrovato unico pilota a bordo, con bilanci illimitati. Per la Bma, l'utilizzazione di armi farmacologiche non letali «è semplicemente impossibile, senza provocare una mortalità significativa nella popolazione bersaglio. L'agente [chimico] capace di provocare un'inabilità [...] senza rischio di decesso in una situazione tattica non esiste, e ha poche possibilità di nascere in un prossimo futuro». Il rapporto prende in considerazione un'ampia gamma di timori che riguardano: il personale sanitario che dovrebbe partecipare all'elaborazione o all'esecuzione di un attacco medicalizzato; la raccolta di dati sugli effetti di questi medicinali; il ruolo della medicina e della conoscenza medica allo scopo di sviluppare armi; il doppio ruolo dei medici se si trovassero da un lato a «non nuocere» e, dall'altro, a difendere la sicurezza nazionale; il ruolo dei professionisti della salute al momento di ignorare il diritto internazionale. Nuovi scenari repressivi. Queste preoccupazioni si sono materializzate in modo drammatico nell'assalto al teatro di Mosca da parte delle forze speciali russe il 23 ottobre 2002. Oltre centotrenta dei novecentododici ostaggi morirono (un tasso di mortalità superiore al quello di una battaglia terrestre, dove la media è di uno a sedici). Accusate di aver falsificato i certificati di morte, le autorità non hanno ancora svelato il nome dell'agente chimico impiegato al momento dell'assalto. Un collettivo ha contato almeno centosettantaquattro morti e postumi irreversibili tra i sopravvissuti. Inoltre, la liquidazione di tutti i presunti terroristi ceceni rafforza l'idea che l'utilizzo di gas faciliti le esecuzioni arbitrarie ed eviti il ricorso ai tribunali. Il rapporto della Bma esprime anche il timore che la dipendenza dei fabbricanti di armi dall'industria farmaceutica contribuisca ad abbassare il livello di alta qualità e sicurezza richiesto per i medicinali. Scartate a causa di effetti secondari indesiderati, migliaia di molecole dormono sui ripiani dei laboratori. Potrebbero essere riciclate, mentre la ricerca potrebbe essere rilanciata e le sperimentazioni cliniche delocalizzate verso paesi meno attenti. Una volta che queste sostanze avranno diritto di cittadinanza nelle operazioni di antiterrorismo, il mercato si espanderà rigoglioso. L'inventiva riguarda anche la distribuzione dei medicinali: mortai che disseminano grandi quantità di agenti chimici, pistole di paintball modificate, granuli che liberano l'agente chimico quando li si pesta, veicoli robotizzati... A chi, ad esempio, si potrebbe imputare la morte di un passante colpito da gas nocivo, lanciato da un robot «autonomo» e guidato da un algoritmo decisionale? Le conseguenze possono andare da ferite dirette alla comparsa di varie forme di cancro nel corso dei vent'anni successivi, passando attraverso scenari di modificazione genetica o controllo delle emozioni, della fertilità o del sistema immunitario delle popolazioni. Il progetto Sunshine, elaborato da un gruppo specializzato nell'informazione sulle armi biologiche, ha scoperto di recente documenti dell'aeronautica americana, che, fin dal 1994, progettava di condurre ricerche sul concetto «sgradevole, ma assolutamente non letale di afrodisiaci forti, soprattutto quando provocano comportamenti omosessuali». Come reagirebbe il mondo di fronte a uno stato militare che utilizzasse questo tipo di droga? Bloccare simili ricerche è tanto più importante, in quanto niente garantisce che queste armi, una volta sviluppate, restino nelle mani di stati «responsabili». Ma non sono già proibite dalla convenzione sulle armi chimiche, in vigore dal 1997? Proprio qui è il punto debole: una disposizione - art. II.9 (d) - della convenzione autorizza infatti, in alcuni casi, l'uso di armi chimiche. Questo, essenzialmente per preservare la pena di morte per iniezione letale e il mantenimento dell'ordine pubblico con ricorso ai gas lacrimogeni. Ma la disposizione apre una falla, di cui l'antiterrorismo ha approfittato. I negoziatori che, nel corso del 2008, dovranno procedere alla valutazione e revisione della convenzione hanno una grande responsabilità, perché queste ricerche aprono la strada a nuovi approcci repressivi nella gestione della contestazione. Se non verranno severamente regolamentate, molti laboratori si lanceranno nella produzione di nuove armi farmacologiche. In un periodo contrassegnato dalla violazione delle norme internazionali, civili e combattenti rischiano a breve di essere presi di mira collettivamente da questo nuovo tipo di armi. Con l'eventuale, successivo intervento di commandi speciali incaricati di procedere a esecuzioni extragiudiziarie mirate, in mezzo a una folla in stato di choc.

Tratto da “LE MONDE DIPLOMATIQUE” 10/2007

21/11/07

11 - 22


Chissà cosa sognaste quella notte.
Chissà se la luna che alta
vegliava tra le nuvole scariche disturbò il vostro sonno.
Chissà.
Quella notte nessuno voleva sapere.
Quella notte nessuno pensava
Quella notte purtroppo passò.


Chissà dove sarete questa notte.
Chissà se da qualche impensabile Luogo ci potrete sentire.
Chissà.
Questa notte noi vorremmo sapere.
Questa notte non potremo dormire.
Questa notte per fortuna passerà.

18/11/07

L'ALLESTIMENTO


Non so cosa stiano aspettando. Si fidano troppo dell’esperienza acquisita. Ma basta un accidente, un innocuo raffreddore, un inciampo in un salesae sconnesso e una conseguente slogatura e tutto potrebbe venire pregiudicato. Stanno scherzando col fuoco. Eppure ho fiducia.
Chi non è nato in questo paese non può capire. La passione è passione e nessun derby calcistico, nessun grandioso evento mediatico potrebbero superare l’emozione che ci dà vedere la perfezione organizzativa e i sincronismi acquisiti nell’allestimento del grande presepio in piazza Battisti. Uno spettacolo unico. Da quarant’anni qui si ripete il sacro rito della ricostruzione della capanna di Nazareth e delle migliaia di piccole capanne che ad essa fanno corona. Proprio in questi giorni un bisbiglio sommesso si diffonde in paese, il passa parola si fa generale. D’incanto nelle botteghe di casa i mastri presepiai riattivano gli attrezzi abbandonati; la tensione è impercettibile, ma c’è. Il tempo è tiranno, bisogna affrettarsi! Natale è alle viste e la macchina organizzativa sta accendendo i motori. Si precettano le maestranze comunali. Si assoldano mercenari. Nulla può essere lasciato al caso. Ne va dell’Immagine. I grandi lavori di allestimento che impegnano l’intero parco uomini e i mezzi del Comune per oltre un mese progrediranno giorno dopo giorno. Un frenetico e benedetto andirivieni da Piera a Tesero e da Tesero a Piera: col cassone dell’Unimog comunale che tracima ginepri, licheni, rami d’abete, muschi, angeli, re magi, madonne, bambinelli, capanne, pecore, agnelli, gatti, galline, galletti, oche, pannocchie, biada, covoni, eccetera. Col fiato sospeso i comuni paesani (quei pochi che per loro deficienza morale o pratica non vengono coinvolti direttamente nell’Evento) si domandano se anche questa volta si riuscirà a finire in tempo. L’attesa diventa sempre più spasmodica. Lungo il percorso che collega il magazzino comunale alla principale piazza del paese interminabili file di persone attendono il passaggio del convoglio comunale con l’Unimog in testa scortato dai motocarri Ape e chiuso dalla pachera condotta abilmente dal valente Andrea Longo. Ai più sensibili riesce difficile trattenere qualche lacrima e la carovana al suo passare viene salutata da un caloroso applauso: Forza! Forza! Dai Tibü! Dai! Qualche raro paesano non condivide (ogni comunità ha le sue pecore nere) ma alla fine anche il più indifferente e cinico osservatore dovrà convenire che in tutto questo c’è del prodigioso. Comunque la si pensi, una cosa è sicura, la realizzazione del più bel presepio del mondo (perché Tesero non ha mezze misure: o è il migliore, o è il migliore) permetterà ad ogni paesano (nessuno escluso) di stupirsi per quasi tre mesi, ogniqualvolta transiterà per piazza Battisti e garantirà al nostro paese di ribadire l’assoluta supremazia nella presepistica internazionale. Non siamo secondi a nessuno! Soprattutto però – questa è la cosa più bella – le luci e i presepi daranno anche quest’anno gioia alla gente, lo si capirà chiaramente, guardandola. È bello stare in questo paese. Immersi nella tranquillità e nel silenzio. Tra persone gentili e ciarliere, in un ambiente che stimola il pensiero e la meditazione. Grazie a un’antica tradizione che si è deciso di condividere con l’Umanità tutta. Nel segno della fede, forte, convinta, incrollabile. Quella che il signor Tomaso Calser ben sintetizzava già nel lontano 1952 allorquando – avventore del bar Nazionale – accingendosi a pagare la consumazione proferiva la solenne celebre frase: “Credo nella Zecca onnipotente, nel figliuol suo detto Quattrino, nella Cambiale e nel Conto corrente, e nel Soldo uno e trino”…

L’Orco

NOVEMBRE


Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...


Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al più sonante
sembra il terreno.


Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate,
fredda, dei morti.

Giovanni Pascoli (da Myricae)

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

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