
Aderisco alla campagna di Vittorio Feltri per l’abolizione delle Province. Nessun dibattito rivela l’inanità della politica quanto il comizio infinito sulla morte di quegli enti nobili, ma ormai utili solo a risolvere le caselle orizzontali del cruciverba. Alla vigilia delle elezioni tutti i partiti si dichiarano sdegnati e quasi stupiti della loro esistenza. In clima di processo alla Casta, sembrava questione di giorni. Una sforbiciata alle centodieci Province il lunedì, una ai mille parlamentari il martedì, e il mercoledì ci saremmo svegliati in un Paese quasi normale. Sono passati i lunedì, i martedì e le feste comandate, ma le Province sono sempre lì, mentre altre spingono per entrare. Persino la Lega, rivoluzionaria per statuto, allenta i cordoni dell’indignazione quando si tratta di difendere palmo a palmo le cadreghe padane. Poiché non si è mai visto un tacchino farsi la festa a Natale, gli unici a poter sprovincializzare l’Italia sono i cittadini. Basterebbe restituire in bianco la scheda, la prossima volta che si andrà a votare per il Consiglio provinciale. Purché lo si faccia davvero, e non ci si produca nel solito numero del bertoldo che si lamenta del potente e poi lo vota, lo insulta e poi gli chiede un favore. Conosco l’obiezione: con la faccia tosta che si ritrovano, i politici non toccherebbero le Province neppure se le schede bianche rasentassero il 50%. Vero, ma se quel 50 diventasse 80, sarebbero costretti ad abolirle. Conosco anche la seconda obiezione: le farebbero rinascere subito dopo, cambiandogli il nome in «comunità intercomunali». E stavolta mi arrendo.
Massimo Gramellini
Massimo Gramellini
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