Fino a oggi nessuno ha mai protestato per il fatto che le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti fossero di pubblico dominio presso gli uffici comunali. Né ha mai suscitato scandalo che alcuni giornali pubblicassero stralci più o meno ampi degli imponibili fiscali di personaggi di qualche notorietà. Ora, viceversa, apriti cielo perché l'Agenzia delle entrate ha messo su Internet l'intero elenco dei dati Irpef. Una moltitudine inferocita ha alzato la bandiera della difesa della privacy dell'uomo qualunque, mentre un'associazione di consumatori si è procacciata facile popolarità proponendo addirittura una causa per danni con richiesta miliardaria di risarcimento. In tali reazioni c'è qualcosa che non convince anche per un certo sentore di ipocrisia. Tutto bene, infatti, fino a quando l'accesso ai dati era di fatto limitato dalla necessità di doversi recare di persona presso gli uffici competenti. Tutto male, invece, ora perché la pubblica conoscenza delle dichiarazioni è stata enormemente facilitata dalla loro messa in Rete. Come dire, insomma che oggi lo scandalo consisterebbe nel fatto che tutti sono stati messi in grado di vedere tutto. Sarà, naturalmente, la magistratura a stabilire, in base alla legislazione vigente, la liceità o illiceità di questa scelta dell'Agenzia delle entrate. Ma certo quello dei giudici non sarà un lavoro semplice perché esso implica una valutazione sul rapido e travolgente progresso tecnologico di quei mezzi di comunicazione di massa, come Internet, che sono diventati anche un potente strumento di trasparenza democratica. In sintesi, tutto ruota attorno a una sola questione: è giusto e opportuno che le dichiarazioni dei redditi di ciascun contribuente siano agevolmente consultabili da chiunque oppure no? Per rispondere all'interrogativo è bene ricordare che il pagamento delle imposte è il principale atto con il quale prende sostanza il diritto di cittadinanza nello Stato moderno. Come insegna la storia della democrazia parlamentare, nata e cresciuta proprio in forza della rivolta dei sudditi contro il potere assoluto del Principe a stabilire i termini del prelievo fiscale. Infatti, è con l'affermazione del principio 'no taxation, without representation' che sono sorti i primi parlamenti, dove gli eletti dal popolo hanno progressivamente assunto in proprio il compito di stabilire le tasse, così realizzando il pieno passaggio dei contribuenti dal ruolo servile a quello di cittadini dotati di diritti e doveri: verso lo Stato, ma anche degli uni verso gli altri com'è logico che avvenga in una comunità civilmente istituzionalizzata. Per quale motivo, dunque, non si dovrebbe consentire la più ampia conoscenza dello status fiscale di ciascuno? Per non suscitare fenomeni di gelosia sociale, come dicono alcuni? Per non indurre in tentazione la criminalità, come altri paventano? Questi sono alibi patetici utili soltanto per coloro che hanno buone ragioni per vergognarsi del tanto ovvero del poco che dichiarano al Fisco. Alibi che rivelano anche quanto cammino vi sia ancora da fare nel nostro Paese prima che la coscienza di cittadino diventi l'abito naturale degli italiani.
Massimo Riva
Massimo Riva
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