30/12/08

DROGA, DALLA NATURA ALLE NEVROSI D'OGGI


Gli uomini si drogano da millenni: per lenire il dolore e la fatica. La natura è un incredibile bazar di erbe analgesiche e/o allucinogene, funghi dell'oblio, umori eccitanti, la liceità di questo genere di pratiche non è stata mai troppo discussa fìnchè si trattava di aiutarsi a reggere l’inumana sofferenza di campare. Il contadino boliviano denutrito masticava foglie di coca per sopportare meglio la sua soma quotidiana, mica per il gusto di sballare nel weekend. La faccenda si è fatta molto più complicata dacché le droghe, al pari di tante altre cose, da laborioso espediente per tirare avanti (o da viatico per certi tranfert di tipo culturale e religioso) sono diventate un comfort voluttuario, uno sfizio, una merce di consumo. Così come gli obesi e i bulimici sono coloro che hanno perduto il valore d'uso di proteine e calorie (e di proteine e calorie possono anche morire), i drogati sono coloro che assumono alcune particolarissime sostanze non più per saltuaria necessità ma per ossessione culturale o per dipendenza psicologica. E a volte ne muoiono, e più spesso si distruggono la salute: fisica, mentale e anche economica. La dipendenza dalle droghe è diventato un gravissimo problema sociale, perché mina e invalida individui quasi sempre giovani, e perché alimenta a dismisura il mercato nero e la criminalità. Questo problema ha generato, tra gli altri inconvenienti, anche una vera e propria forma di panico che non aiuta (è il mio parere) a risolverlo. Alle droghe si attribuiscono poteri demoniaci che finiscono per esaltarne, anche contro la volontà dei demonizzatori, il potere di suggestione sugli spiriti più fragili. La loro potenza, in qualche caso già devastante, è amplificata dall'aura di peccato e di proibito che le circonda. Quando fumai, a quindici anni, il mio primo e penultimo spinello, rimasi profondamente deluso dal suo piccolo effetto inebriante, e sopratutto rimasi infastidito dall'estasi semi-sacerdotale nella quale fingevano di sprofondare coloro che me lo avevano offerto. Più che da quella droga, mi allontanai da quei “drogati” il cui eccesso di devozione alla sostanza e ai suoi poteri mi parve ridicolo e imbarazzante. Più tardi lessi la testimonianza di un grande poeta, Ungaretti, che raccontava, molto divertito, di avere fumato cannabis in America, e di averla trovata infinitamente meno eccitante della sua propria “droga autogena”, la poesia che gli ravvivava il cervello. Non voglio dire che le droghe non siano pericolose. Alcune lo sono molto, e bruciano la testa di chi le usa. Ma tutte, indistintamente, lo sarebbero di meno se le si ridimensionasse sulla base di ciò che esse sono: sostanze naturali e chimiche che possono procurare, caso per caso, sostanza per sostanza, effetti piacevoli e contro-effetti spiacevolissimi. La distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere” (i derivati dalla cannabis) mi pare utile soprattutto perché aiuta a sciogliere quel groppo uniforme e oscuro che chiamiamo “la droga” e comincia a definire razionalmente “le droghe”, differenziandole per qualità e per pericolosità. Naturalmente, in materia, ci sono posizioni differenti. Molti proibizionisti vengono da una dura e rispettabile milizia nel campo della lotta alle tossicodipendenze e quando parlano li ascolto con interesse (tranne i fanatici che hanno in tasca la ricetta magica). Mi pare, però, che tra i vantaggi dell'atteggiamento antiproibizionista ci sia una maggiore propensione a razionalizzare il problema, sfrondandolo degli anatemi moralistici e da quell’alea di colpa e di perdizione che attira i deboli e i suggestionabili come il nettare fa con le api. I fiori del male, alla fine, sono pur sempre fiori, non spiriti maligni. La droga, anzi le droghe, sono un problema di farmacopea impazzita, e di bulimia dei consumi, non di posseduti dal demonio da esorcizzare a suon di sberle. Ai giovani andrebbe spiegato che è un problema di autostima, di controllo di sé, di intelligenza e rispetto dei limiti, non di senso di colpa da alimentare. Che di quello - il senso di colpa - siamo già tutti drogati a morte.


Michele Serra

29/12/08

LE MERCI DISTRUGGERNNO L'ECOSISTEMA?


Miseria dello sviluppo (Laterza 2008, € 15,00), l'ultimo libro di Piero Bevilacqua - ordinario di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, autore sempre per Laterza (2008), di La terra è finita. Breve storia dell'ambiente - si divide in tre parti: la prima, «Fine dello sviluppo», si occupa di un tema poco conosciuto al grande pubblico e poco trattato anche in letteratura in Italia, e cioè della «distruzione di ricchezza a mezzo di merci» (come si intitola uno dei capitoli di questa prima parte). «L'intero edificio dell'economia dello sviluppo è stato costruito - nella cultura occidentale - su una doppia finzione, dice l'autore: la pretesa eternità dei fenomeni sociali e la supposta infinità della natura». La cancellazione della Natura dal tempo (e cioè la sua pretesa fissità rispetto al variare incessante dei processi sociali) e la sua separazione dallo spazio (e cioè dalla realtà fisica della materia vivente) ha portato a rappresentare le risorse naturali come uno stock di materie prime inanimate, con conseguenze gravi. Questa impostazione riduttiva ha reso possibile il saccheggio della ricchezza naturale dei paesi del Sud da parte dei paesi del Nord, che dura ormai da diversi secoli. E ha impedito di capire che la natura funziona in modo ecosistemico e non in modo puntuale, e che per usare una risorsa bisogna usarne molte altre, e ciò comporta abbattere foreste, inquinare fiumi e corsi d'acqua, affamare le popolazioni locali. Pochi di noi riflettono sul fatto che una “insignificante” maglietta di cotone, che a noi costa poco - anche 2 soli euro - richiede oltre 20 litri di acqua e che pertanto noi occidentali, disponendo ognuno di 10 o 20 magliette di cotone, senza saperlo siamo corresponsabili della sete nel mondo e della morte per dissenteria dei bambini dell'Africa. Ma oltre allo spreco di beni comuni scarsi essenziali alla vita come l'acqua e la terra, tutte le risorse e i fenomeni naturali hanno una funzione precisa, spesso insostituibile nel palcoscenico della vita: tra i molti esempi riportati dall'autore, quello della sabbia considerata materia interte, nonostante faccia parte dell'ecosistema fiume e serva a fini essenziali come frenare l'erosione delle rive e limitare le inondazioni; o quello delle foresta e dei boschi, che sono ecosistemi complessi di biodiversità naturale e agricola, e non possono essere ridotti a legname per il mercato. Un capitolo molto importante di questa prima parte è quello sui paradossi dell'agricoltura industriale chimicizzata, che contribuisce in modo determinante a creare la fame nel mondo. Nella seconda parte, «La grande ritirata», l'autore si occupa dei fattori che negli ultimi 30-40 anni hanno impresso una forte accelerazione alla distruzione di ricchezza a mezzo di merci, tra cui spiccano la formidale iniziativa capitalistica che, portata ai suoi estremi, ha prodotto la crisi finanziaria mondiale di queste ultime settimane, e l'arretramento strategico del movimento operaio, dei partiti di sinistra e del sindacato. L'avvio di questa fase viene individuato, anche sul piano simbolico, nella famosa frase di Ronald Reagan, resa nota poco dopo il suo insediamento alla Casa bianca nel 1981: «Lo stato non è la soluzione ai nostri problemi; ne è invece la causa». Nella terza parte, «Quel che può la politica», l'autore afferma - con una scrittura piana ma chiara e determinata - che il «Grande Racconto», la leggenda della prosperità per tutti, è arrivato al suo epilogo. Che siamo davanti a una sconfitta profonda, anche perché accompagnata da una «autentica catastrofe culturale della sinistra storica». Ma subito dopo Bevilacqua reagisce in positivo: le iniquità sociali - dice - generano conflitti, e i conflitti pensiero teorico e pratico. Sarà un pensiero necessariamente diverso da quello del passato, dove alla Natura sia restituito il ruolo che le spetta nella produzione della ricchezza, accanto al Capitale e al Lavoro. Non si tratta infatti di aprire qualche nuovo parco o di salvare questa o quella specie in estinzione ma di pensare l'economia e la società in modo diverso: dove sia privilegiata la cooperazione rispetto alla competitività, i mercati locali al posto del free trade, il welfare territoriale, le reti solidali, i rapporti di comunità e quelli di vicinato. È necessario dunque lavorare alla costruzione di una nuova cultura «delle possibilità», usando il metodo della sperimentazione ma consapevoli che non siamo all'anno zero, e che molto già si muove in tutte le parti del mondo.

Giovanna Ricoveri

27/12/08

I COSCRITTI DE TIESER


Non c’è alcun dubbio: lo Spirito dei Poeti aleggia sul paese. A proposito di coscritti, spesso si pone in secondo piano, rispetto alla fondamentale ri-generazione della comunità che essi immedesimano, l’apporto di novità umoristica, a nostro avviso altrettanto fondamentale, che loro immettono, anno dopo anno, nel costume locale. Ne è prova lampante l’inarrestabile e irresistibile evoluzione del motto goliardico dei “plotoni” de Tieser, dalla classe 1981 alla classe 1990, che abbiamo pazientemente registrato e che qui, per una doverosa analisi, riproponiamo.
1981: UNO, NOVE, OTTO,UNO, EH, EH
Pino, no ne lagar tel casino, i coscritti i pretende de ciapar n’ bon bicer de vino.
1982: UNO, NOVE, OTTO, DUE, EH, EH
Pino, Pino, portene, te prego, 'n bon bicer de vino.
1983: UNO, NOVE, OTTO, TRE, EH, EH
No gh'è costritti senza Pino, no gh'è Pino senza coscritti. Pino portene ’na pinta de vino.
1984: UNO, NOVE, OTTO, QUATTRO, EH, EH
I coscritti i fa ’l piazer, ’l Pino (col bicer) ’l so dover!
1985: UNO, NOVE, OTTO, CINQUE, EH, EH
No gh'è rosa senza spino, no gh'è coscritto senza Pino. Pino, Pino da brao dane ,’n bicerino.
1986: UNO, NOVE, OTTO, SEI, EH, EH
Coscritti noe son e bever dal Pino volon. Forza Pino söda quel bicerino.
1987: UNO, NOVE, OTTO, SETTE, EH, EH
No 'na bozza, no ’na botte, ma ’n bottesino, sempre, comunque e sol dal Pino.
1988: UNO, NOVE, OTTO, OTTO, EH, EH
Con la sé che ne caton, par fortuna che ghe ’l Pino te ’n canton.
1989: UNO, NOVE, OTTO, NOVE, EH, EH
Pino no te tajar mae i baffetti se no nó vegneron pü par sigaretti
1990: UNO, NOVE, NOVE, ZERO, EH,EH
I coscritti de Tieser i va su la fontana i ciama Pino Pino ge a ne portar en fustino.

26/12/08

LETTERA APERTA DI DIECI PRETI FRIULANI


Natale 2008: nella complessità con ragionevole speranza e rinnovato impegno Care amiche e cari amici, ristabiliamo, dopo la sospensione dell'ultimo Natale, la comunicazione con voi con questa quinta lettera per riflettere su alcune questioni importanti per noi tutti, per questa società, per questo mondo sempre più interdipendente, per la Chiesa di cui facciamo parte.
Premessa In verità all'inizio dello scorso mese di luglio ci eravamo sentiti in dovere di esprimere in un documento pubblico convinzioni e denunce per la crescente ostilità nei confronti dell'altro, del diverso con particolare riferimento agli immigrati e ai nomadi, insieme alle possibili proposte percorribili per una società in cui i diritti umani siano davvero uguali per tutti. Ci sentiamo avvolti dalla complessità e, nella costante ambivalenza di noi esseri umani, leggiamo i drammi e le speranze. Ogni giorno ci accompagna il pensiero delle migliaia di persone, a cominciare dai bambini - uno ogni cinque - uccisi dalla fame, dalla sete, da mancanza di medicine a causa della ingiustizia strutturale provocata dal capitalismo. E insieme viviamo lo sconcerto per le tante forme di violenza, per la fabbricazione e il commercio delle armi, per le guerre insensate, omicide, distruttive, per le diverse forme di terrorismo.
No alla guerra, sempre
Ci hanno molto colpito, quest'anno nella ricorrenza del 4 novembre, le parole e i gesti da parte di autorità istituzionali di esaltazione della vittoria, quindi della guerra; la mancata distinzione fra la doverosa e rispettosa memoria dei morti di quell'«inutile strage» (Benedetto XV) perpetrata in parte anche sul nostro Carso e la colpevole scelleratezza di chi li ha mandati a morire ponendo così le basi di ciò che è avvenuto poi tragicamente anche nella 2° guerra mondiale. L'esaltazione della Patria che diventa un idolo, non una comunità di persone alla cui vita contribuire con responsabilità e impegno, copre la storia di migliaia di soldati obiettori di coscienza a quell'assurdità, bollati come disertori e per questo fucilati ma in realtà esemplari testimoni di pace. Anche nella storia attuale tante persone si sono opposte a tutte le guerre, fra di esse a quella in Iraq e per questo sono state giudicate in modo sprezzante pacifiste ingenue, imbelli, sostenitrici di un dittatore. Ora il Presidente uscente degli Usa ammette il suo errore, la falsità delle motivazioni della guerra, l'esportazione della democrazia fondata sulla menzogna e sulle armi, con conseguenze tragiche e centinaia di migliaia di morti.
No al razzismo
Ridiciamo la nostra grande preoccupazione per l'accresciuta ostilità nei confronti dell'altro, dello straniero, del nomade, di chi fa più fatica a vivere per tribolazioni psichiche e fisiche, per condizioni di marginalità di cui il carcere per la maggior parte è istituzione emblematica. Avvertiamo nitidamente la presenza del razzismo in dichiarazioni e proposte politiche a livello nazionale e regionale in un clima diffuso che si esprime negli sguardi, nelle parole, negli atteggiamenti della quotidianità. È razzismo culturale la proposta di classi differenziate di alunni stranieri e italiani perché riconosce la diversità per discriminarla, con un segno indelebile nell'animo dei ragazzi/e. E ' razzismo politico non riconoscere pari diritti e opportunità insieme a uguali doveri alle persone immigrate fra noi. Esprime una visione della società davvero grossolana e illusoria l'attribuzione di un potere salvifico, per altro molto costoso, alle telecamere e alla video sorveglianza che garantirebbero la nostra sicurezza; invece di porre attenzione, e su questo investire, alla formazione delle coscienze, ad esperienze culturali di relazione, di reciprocità, di inclusione. Constatiamo la demagogia e l'incoerenza fra promesse massimaliste di espulsione di tutti gli stranieri irregolari e poi la presenza di circa un milione di loro irregolari per la legge, ma regolari per il mercato del lavoro, necessari a questo sistema economico. La loro regolarizzazione, da stabilire in modalità serie e veritiere già rifiutata come ipotesi perché risulterebbe un segno positivo di accoglienza, sarà comunque da ora ancor più problematica per la preoccupante crisi economica che può risultare drammatica per centinaia di migliaia di lavoratori, per fasce intere della popolazione che già si trova in situazione di povertà.
Tempo di crisi
Questa crisi preoccupante generata dallo stesso sistema finanziario può anche essere l'occasione di un ripensamento dei suoi meccanismi perversi, per scelte economiche legate ai processi storici reali; e ancora di una riconsiderazione profonda dell'ideologia dell'accumulo e del consumo e di scelte di sobrietà e di condivisione. In questo periodo tre date significative illuminano, nella doverosa memoria storica, il presente e il futuro: il 70° anniversario della promulgazione delle leggi razziali da parte del duce, proprio nella nostra regione, a Trieste; rileggerle e meditarle significa ripensare a come siano state preparate e accettate, alle complicità e ai silenzi di tanti che non si sono opposti; coinvolge nella responsabilità della vigilanza e della denuncia di parole e atteggiamenti che sembrano far eco a quelle decisioni così discriminatorie, sprezzanti e disumane. C'è poi il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che evidenzia la possibilità di bene dell'essere umano nell'intuire, prospettare e dichiarare i principi di una umanità veramente umana e nello stesso tempo l'incoerenza ad attuarli nelle scelte personali, istituzionali e politiche. Ed infine sta per concludersi l'anno del 60° anniversario dell'entrata in vigore della nostra Costituzione Repubblicana, la magna charta di una democrazia rispettosa dell'unità nella diversità, di un'autentica uguaglianza di diritti tra tutti i cittadini, del ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra i popoli.
Del nascere e del morire
I diritti fondamentali delle persone riguardano la vita e la morte nel loro intrecciarsi continuo. Situazioni emblematiche, di cui i mezzi di informazione si sono ampiamente occupati, provocano in noi una riflessione sofferta e rispettosa della storia delle persone e alcuni interrogativi etici laceranti. Il primato oggettivo della "verità", comunque sempre da cercare ed approfondire, è tale da sopprimere la libertà di coscienza personale? E come questa può essere rapportata al sentire di una società, nel pluralismo delle ispirazioni e delle convinzioni? La sacralità della vita riguarda la sua totalità: la corporeità e la dimensione profonda dell'anima, dello spirito. L'attenzione e la cura alla vita umana inducono ad una prudenza nei confronti della scienza e delle sue tecnologie, a una sorta di timore che non intende limitare la ricerca e la sperimentazione, ma continuamente riporre la questione etica, senza apriorismi e fanatismi. Proprio a motivo di lancinanti interrogativi ci pare di non condividere né l'esultanza nei confronti di decisioni che sostituiscono di fatto il ritardo legislativo riguardo il testamento biologico, né la posizione di chi definisce omicidio una scelta drammatica vissuta nell'ambito di una relazione di amore. Avvertiamo l'esigenza di porsi molto di più in ascolto della vita e di tutte le sue situazioni e per questo di aprirci con rispetto a diverse possibilità. Come è vero che nessuno dovrebbe sollecitare, tanto meno obbligare qualcuno ad anticipare la propria morte biologica, ci chiediamo se altrettanto è possibile che nessuno sia obbligato a vivere anche in quelle condizioni estreme che inducono a desiderare la morte come una liberazione da una vita considerata impossibile. Fra i tanti esempi di accompagnamento per anni e anni di persone in condizioni estreme, si possono collocare anche quelle situazioni in cui le persone non ce la fanno, non per egoismo, tanto meno per cattiveria, ma per scelta personale. O ci sarebbero questioni morali che non sono di competenza della libertà di coscienza di ciascuna persona? E davvero ci si può sostituire a Dio affermando di conoscere la sua volontà riguardo alla sofferenza e alla morte delle persone? E perché non vivere con lui una relazione di fiducia, di accoglienza del nostro vivere e morire, di una vita che continua diversamente nel suo Mistero?
Religione civile?
Come preti di questa Chiesa siamo preoccupati per la religione civile che si sta affermando, per la Chiesa necessaria a questo sistema come il sistema lo è per la Chiesa che in questo rapporto perde la forza umile della profezia, la fedeltà e il coraggio nell'annuncio e nella testimonianza del Vangelo. Consideriamo positive tutte le ricerche storiche anche recenti su Gesù di Nazareth avvertendone i limiti rispetto ad una relazione con lui Figlio dell'Uomo e Figlio di Dio sempre da rivivere e da rinnovare: Lui che ci rivela continuamente il Dio incarnato, il Dio della storia, delle relazioni, dell'accoglienza, del perdono, della guarigione, della salvezza nel senso più profondo e pieno della parola. Riconoscergli la pienezza di amore, una "onnipotenza" dell'amore significa pure riconoscere che può permettersi l'impotenza dell'amore, di entrare nella sofferenza e nella morte senza soccombere e di esserci in questo itinerario guida e compagno di viaggio.
I segni dei tempi
Cogliamo dentro alla complessità i segni di una speranza ragionevole nell'impegno quotidiano e fedele di tante persone, famiglie, comunità che giorno dopo giorno esprimono amore, amicizia, disponibilità all'accoglienza dell'altro, gratuità; e nei luoghi di lavoro una professionalità motivata, competente, significativa. Ricordiamo coloro che in diversi luoghi del Pianeta per questo rischiano la vita e che continuano ad esprimere la loro idealità e il loro impegno dopo aver subito violenze, oppressioni, uccisioni di familiari e amici elaborando il dolore e facendolo diventare proposito di riscatto, di giustizia, di verità, di lotta contro l'impunità. Riconosciamo come un segno dei tempi l'elezione di Obama , l'entusiasmo della gente che ha riconosciuto in tale evento la realizzazione del "sogno" di Martin Luther King, un afro-discendente Presidente degli Usa, capace finora di un linguaggio che unisce idealità e concretezza, speranza e dinamismo. La realtà dunque non è immutabile, i realisti e i cinici non sempre hanno ragione: l'audacia nella speranza è indispensabile per coinvolgerci ed impegnarci a contribuire ad una umanità umana. Dovrebbe essere un segno anche per il nostro sistema politico legato ad una logica gerarchico-piramidale in cui prevalgono situazioni di familismo, di dinastie, di corporazioni, di localismi; in cui, ancor peggio, il Parlamento viene esautorato e si consolida una democrazia formale.
La condivisione di un cammino
Si dovrebbero favorire situazioni nuove: la presenza, ad esempio, di donne e giovani, di persone motivate e competenti. Consideriamo positivo il movimento dei giovani studenti delle Scuole superiori e dell'Università perché ricco di motivazioni, di contenuti, di modalità non violente, propositive: il desiderio di esserci, di potersi esprimere sul proprio futuro chiedendo di non essere estraniati e derubati, dell'esprimere il protagonismo positivo della vita, della ricchezza di idealità, di disponibilità, della richiesta di attenzione, di ascolto, di interlocuzione. La mancanza di risposte o la loro ottusità e grossolanità esprime mancanza di prospettiva, di speranza, opportunismo, calcolo, cinismo. Stiamo con i giovani, partecipando alle loro paure, difficoltà, tribolazioni, alle loro speranze, alle loro potenzialità positive. Riponiamo in loro fiducia e siamo loro grati perché ci aiutano a guardare la vita, la storia, la fede anche con i loro occhi, il loro cuore, la loro intelligenza dinamica. Ci sentiamo di condividere con tutte le donne e tutti gli uomini fatiche, tribolazioni, speranze; con chi vive con noi l'esperienza esplicita della fede in dialogo e collaborazione con le donne e gli uomini delle altre fedi religiose; e con chi senza chiamare Dio per nome o senza riferirsi a Gesù Cristo si riconosce nei nomi con cui la loro presenza è indicata nella Bibbia, nei Vangeli così come nelle altre fedi spirituali.: giustizia, pace, accoglienza, perdono, verità, disponibilità, gratuità, fedeltà, coerenza. Anche la memoria provocatoria e consolante del Natale, di Dio che si fa totalmente uomo entrando nella storia dalla periferia, dalla grotta degli animali, non dal centro del potere politico-economico - militare - religioso, ci coinvolge nella prospettiva e nell'impegno di una società e di un mondo più giusti, di una Chiesa più evangelica ed umana.

Pierluigi Di Piazza, Federico Schiavon, Franco Saccavini, Mario Vatta, Andrea Bellavite, Luigi Fontanot, Alberto De Nadai, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Alessandro Paradisi.

23/12/08

SOTTO LA DASA DEL PECCIO


Avrei voluto dire anch’io qualcosa di spiritoso sul Natale. Mi sono rifugiato sull’eremo a meditare. Ogni tanto lo faccio. Salgo leopardianamente al colle e osservo dall’alto il paese. Due ore e mezzo in ritiro spirituale. Lì, ripensando al consiglio dell’amico Settembrini, mi sono convinto che non ne valeva la pena. Ha ragione lui, l’ironia non è nelle corde di questo paese; presuppone leggerezza d’animo e una visione aperta del mondo e delle cose: cogliere il ridicolo dei comportamenti e l’incongruenza tra i segni e i fatti. Massimamente in questo tempo natalizio la distanza tra il sembrare e l’essere di questa comunità appare in tutta la sua profondità. Se ci fosse una benché minima corrispondenza tra il messaggio della natività più autentico e la profusione di luci in cui questo paese si immerge ogni Natale, Tesero potrebbe veramente sostituirsi in terra al paradiso. Purtroppo, all’infuori del sommo Dante, quel luogo gaudioso nessuno lo ha visto e nessuno, per sua fortuna, è ancora ritornato a raccontarcelo. Però poi chissà, forse il paradiso è fatto proprio a immagine e somiglianza di questo nostro borgo: ridondante di posticci luccicanti abbellimenti; di gente la cui massima espressione intellettuale è la maldicenza e il pettegolezzo; di assenza di “spazi” di confronto; di persone indecifrabili che puoi starci una vita intera accanto senza capire che cosa pensino veramente; di osterie piene di un’umanità persa; di mamme iper-attive e nevrotiche; di studi professionali indaffaratissimi; di infiniti nuovi cantieri; di banche affollate rigonfie di denaro; e altro ancora...
Ma perché un siffatto paese? Qualcuno ipotizza sia una questione genetica. Mi pare un’esagerazione, in fondo i cervelli, più o meno, sono fatti tutti allo stesso modo. Penso che la ragione sia un’altra. Credo sia un problema di programmazione. Questo paese non sa, o forse non vuole, aggiornare il programma. La musica che propone è sempre la stessa, come la marcia da sfilata della banda locale. Qui è così: tutto diviene seriale, non c’è mai una pausa di riflessione e ogni eventuale tentativo di uscire da questo compiaciuto provincialismo diventa impresa impossibile. Quando il treno parte, guai a chi lo ferma o a chi osa disturbare il macchinista… Ma forse mi sbaglio.
Comunque, tornando alle luci e ai presepi, mi chiedo cosa si vorrebbe far credere con questo profluvio simbolico? Che emozioni si vorrebbero dare? E a chi, soprattutto? Ai beceri turisti che assaltano frenetici ogni fine settimana le piste di sci? Ai bambini, privi ormai di qualsiasi capacità di emozionarsi? O forse, addirittura, a noi paesani adulti? La luce e il presepio hanno precise valenze semantiche. Coerenza vorrebbe che dietro cotanta abbondanza di significanti si intravedesse l’autenticità del legame tra i simboli e la comunità.
E invece? Invece niente. Perché questa comunità è (ovviamente) estranea ai valori della cristianità. “E chi se ne frega, fatti suoi!” – dirà qualcuno. Vero, ma allora abbia il coraggio di manifestare ciò che non è fino in fondo, e non copra i suoi finti sensi di colpa con una dasa d’abete. Bastano le messe, le eucaristie, gli auguri, gli scampanii, i pecci illuminati, i presepi per essere portatori del messaggio nascosto dietro quel significante? Certo che no. Una comunità con una forte propensione al razzismo ideologico ancor prima che sostanziale, che nei fatti propugna con forza il privilegio, l’arricchimento, la separazione può far propri i valori francescani del presepio soltanto dissimulando la sua vera natura. Ma per quanto la nasconda la contraddizione è evidente.
E il Parroco che dice? Ma dice qualcosa? O tace e finge come i fedeli(ni) che fingono di ascoltarlo? Forse dovrei andare a messa e sentire se in merito proferirà parola. Ma sì andrò a messa. Forse. Magari a quella detta di mezzanotte, che, per assecondare la pigrizia e il sonno dei fedeli(ni) (ma chi glielo fa fare?) da qualche anno si anticipa alle 22. Già che c’erano potevano anticiparla ancora di un paio d’ore e così poi, sazi di spirito divino, i più avrebbero ancora avuto tempo, prima di tornare a baito, di riprendere magari un coca-party interrotto, per allentare per qualche istante l’oppressione della parte in commedia e per sospendere, almeno il tempo del viaggio narcotico, di fingere.

Ario

20/12/08

ARRIVA IL NATALE


In questi giorni di metà dicembre, con i cieli plumbei solcati da nuvoloni neri che si fronteggiano con furia belluina, i corsi d'acqua in piena che borbottano minacciosi e le montagne infiocchettate di neve come mai prima d'ora in questo periodo, lo "spirito natalizio" sembra permeare ogni cosa, fino a penetrare nelle nostre anime aride d'inguaribili pessimisti. Il Presidente degli Stati Uniti G.W. Bush, recatosi in terra d'Iraq per un saluto di commiato da porgere alla colonia in occasione della scadenza del suo mandato, ha finalmente portato alla luce quelle armi di distruzione di massa che per tanti anni hanno albergato solamente nella sua fantasia ed in quella di pochi suoi fedelissimi. Si trattava di un paio di scarpe numero 42 che sibilando sinistramente sono sfrecciate poco sopra la sua testa, senza che nessun missile patriot riuscisse preventivamente ad intercettarle. Scarpe provenienti certo dall'arsenale segreto di Saddam, che un giornalista iracheno addestratosi a lungo nei campi di Al Qaeda nell’attesa del momento propizio, gli ha lanciato contro con destrezza, apostrofandolo contemporaneamente come "cane" fra lo stupore degli astanti, provocando un certo risentimento fra tutti i quattro zampe che hanno dimostrato di non gradire affatto il paragone. In Italia il PD di Veltroni somiglia sempre più alla vecchia Democrazia Cristiana durante il periodo di tangentopoli. Il numero degli inquisiti continua a salire ogni giorno di più e gli scandali si susseguono uno dopo l'altro senza soluzione di continuità. Veltroni, ormai drammaticamente a corto di fantasia, inveisce contro la magistratura che avrebbe preso di mira il suo partito, pronunciando le stesse frasi che Berlusconi ripete ormai da quasi 15 anni. Tutti si affannano a discutere della "questione morale", ma non si comprende bene come il ladrocinio qualora praticato all'ombra di un partito cessi di essere "furto" per trasformarsi semplicemente in un'azione moralmente discutibile. Le elezioni in Abruzzo hanno decretato il crollo del PD, che dopo gli scandali si è manifestato molto più vicino ai penitenziari piuttosto che non agli elettori. Nonostante lo scontato successo del PDL i veri vincitori sono risultati l'astensione, che ha portato un abruzzese su due a disertare le urne e Antonio Di Pietro, al quale ormai basta fare opposizione poco e male per raccogliere a piene mani voti dal partito ombra di Veltroni che non riesce a fare neppure questo. Silvio Berlusconi si è appropriato della filosofia Unieuro e simile ad un venditore di lavatrici e televisori esorta gli italiani ad essere ottimisti e spendere a più non posso nei regali di Natale. L'importante è sostenere i consumi, smentendo le cassandre e fugando i fantasmi della recessione. Ora che la social card di Tremonti ha risolto i problemi relativi alla spesa alimentare delle famiglie si può osare di più, va bene anche un alberello acquistato a credito o un TV al plasma preso a rate con il rimborso a partire da aprile 2009. Va bene anche l'abbonamento a SKY di "Pasquale" o un cucciolo robot che riesca a deliziare i bimbi senza sporcare in casa. Natale viene una volta l'anno ed ogni cittadino è chiamato a fare la sua parte di buon consumatore che contribuisce a far girare l'economia, senza rimuginare sul fatto che anche volendo applicarsi mancherebbero i danari, come fanno i soliti pessimisti. Nel mondo non si vendono più auto, probabilmente perché nel corso dell'ultimo secolo se ne sono vendute troppe e molte persone hanno iniziato a prendere coscienza del fatto che il mantenimento del "parco auto" (con relative tasse, gabelle, multe e riparazioni) ha un peso insostenibile all'interno del bilancio famigliare. Dagli Stati Uniti all'Europa tutti i magnati dell'auto che per un secolo hanno accumulato fortune miliardarie all’interno dei propri forzieri, lamentano il crollo delle vendite e domandano l'appoggio statale che li aiuti a socializzare le perdite che, a differenza di quanto accaduto con gli utili, aspirano a condividere con il resto della collettività. In Italia proprio Walter Veltroni risulta essere in prima fila fra coloro che esortano il governo ad aiutare economicamente la Fiat, sulla falsariga di quanto sta avvenendo negli altri paesi con le industrie automobilistiche nazionali. Esortazioni del tutto superflue dal momento che gli aiuti di fatto sono già stati stanziati, in quanto la Fiat proprio in questi giorni ha deciso che i propri stabilimenti resteranno chiusi per un mese intero, scaricando in questo modo sulla collettività (attraverso la cassa integrazione) l'onere degli stipendi dei propri dipendenti. In Irlanda è scoppiato il caso del maiale alla diossina che ha tenuto banco per molti giorni sulle pagine dei giornali, ed anche l’ipotesi che la UE pretenda di ripetere il referendum che ha bocciato il trattato di Lisbona, probabilmente ad oltranza fino al momento in cui vinceranno i SI, ma di questo i giornali hanno parlato molto meno. In Italia Freccia Rossa ha inaugurato l’era del TAV “taroccato” riuscendo perfino a peggiorare (chiunque avrebbe giurato che sarebbe stato impossibile) la drammatica condizione dei pendolari e dimostrando che al peggio davvero non c’è mai fine. Negli Stati Uniti la FED ha tagliato il tasso di sconto (ora è compreso fra 0 e 0,25%) probabilmente per l’ultima volta, dal momento che a partire dalla prossima manovra le banche dovranno provvedere a pagare chi prende soldi a prestito. Sempre negli USA gli agenti immobiliari hanno iniziato a noleggiare dei pullmann per portare i propri clienti a visitare le case espropriate ai proprietari schiacciati dai debiti, e davvero lo spirito del Natale fatica a manifestarsi all’interno di questi tour ai quali i proprietari rovinati sono costretti ad assistere loro malgrado. Ma nonostante tutto siamo ormai giunti nella settimana prenatalizia deputata allo shopping per antonomasia, in quei giorni dell’anno durante i quali anche il più cinico degli animi non può fare a meno di aprirsi verso gli altri e trasudare bontà, comprensione, amore verso il prossimo. Cammineremo fra le vie dei centri cittadini barbaglianti di luci, fra abeti che sfavillano intarsiati di lampadine, luminarie iridescenti che baluginano abbarbicate sopra le nostre teste, stelle comete, Babbi Natale e pacchetti regalo che occhieggiano in ogni dove, accattivanti, rassicuranti, a trasudare serenità e letizia, a dimostrarci che i mutamenti climatici e la crisi economica sono soltanto fantasie da disfattisti. I nostri sguardi si specchieranno dentro all’allettevole cornice delle vetrine, per inebriarsi di luci e colori, le musichette natalizie ci delizieranno riportandoci a quando eravamo bambini ed aprivamo i regali sotto l’albero con il visetto giocondo che si arrubinava tutto per l’emozione. Intorno a noi trepiderà un alluciolio così sfolgorante, gioioso, perfetto da farci sentire in colpa, noi ed il nostro inguaribile pessimismo che ci impedisce di consumare come dovremmo.

Marco Cedolin da http//il corrosivo.blogspot 19/12/2008

17/12/08

IL MODELLO TESERO 7 PER UNA NUOVA UMANITÀ


L’industria automobilistica è in crisi. Negli USA centinaia di migliaia di operai di GM, Chrysler, Ford rischiano di trovarsi senza lavoro. In Italia la Fiat da qualche giorno, per un mese intero, ha chiuso tutti gli stabilimenti del gruppo; il suo vasto indotto è in ambasce. Le PMI del mitico Nordest e della Lombardia non stanno meglio. Interi comparti produttivi boccheggiano o stanno chiudendo. Neppure il terziario avanzato da solo potrà restare in piedi. Si preannuncia un biennio 2009/2010 da brividi. E poi chissà. Prossimo alla fisiologica saturazione il modello di sviluppo occidentale si è perso. Ritornare al primario resta forse l’unica opzione possibile, ma non sarà facile riadattare l’intera società alla vita che fu per migliaia di anni la Vita dell’umanità. I prodromi di un annunciato rimescolamento cosmico stanno nelle cose: l’attesa, per chi vivrà, non sarà lunga. Ma nel frattempo che fare? Si troverà un modello temporaneo alternativo capace di traghettare la popolazione mondiale post-post-industriale verso la Nuova Era? Pur calati in questa inquietante atmosfera di incertezza, di crisi economico/valoriale e decadenza morale, restiamo fiduciosi, perché quel modello – secondo uno studioso di chiara fama – esiste. Definito tecnicamente con la formula Mod.∞.Te.7. è chiamato, più semplicemente, Tesero 7. L’elaborazione del modello è stata lunga e faticosa, frutto delle capacità di osservazione e della pazienza dello studioso, che, con tempismo quasi prodigioso, è giunto alla verifica scientifica dello schema teorico proprio nel mentre la crisi mondiale è prossima al parossismo. Ma in cosa consiste questo modello teserano? Ce lo spiega l’ideatore, l’esimio economista, professor Torquato Spavaldi, ordinario di sociologia economica applicata presso la Normale di Pisa, che da anni studia e teorizza l’estensione di micro modelli economici di scala a macro sistemi complessi.
D. Professor Spavaldi, innanzitutto perché quel nome?
R. Ho cercato semplicemente di racchiudere in quella sigla (Mod.∞.Te.7.) due elementi che mi sembrano peculiari della comunità teserana dalla quale ha tratto spunto il mio studio. Il simbolo dell’infinito (∞) rimanda, manco a dirlo, alla infinita capacità di rigenerarsi e di risorgere di quella comunità mentre il numero 7, numero sacro per eccellenza ed emblema della pienezza spirituale e cosmica, vuole significare il legame inscindibile tra quella comunità e la trascendenza, e quindi la capacità di quella gente di oltrepassare la miserevole condizione materialistica dell’uomo.
D. Da quanto studia il modello teserano?
R. Da quando, più o meno consciamente, nel lontano 1959 cominciai a frequentare il vostro paese. Ero un giovane studente universitario e la mia famiglia, casualmente, nell’estate di quell’anno decise di trascorrere le vacanze a Tesero. Precisamente a Stava, presso l’albergo Erica. Mi innamorai immediatamente di quei luoghi tranquilli e silenziosi. Quell’ameno luogo, tra prati verdi, ranuncoli gialli, azzurre genziane e larici profumanti di resine ed essenze, in estate, ed emozionanti candidi paesaggi in inverno, divenne la meta preferita delle mie vacanze successive. Cominciai a frequentare le persone del luogo, ne divenni amico. Ricordo con nostalgia il signor Bepi Longo (Menz) e la sua veneziana. Il signor Arcangelo Bozzetta con la sua Millecento bianca, la moglie, signora Felicita e i figli. Le escursioni nei boschi sovrastanti, le tiepide serate a far polenta nei prati della minuscola frazione, i temporali notturni, le partite a bocce nelle domeniche d’agosto con i fratelli Ciro e Remigio Braito, e poi le slizolade invernali da Stava a Cerin…
D. Professore, scusi se la riporto al tema della nostra breve intervista. Ma quando intuì che quel microcosmo economico paesano, quella gente, potevano fare da apripista a un modello economico alternativo, capace di venire implementato e sviluppato su scala nazionale, continentale o addirittura planetaria?
R. Non c’è una data precisa. Anzi, forse sì: il 1965. In quell’anno si costituì l’Associazione Amici del Presepio, sezione Trentino Alto Adige, con sede proprio a Tesero. Fu allora che le mie vaghe impressioni precedenti divennero più vivide. Lì intuii che le sinergie capaci di venire esternate da quella popolazione e trasformarsi in opportunità economica combinata avrebbero potuto essere riprodotte anche in altri luoghi e addirittura sostituire economie pesanti e complesse che per la nostra mentalità consumistica consideriamo imprescindibili.
D. Quali?
R. Vede, sinora molti credevano che l’economia, che ha prodotto lo sviluppo occidentale degli ultimi 60 anni e il conseguente cosiddetto benessere, basasse la propria forza sulla razionalità. In verità, al contrario, l’economia occidentale è basata su un presupposto irrazionale (lo diceva esemplarmente Herbert Marcuse) e cioè un consumo infinito delle risorse disponibili. Cosa questa, appunto, irrazionale e assurda. Eppure, sino alla crisi attuale, sino a qualche mese fa, nessun solone politico o economico, avrebbe mai messo in discussione questo assioma. Prendiamo ad esempio l’industria dell’automobile. Simboleggia l’industrialismo moderno, teorizzato da Ford e condensato nel motto “un’automobile per tutti”. Il non detto della teoria “fordista”, poi generalizzata indifferentemente rispetto a ogni altro bene di consumo, è il superamento del concetto di necessità. Il sistema si sostiene solo negando quel concetto. Ma ovviamente ciò è impossibile. Può andare avanti per un certo periodo, più o meno lungo, a seconda dell’intensità di applicazione e dell’estensione del modello. Ma poi, fisiologicamente, crolla. Nel mentre i fattori della produzione si riducono e il loro costo si accresce l’ingorgo della spaventosa messe di beni di consumo produce problemi insostenibili a catena. Più il bene prodotto comporta consumo di risorse naturali, più accelera l’esito finale verso la fine del ciclo. Se consideriamo, per esempio, proprio il bene-simbolo di questa economia, cioè l’automobile, possiamo facilmente verificare che averne prodotto in quantità sovrabbondante rispetto alle reali esigenze dell’umanità ha di fatto chiuso l’ “era fordista” in meno di 100 anni dai suoi albori. Ciò perché la mobilità diffusa, generata dall’automobile, ha comportato un dissennato sviluppo urbanistico, che, a sua volta, ha alimentato ulteriore mobilità, e dunque costi per infrastrutture, infinito consumo territoriale, inquinamento generalizzato, insostenibili necessità energetiche, irrisolvibili problemi di smaltimento dei cascami della produzione, eccetera. Insomma, se i primordi dell’automobilismo hanno rappresentato l’alfa della modernità, la sua repentina crisi ne segna l’omega. Siamo alla fine di questo modello schizofrenico, alienante, mortifero.
D. Dunque?
R. Dunque in attesa di giungere alla riscoperta dell’Uomo e di approdare a un nuovo Umanesimo libero dal vincolo materialistico della merce fine a se stesso, onde evitare crisi di rigetto per una troppa affrettata sospensione della quota quotidiana di tossicodipendenza consumistica, è opportuno, a mio avviso, tentare di promuovere questo transitorio nuovo modello: il Mod.∞.Te.7. Per il tempo necessario ad affrancare l’uomo-consumatore dalla dipendenza. Esattamente come si fa somministrando ai tossicodipendenti il metadone, in attesa del recupero psicologico del paziente, impedendo ricadute pericolose e senza ritorno. Credo non ci siano alternative.
D. Professor Spavaldi, ci parli adesso, brevemente, di questo speranzoso Mod.∞.Te.7. o Tesero 7, come dir si voglia.
R. Partendo dall'assodato presupposto che l’economia tradizionale si basa sull’irrazionalità e che il consumo è indotto artificialmente, essendo negato, come detto, il concetto di necessità, ho sperimentato un consumo leggero “transitoriamente sostenibile”. Che però può dare fiato a un indotto di un certo spessore. Tanto è necessario per evitare nell’immediato l’impoverimento delle masse meno abbienti e un generale effetto paralizzante. Il motore del modello è un’attività artigianale, finalizzata alla riscoperta della spiritualità, che sostituisca quella industriale pesante e ormai insostenibile, di cui dicevo sopra; che non comporti spirali perverse e che gradualmente riporti l’Uomo alla ragione. Serve promuovere su scala internazionale un prodotto, un bene-simbolo nuovo, che ognuno possa acquistare e sostituire con poca spesa e con facilità: “un presepe per tutti”. Bene che, esattamente come l’automobile, pur non servendo a niente o quasi, faccia girare, in questo intermezzo, un’economia non proprio di sussistenza ma che assai le si avvicini, quindi propedeutica al successivo epocale passaggio.
D. In pratica?
R. Come le dicevo, nel 1965 capii. Quando vidi gli Amici del Presepio, sul pònte vecio ardimentarsi nel costruire un’umile capanna, venni illuminato. Sapevo quanto lavoro si celava dietro quella capanna, quante persone avevano lavorato per mesi e mesi, per creare quell’opera. Perché non produrre presepi artigianali ovunque nel mondo? Ecco, il presepio sarà il bene-simbolo della nuova era, pensai. Ogni paese avrà un’associazione ad hoc. Un indotto di sarti, di scultori, di imbalsamatori, di scenografi, di musicisti, di allestitori che viaggeranno come ambasciatori di luogo in luogo. Il vostro Mario Fanin a Cracovia e il loro Stanislao Zrawbinsky a Tesero. Il vostro Bepo Lissa a Roma e il loro Artemisio Brachetti a Tesero. Il vostro Bandin a Berlino e i loro Philharmoniker a Tesero. Così per ogni paese e per ogni città d’Italia, d’Europa, del Mondo!
D. E poi?
R. E poi, contemporaneamente, procedere alla depurazione dell’Uomo attraverso la riscoperta della spiritualità e della terra (che peraltro, in quel frangente garantirà la sopravvivenza dell’umanità); e riportare l’orologio dei bioritmi sfasati in sincrono con quelli naturali; e riscoprire il piacere dilettantistico individuale fine a sé stesso per mortificare gli impulsi narcisistici che tanto contribuiscono alla discriminazione tra le persone. E molto altro ancora.
D. Ma perché surrogare un oggetto certo inutile come l’automobile con un oggetto, come il presepio, altrettanto inutile ma per di più così lontano dal nostro quotidiano?
R. Perché sostituire l’automobile, pregna di reali e simboliche valenze negative, generatrice di problemi ambientali spaventosi, di insane promiscuità, di egoismo, di protervia, di somma confusione, oltre che – non dimentichiamolo – causa primaria della mortalità giovanile in Occidente, con un prodotto innocuo che, viceversa, simboleggia e trasmette valori nobili e positivi quali la famiglia, la bontà, la mitezza, la filantropia, la lentezza, eccetera, potrà determinare anche una rapida modificazione dei rapporti interpersonali, che a loro volta modificheranno i rapporti tra le piccole comunità, e poi tra le nazioni, e poi tra tutti i popoli del Mondo. Il modello Tesero 7, verificato sulla comunità da cui il medesimo prende nome, conferma, senza ombra di dubbio, che un’eventuale produzione su scala planetaria di presepi, potrà provocare nel volgere di pochi anni, la scomparsa definitiva dei razzismi e delle guerre e avviare un percorso virtuoso dell’Umanità verso una nuova era di pace, bellezza e beatitudine. Non so se arriveremo a raggiungere un nuovo Paradiso terrestre, ma verosimilmente ci andremo molto vicini.
D. Ma allora, più che un modello temporaneo, il Mod.∞.Te.7. potrebbe rappresentare l’approdo definitivo cui agogna la nuova Umanità…
R. Non credo. Non possiamo illuderci. Sarà un importante passo che aiuterà a trasformare le persone della Terra, che restituirà al Mondo, dopo due millenni di ininterrotta decadenza, uomini nuovi di buona volontà, pacificati e consapevoli. Ma il cammino poi sarà ancora lungo e impegnativo e la vittoria sul serpente infernale ancora lontana. Però certamente l’applicazione planetaria del Tesero 7 sarà fondamentale.
D. Un’ultima domanda. Quanto potrebbe durare, l’intero processo di “purificazione”, secondo i suoi studi?
R. Dipende da diversi fattori. Durerà, in ogni caso, più del tempo della transizione dal modello Tesero 7, provvisorio, alla nuova e definitiva era del nuovo primario. Duemila anni di degrado, non si lavano in un decennio. Ci vuole pazienza. Quel che conta in questo momento è capire se il Mod.∞.Te.7. riuscirà a supportare il passaggio. Io credo di sì. Anche se il processo di transizione dovesse prolungarsi per 10/15 anni sono certo che esso riuscirà a reggere il peso di questa biblica "transumanza". Come ripeto, se l’attuale sistema in disfacimento, basandosi più sulla suggestione pubblicitaria che su autentiche necessità vitali, è durato oltre un secolo, non vedo perché il Tesero 7 non dovrebbe riuscire a tenere per un decennio o poco più. Ce la faremo e grazie alla gente di Tesero e alla mia fortunata intuizione, riusciremo a salvare l’Uomo.

Intervista rilasciata al blog dal professor Spavaldi (via Skype) il 16/12/2008 alle ore 22,43

TRANCIA LA PROVINCIA


Aderisco alla campagna di Vittorio Feltri per l’abolizione delle Province. Nessun dibattito rivela l’inanità della politica quanto il comizio infinito sulla morte di quegli enti nobili, ma ormai utili solo a risolvere le caselle orizzontali del cruciverba. Alla vigilia delle elezioni tutti i partiti si dichiarano sdegnati e quasi stupiti della loro esistenza. In clima di processo alla Casta, sembrava questione di giorni. Una sforbiciata alle centodieci Province il lunedì, una ai mille parlamentari il martedì, e il mercoledì ci saremmo svegliati in un Paese quasi normale. Sono passati i lunedì, i martedì e le feste comandate, ma le Province sono sempre lì, mentre altre spingono per entrare. Persino la Lega, rivoluzionaria per statuto, allenta i cordoni dell’indignazione quando si tratta di difendere palmo a palmo le cadreghe padane. Poiché non si è mai visto un tacchino farsi la festa a Natale, gli unici a poter sprovincializzare l’Italia sono i cittadini. Basterebbe restituire in bianco la scheda, la prossima volta che si andrà a votare per il Consiglio provinciale. Purché lo si faccia davvero, e non ci si produca nel solito numero del bertoldo che si lamenta del potente e poi lo vota, lo insulta e poi gli chiede un favore. Conosco l’obiezione: con la faccia tosta che si ritrovano, i politici non toccherebbero le Province neppure se le schede bianche rasentassero il 50%. Vero, ma se quel 50 diventasse 80, sarebbero costretti ad abolirle. Conosco anche la seconda obiezione: le farebbero rinascere subito dopo, cambiandogli il nome in «comunità intercomunali». E stavolta mi arrendo.

Massimo Gramellini

14/12/08

LA STRADA DEL DOPO-KYOTO E' UNA RIVOLUZIONE DELLE NOSTRE MENTI


Sarà sufficiente la cornice di tempo di qui a Copenhagen per costruire un accordo mondiale circa la necessità di una brusca inversione di tendenza nelle politiche globali sul cambiamento climatico? A me pare che siamo in bruttissime acque. Ricordo il pronunciamento finale dell'incontro del World Political Forum a Torino, lo scorso 28 maggio: «Il mondo è entrato in un periodo in cui la drammatica scala, complessità e rapidità del cambiamento causato dalle attività umane, minaccia i fragili sistemi ambientali ed ecologici da cui dipendiamo». Tuttavia i numerosi allarmi che sono stati lanciati dalla comunità scientifica internazionale nel corso di molti anni non hanno avuto successo sinora nel convincere i governi, né le élites politiche, né le società di capitali a prendere attivamente dei provvedimenti miranti a prevenire un impatto negativo sulla vita quotidiana di milioni di persone. Questi impatti sono stati identificati con grandissima certezza, sebbene non ci sia ancora una data, e nonostante la loro scala non sia di fatto prevedibile. Lasciate che ricordi un po' la cattiva sorte delle prime previsioni del Club di Roma. Era molto tempo fa e i suoi allarmi non furono quasi notati, non ricevettero nessuna attenzione e, una volta notati, suscitarono diffuse derisioni, specie fra gli economisti. Era proprio l'inizio della globalizzazione e tutti soggiacevano ancora all'illusione della crescita indefinita. Nessun limite era allora concepibile. Tra queste illusioni c'era la più grossa: l'epoca del petrolio a basso prezzo non sarebbe mai finita. E che dire poi dei peggiori esiti allora prospettati dagli scienziati? Vennero definiti indimostrati: mere ipotesi, nulla di più. Ma ora, quarant'anni dopo, disponiamo di una potenza di calcolo sei miliardi di volte maggiore di quella di allora, e possiamo usare delle serie statistiche molto precise e complete. Questi dati, e non più ipotesi, dimostrano, al di là di ogni dubbio, che siamo già in 'overshooting'. Il che significa che l'umanità ha oltrepassato già 25 anni fa i limiti della capacità di sostegno della Terra. La nostra impronta umana ha cambiato la dinamica dell'ecosistema. Il cambiamento climatico è una, solo una, sebbene la più spaventosa, manifestazione di questa situazione. E ci troviamo ora in una assoluta mancanza di tempo. Ciò per alcune ragioni basilari: la prima è che il mondo delle società di capitali sta ancora celebrando la precedente fase di crescita e rifiuta di riconoscere che siamo già entrati in un territorio di insostenibilità. Questo è un comportamento collettivo dettato dall'ideologia. Psicologicamente comprensibile, ma potenzialmente catastrofico dal punto di vista politico e organizzativo. Perché in questa maniera il collasso arriverà proprio in modo subitaneo, per la gran sorpresa di ciascuno. L'altro pericolo è l'idea sbagliata che tutto sarà rimesso in carreggiata tramite i miglioramenti della tecnologia e con un uso più efficiente delle leve del mercato. Cosa che riassumerei con l'espressione “gli affari vanno avanti come al solito”. Ma il rovescio della medaglia di questa ideologia sta nel fatto che si tratta esattamente del mercato che ha generato questi esiti, e sarebbe proprio stranissimo e curiosissimo credere che il mercato, così come è stato ed è tuttora, ci possa salvare. Non lo farà. Così come non è una soluzione nemmeno la buona idea del business “verde”. Buona ma insufficiente. E un errore correlato sta nel pensare che il passo delle tecnologie in corso di sviluppo sarà il medesimo dei progressi dei limiti della crescita. Nei fatti i due passi non vanno in pari, hanno solo poche relazioni fra loro, e le rispettive velocità non sono nemmeno comparabili. La crisi del cambiamento climatico, per esempio, sta andando avanti più in fretta delle tecnologie che, in linea di principio, potrebbero fermarla. E per realizzare un incremento nelle capacità tecnologiche in questo campo dovremmo dar vita a un enorme investimento preliminare nella spesa per investimenti. Ognuno capisce ora che sarà particolarmente difficile far questo nel bel mezzo della crisi finanziaria mondiale. Ma questo, per altro verso, risulta difficilissimo se la responsabilità sociale delle società di capitale rimane al livello del “tanto per dire”. Che risulta troppo basso. Allo stesso tempo tra le élites politiche la consapevolezza del pericolo rimane abbondantemente inadeguata. L'Europa è il posto migliore, in questo preciso momento, perché l'Europa ha assunto decisamente la guida in questo campo, sebbene alcuni governi resistano. Guardate all'Italia e alla Polonia come ai peggiori esempi di questa resistenza. A tutte queste difficoltà dovremmo aggiungere la mancanza di consapevolezza del pubblico generale in merito ai rischi seri e reali che i disastri naturali implicano come risultato del riscaldamento globale. Molti continuano a credere che il riscaldamento globale sia un problema che possiamo lasciare alle future generazioni mentre non capiamo che sta già avvenendo oggi, è già qui che ha preso piede e ci sta già colpendo. Certamente colpirà la prossima generazione. Questo genere di cose hanno appena cominciato a entrare nel pubblico dibattito. E in un modo talvolta molto disorientante. Milioni di persone stanno ricevendo, solo da pochissimi anni, dei segnali contradditori: da una parte informazioni crescenti sul cambiamento climatico; dall'altro la pressione a incrementare i consumi sta continuando e perfino aumentando. Il che significa un aumento delle emissioni di gas serra. Da un terzo lato c'è, anch'essa in aumento, una fortissima pressione, proveniente da ogni sorta di gruppi lobbistici in rappresentanza di imprese e interessi settoriali. Il suo scopo è di smorzare i problemi, riducendone la chiarezza, confondere il pubblico, spostare l'attenzione, ridurre la determinazione a cambiare le politiche delle amministrazioni pubbliche locali e dei governi. E considerando che i manager delle imprese mediatiche sono primariamente sottoposti a questo tipo di pressione, anche la credibilità dei media è a rischio. Come risultato abbiamo che stanno avanzando molte pseudo-soluzioni fittizie, che – anziché aiutare a ridurre le emissioni – distribuiscono privilegi ed esenzioni. L'enfasi spesso usata per lanciare il Mercato delle Emissioni è uno di questi casi. Una via d'uscita illusoria che, alla fine, rischia di produrre risultati trascurabili e insignificanti nell'ammontare complessivo della riduzione delle emissioni di gas serra. Tutto questo accade mentre abbiamo bisogno di uno sforzo straordinario per produrre, nei prossimi quindici anni, una riduzione assoluta di CO2; in grado assoluto, in termini di meno milioni di tonnellate, non solo di qualche miglioramento percentuale. In breve siamo ancora molto lontani da una soluzione onnicomprensiva, e molto lontani anche da una visione istituzionale e politica delle questioni che stiamo per affrontare entro un periodo di tempo relativamente breve. Egoismi nazionali, interessi aziendali, settoriali e di categoria continuano a prevalere. La più impressionante di queste tendenze negative si è vista nello scontro tra la Commissione europea e le industrie automobilistiche europee. Queste ultime hanno evidentemente le loro ragioni, buone e meno buone, per resistere. Ma se ogni interesse particolare si difenderà ignorando l'intero paesaggio, non arriveremo sani e salvi alla fine del cammino. Ritengo che non sia solo una questione di “moral suasion”, ancorché sia certamente una questione di un nuovo modo di pensare il bene comune. Noi, a livello europeo, abbiamo il compito di sviluppare strumenti legislativi miranti a incoraggiare e aiutare tutti i settori industriali a divenire leader (e non ostacoli) nella lotta al cambiamento climatico, iniziando con il chiedere trasparenza nelle emissioni di carbonio. In altri termini ogni ramo della società e della politica deve capire che i compiti che abbiamo di fronte sono ti tipo epocale, e senza precedenti. Essi richiedono un intero sistema di cambiamenti, che implichino tutti gli aspetti delle relazioni umane, industriali, politiche e sociali all'interno di ogni società così come fra gli stati. Anche le nostre idee sulla sicurezza devono cambiare radicalmente. I maggiori pericoli per la nostra sicurezza collettiva verranno da nuovi orizzonti. Per fronteggiarli, ad esempio, non ci servono cacciabombardieri e portaerei, missili e bombe. Al contrario, le bombe saranno l'ultimo e il più stupido mezzo quando avessimo fallito nel creare una giusta sicurezza collettiva in tutte le altre direzioni della presente crisi. Ma se sarà così, questo vorrà dire che avremo perso. Quel che intendo è che la strada per Copenhagen richiede, per essere completata, una vera rivoluzione nelle nostre menti.

Giulietto Chiesa

12/12/08

LO SPRECO


Del doman non v’è certezza, ma alla fine la neve è arrivata. Nei suoi giorni migliori e in quantità che quasi se n’era perso il ricordo. Ci voleva. Pensavo non nevicasse più come una volta, e invece… Anche l’Andrea Tibu me l’ha fatto notare: “Dovrai correggere il tuo sito, adesso!” alludendo alla valenza eccezionale dell’evento e alla mia leggera presa per il culo nei suoi confronti dell’anno scorso. Ha ragione il Tibu, riconosco che la lotta contro l’algido elemento questa volta è stata quasi eroica e le squadre comunali hanno avuto il loro bel daffare per risolvere la complicata situazione. Anzi, da sole non ce l’avrebbero nemmeno fatta: per fortuna in soccorso è sopraggiunta anche la fida flotta Bortolas, che con sinergica azione ha risolto con celerità i disagi dell’importuna precipitazione. Perché dico importuna? Non siamo forse in dicembre e nel bel mezzo delle Dolomiti? Certo. Dico importuna perché ormai l’unica ragion d’essere della neve, nell’immaginario della maggioranza dei cervellini locali, è quella di far fare straordinari agli insostituibili Tibu & Marmo. E io fesso che pensavo essa fosse un preziosissimo dono di Domine Dio: per imbevere le falde acquifere, per rigenerare i suoli naturali, per ritemprare lo spirito, addirittura per sciare. Invece no, per i tanti illuminati di questo paese la neve non serve proprio a nulla. Non serve neanche per sciare; ché per gli sciatori si preferisce fabbricarne un surrogato fatto d’acqua ghiacciata nebulizzata (con l’aggiunta magari di qualche additivo chimico). Ma pensa te, chi l’avrebbe detto. Ecco perché il buon Ciro da Lago (o chi per lui), nei posterni delle Noalacce, ventiquattr’ore dopo la fine delle prime precipitazioni già stava armeggiando con la sua bella batteria di pompe e di cannoni. E sì, perché con un metro di bianca naturale, agli inizi di dicembre, non puoi mica essere sicuro di farla franca per tutta la stagione! Ohibò. La “vacca” è sempre in agguato e i cambiamenti climatici, conosciuti addirittura tra gli Orsi del fondovalle teserano, incombono come la mitica spada di Damocle anche sul Centro del fondo. Ecco il punto (il dito adesso è nella piaga). Quel Centro, per renderlo praticabile ai buontemponi che lo stondano gratis di domenica con gli sci, costa annualmente al Comune (dunque anche alla maggioranza del popolo che non lo stonda affatto) all’incirca 140.000 euro. Domanda: ma perché allora, dopo una nevicata di questa portata e un’altra alle viste, riattaccare i cannoni? È una pazzia, oltre che un delitto contro il patrimonio! Ma no, no, ora capiamo. È che a Tesero non ci si vuole proprio far mancare niente, e poiché di questi tempi vanno di moda i dissesti finanziari sarebbe stato stupido approfittare della favorevole contingenza meteorologica per risanare la nostra bad company! E poi è talmente raro che la neve nevichi che, per deformazione professionale, si preferisce produrla “da terra” ogni volta, a prescindere. Anche quando sulle piste ce ne sarebbe da vendere. E sennò che cosa vuoi che facciano tutti i giorni gli addetti del Centro? Li stipendiamo per cosa? Per contratto non sono mica tenuti a pensare quanto costi al popolo il loro pazzesco intrigare. Quindi, tranquilli. Nonostante la Provvidenza, che bontà sua, una tantum, ci aveva messo una pezza, anche quest’anno a pagare ci penserà Pantalone. E dato che è un pagare indiretto e unitariamente impercettibile, al singolo paesano (con rare eccezioni) poco gliene importerà. Fa specie però che con tutti i leghisti che ci sono in paese, sempre pronti a ululare, a coraggiosa distanza, Roma ladrona, non sia passato per la testa a nessuno di essi di guardare appena un po’ più sotto e almeno belare …Lago ladrina!

L’Orco

11/12/08

SISTEMA FANTASMA


Un fantasma si aggira per la crisi, ed è il termine «sistema», con tutte le sue varianti: «sistemico», «di sistema». Come nelle sedute spiritiche gli ectoplasmi compaiono sempre al momento opportuno, così ora il «sistema» viene evocato a ogni piè sospinto dagli sciamani dell'economia. Chiamare in causa il «sistema» è un modo di dire che quel che accade in questi mesi non è colpa di nessuno. Così, il ministro del Tesoro Usa, Henry Paulson, parla di «rischi sistemici» per la finanza mondiale. E uno dei più importanti consiglieri di Barack Obama, Robert Rubin (egli stesso ex ministro del Tesoro sotto Bill Clinton) difende il suo operato a Citigroup - da cui ha ricevuto dal 1999 a oggi la modesta sommetta di 115 milioni di dollari - dicendo che ad affondare questa banca non sono state le sue scelte strategiche, bensì una «crisi sistemica». Il sistema diventa così il perfetto capro espiatorio: è anonimo, imprendibile, irraggiungibile, ci sovrasta come nuvola, ci permea come nebbia. La responsabilità del sistema assolve da ogni colpa quei banchieri, agenti di cambio, consulenti finanziari, operatori di borsa che ora l'opinione pubblica statunitense vorrebbe vedere processati per direttissima, condannati e rinchiusi in qualche carcere di massima sicurezza: la sete di vendetta brucia sempre di più nei confronti dei propri ex-idoli. La sinistra Usa fa già pressione perché con Obama il nuovo Senato costituisca subito una commissione d'inchiesta sull'operato dei grandi finanzieri. Ma gli stessi stregoni che lo evocano con le loro formule magiche, vogliono che il sistema mantenga il suo statuto fantasmatico. Infatti nessuno di loro trae la logica conseguenza delle proprie parole: se la crisi è «sistemica», tali dovrebbero essere anche i rimedi. E invece no. Nessun responsabile dell'economia afferma di voler «correggere il sistema». Non possono dirlo per la semplice ragione che tutti loro hanno contribuito a creare questo sistema: sia Paulson e Ben Bernanke (governatore della Federal Reserve) scelti da George Bush; sia Larry Summers (ex ministro del Tesoro sotto Clinton), Tim Geithner (governatore della Federal Reserve di New York), e Paul Volcker (ex governatore della Federal Reserve) scelti da Obama: sono proprio loro - chi prima, chi dopo - ad aver sregolato i mercati finanziari, allentato i controlli, incitato la finanza allegra. In questo senso, la scelta di Volcker richiama quella di Padoa Schioppa da parte di Romano Prodi: è il vecchio che avanza. Gli unici che osano dire «bisogna cambiare il sistema » sono due premi Nobel dell'economia, Paul Krugman e Joseph Stiglitz (nessuno dei due chiamato a far parte della squadra dei consiglieri di Obama). Stiglitz diceva pochi giorni fa in un'intervista a Repubblica che «bisogna riscrivere le regole del sistema ». Ma sono due opinionisti isolati, per quanto influenti. L'unica speranza è che la profondità stessa della crisi porti i paladini del laissez-faire a prendere misure di sinistra. Succede già: l'ultraliberista amministrazione Bush ha di fatto inaugurato un'era di nazionalizzazioni, ha adottato - senza dirlo - il modello Iri, quello delle banche a partecipazione statale. Ma, appunto, lo fa di nascosto, senza confessarselo. L'ideologia liberista è magari in crisi verticale, però non la soppianta nessun nuovo keynesismo: loro stanno perdendo, ma noi non stiamo vincendo (nel mondo reale i giochi non sono mai a somma zero). Il tentativo in corso da parte della squadra di Obama sta tutto qui: risolvere una crisi sistemica senza cambiare radicalmente sistema. Obama ha già più volte annunciato l'avvio di poderose opere pubbliche e il varo di una politica d'investimenti eco-tecnologici e non potrà non salvare l'industria dell'auto (fu così che Alfa Romeo finì in mano pubblica). Ma il tentativo della sua squadra è di contenere al massimo proprio i mutamenti «sistemici». Tutti attribuiscono la crisi alla deregulation , ma nessuno degli uomini di Obama parla di regulation . L'incentivo alla domanda è un classico strumento keynesiano, ma cercano di ottenerlo con i più ortodossi strumenti del monetarismo e della supply side economics : riduzione delle tasse e conio di carta moneta (infusione di liquidità nei circuiti finanziari e riduzione del tasso di sconto, ormai inferiore al tasso d'inflazione: cioè il denaro lo stanno regalando). Però nessuno osa affrontare i due nodi centrali della crisi: 1) sotto l'aspetto finanziario, l'anarchia globale dei mercati è insostenibile e - se gli stati nazionali non sono all'altezza - deve comunque esistere un sistema di regole internazionali che limiti l'arbitrio degli gnomi della finanza; 2) nell'economia reale, non è possibile pretendere consumi sostenuti se il nerbo della forza lavoro è malpagata e precaria, se è «flessibile». L'unico modo in cui questa magia vudù ha potuto avverarsi negli ultimi 30 anni è stato con un indebitamento crescente dei privati cittadini Usa e degli Usa nei confronti dell'estero. Senza parlare del modello di sviluppo da correggere in modo drastico perché - ora è comprovato - lo sviluppo non può consistere nella crescita illimitata dei consumi. Barack Obama ha di certo la migliore volontà del mondo. Però un sistema non si autoemenda da solo, non basta la crisi. Se non ci sarà una pressione dal basso, è quasi inevitabile che gli esponenti dell'ancien régime cerchino di limitare i danni, di traghettare il sistema per quei cinque anni che - a detta di tutti - saranno necessari per tornare a regime, se mai vi si tornerà. Come gli italici democristiani all'epoca di mani pulite, cercheranno di «passare la nottata». Ricordiamo che il New Deal non nacque - come Atena dalla testa di Giove - dalla mente illuminata di Franklin Delano Roosevelt, bensì dalla più grande ondata di movimenti popolari che la storia degli Stati uniti ricordi. Ma quest'ondata non è da escludere. Soprattutto se la situazione peggiora, come a ragione pronostica Obama. Se persino l'ultraliberista Bush è addivenuto alle partecipazioni statali, anche deregulators come Summers, Rubin, Volcker e Geithner potranno magari subire una metamorfosi e, novelle crisalidi, convertirsi alla socialdemocrazia. O almeno al capitalismo renano.

Marco D’Eramo

08/12/08

LA SCELTA NEO-CONTADINA


Il Sistema attuale capitalista avanzato-consumista, eco-sociodistruttivo non è recuperabile dall’interno: è strutturalmente votato alla catastrofe. Non è possibile né opportuno combatterlo e sconfiggerlo militarmente, né è sufficiente, coerente, efficace, combatterlo puramente su un piano culturale di informazione continuando nei fatti ad alimentarlo con la nostra vita sul piano economico-materiale strutturale. Cultura e informazione sono, sì, aspetti importanti che non possono essere ignorati, ma alla fine un’alternativa dovrà essere praticata concretamente e sarà solo quello che potrà, al “dunque”, cambiare le cose. È assolutamente necessario cominciare a realizzarla nei fatti in prima persona. Bisogna avere il coraggio della “povertà di spirito” (nel senso evangelico del termine): tagliare le chiacchiere e cominciare a fare qualcosa di radicalmente concreto. Non stare a sentire chi dice “non è così semplice”, “non si può risolvere tutto così”, ecc. Non si risolverà certo tutto così, senz’altro. Ma sarà anche sempre meglio che star a disquisire e rimarcare “distinguo” o immaginare scenari futuri all’ultima moda mentre si continua ad alimentare nelle piccole cose della propria vita il disastro incombente. Diciamo pure la verità: quanti brillanti intellettuali ecologisti, attivisti di sinistra, politicamente corretti e quant’altro, se (per pura ipotesi) anche sapessero con certezza matematica che bisogna vestire tute da lavoro e zappare, accontentarsi di passare le serate davanti al camino, come unica possibilità per salvare il pianeta, semplicemente lo farebbero e quanti invece troverebbero infiniti argomenti giustificativi per mantenere la gratificazione che gli dà il loro status ed allontanare il momento di comportarsi secondo quanto coerentemente dovrebbe discendere da ciò che dicono? Allo stesso modo non è neppure il caso di stare ancora a sentire chi dice che andando in campagna ci si sottrae alle proprie responsabilità verso la società o l’umanità o comunque i propri simili in senso ampio. Vale un discorso analogo: molti di coloro che oppongono questa obiezione chiamano “lottare” il loro puro e semplice esprimere opinioni, peraltro in un contesto democratico in cui questa è una facoltà del tutto priva di rischi. Spesso neanche ci si accorge che nella storia contemporanea, alla progressiva tolleranza del potere per le posizioni politico-culturali anche le più eccentriche, è andato di pari passo lo scivolamento del piano sul quale si prendono le vere decisioni che contano, dalla politica all’economia (materia riservata agli specialisti) e, per quanto concerne l'aspetto che più riguarda il popolo, dalla partecipazione democratica alle tendenze nel consumo. In questo contesto si possono tranquillamente manifestare pubblicamente le prese di posizione più eterodosse: servono a suscitare applausi o fischi (buoni entrambi per l’audience) nei talk show televisivi, tanto, a parte un po’ di colore, che ci sta sempre bene (nella migliore tradizione del panem et circenses), lasciano esattamente il tempo che trovano. Perché di parole, opinioni, informazioni ne abbiamo così tante che non è più lì che prendono forma le cose. Il neo-contadino (n-c), invece, ben lungi dal voler ignorare il proprio coinvolgimento nel percorso umano su questa Terra, si prende, a ben vedere, la responsabilità suprema, perché dedica tutta la propria vita, non solo nel tempo, ma nella molteplicità degli aspetti, a realizzare concretamente una soluzione alternativa sperimentandone su di sé la praticabilità nel contesto dato in cui si trova. Senza aspettare “il sol dell'avvenire”. La differenza però, dal suo punto di vista, è che oggi le vere questioni all’ordine del giorno non sono quelle correntemente presenti nelle notizie d'attualità o nel quotidiano dibattito politico e culturale rispetto alle quali ha un interesse molto relativo. Il passaggio storico nel quale ci troviamo coinvolge fenomeni di una tale portata che mettono all'ordine del giorno né più né meno che alcune tra le domande da sempre fondamentali per l’umanità, ovvero quelle che riguardano il nostro posto sulla Terra ed il senso del nostro vivere. Noi siamo di fronte alla possibilità reale di stravolgimenti climatico-ambientali (con tutte le conseguenze sociali, sanitarie, economiche, belliche ecc.) epocali e stiamo normalmente a discutere di banalità, pettegolezzi o quantomeno argomenti molto secondari. Ciò dipende probabilmente dal fatto che su questi troviamo il modo di esercitarci dialetticamente e fare la nostra figura, mentre davanti a ciò che davvero incombe su di noi non sappiamo cosa dire. Al punto che preferiamo non parlarne. Al massimo come informazione, interpretazione di dati, sì. Ma sul perché andiamo avanti spediti pur sapendo verso quale disastro stiamo correndo? La vera questione all’ordine del giorno oggi è proprio l’assenza delle questioni di fondo che pure sono qui davanti ai nostri occhi, appena velate dai fatti in cui ci si mostrano, dal dibattito, dalla discussione tra le persone, dalle motivazioni che ispirano i nostri sforzi. Corriamo in una automobile che sfreccia verso il precipizio e stiamo discutendo di che marca è migliore la benzina o se ci piace più il modello coupé o la berlina. Possibile a nessuno venga in mente di frenare, tirare il freno a mano, spegnere il motore e chiedersi un momento dove stiamo andando e perché? Se ha un qualche senso parlare di “fine della Storia” non è certo a causa delle elucubrazioni di Fukuyama, ma perché, con ogni evidenza, oggi l'essere umano si sta dimostrando un bambino che gioca con una bomba, e una bomba più grande di lui. È perché è arrivato il momento di tirare le fila della Storia, prima che sia troppo tardi: capire veramente cosa ci muove, capire veramente dove stiamo andando e perché. Agli dèi e agli ideali non ci crediamo più. Bene; ma non è il caso di continuare a trastullarci con i loro surrogati né di annegare in un nichilismo non dichiarato per non voler fare i conti con noi stessi ed il percorso che ci ha portato fino a qui. Se il n-c si sottrae alle schermaglie politiche d’attualità, ciò è precisamente rivendicato, perché oggi è il momento di interrogarsi e praticare, sperimentare soluzioni, sulle questioni di fondo. Come possiamo trovare il modo di viverci bene su questo pianeta. Bene per noi e per gli altri e per il pianeta stesso. C'è qualcuno che lo può insegnare? Forse sarà bene che cerchiamo di trovarne il modo noi, direttamente, perché le menti più raffinate preferiscono discuterne - e del resto non hanno mica studiato tanto per poi mettersi a zappare! Non è che io voglia sminuire l’importanza del ragionare sulle cose né del conoscerle: non starei a scrivere tutte queste cose forse anche noiose se fosse così. Dico solo che bisogna anche agire. Anzi, prima agire, e poi parlarne. Allora, non è un male se l’agire del n-c si svolge fuori dalla mischia, in zone “marginali”, di campagna: lì non verrà notato e il nuovo sistema di vita che costruirà avrà il tempo di crescere indisturbato, prenderà piede e metterà radici come il germe di un’economia auto-prodotta. Così non sarà più solo “ai margini”, ma sarà proprio dal di fuori del Sistema che continuerà a costruire una realtà di cui si potranno vedere le caratteristiche, in certa misura, oggettivamente diverse dal mondo che la circonda. Da questo “fuori” il n-c aspetta il momento in cui il Sistema crollerà da sé. Oppure in cui si accorgerà di dover fare una metamorfosi, se si vorrà salvare. Questa metamorfosi avviene attraverso una serie numerosissima di scelte individuali che sono già qualcos’altro mentre sono ancora parte di ciò che c’era prima. È il processo naturale con cui avviene l’evoluzione delle specie, come quando un bruco diventa una farfalla. Ed è il processo che compie man mano il n-c e, attraverso molti come lui, forse la società stessa potrebbe farlo. Indubbiamente durante l’evoluzione molte specie anche si estinguono, e non c’è il lieto fine assicurato per nessuno (neanche per i più forti). Ma una cosa è certa: quando il bruco sente il momento di trasformarsi in farfalla, che quello è ciò che va fatto, non si mette lì a distinguere se è opportuno, se è realistico, se progressista, da conservatori o utopistico ecc… ecc… Si mette lì e realizza la sua trasformazione. E, se la sua intuizione è stata corretta, tutta la Natura lo sostiene. Questo non vale solo per il bruco attuale, risultato di millenni di un processo metamorfosale collaudato, ma anche per quei “proto-bruchi” che per primi hanno sentito di rispondere alle condizioni ambientali in questo strano modo. Hanno cominciato a mettersi lì e costruirsi il bozzolo: l’hanno semplicemente fatto. E continuando per alcune generazioni hanno realizzato su sé stessi una nuova forma del vivere, che funziona bene nel contesto del pianeta, tanto che ancora i loro discendenti vivono così. Non credo che quei primi bruchi avessero un programma chiaro di ciò che andavano a fare: hanno solo sentito chiaramente che ciò andava fatto in quel momento e semplicemente l’hanno fatto. Non è che avessero lo scopo di diventare farfalle: ci sono diventati rispondendo alla situazione. La nostra vita è qui ed ora: non dobbiamo sacrificarla in nome di qualche ideale astratto o in vista di un domani teorico. La via per la quale togliamo sostegno al Sistema, la nostra soluzione sul piano politico, deve essere anche la nostra via di salvezza sul piano esistenziale, deve restituirci senso nell’atto stesso del percorrerla. E deve rendere le nostre personali vite più degne di essere vissute per come noi stessi le percepiamo. La nostra vita è inoltre tutto ciò che abbiamo come individui ed è la nostra autentica realtà vissuta: è a partire da questa che possiamo fare qualcosa di concreto, di percepibile, di verificabile. La strada per la quale possiamo costruire una soluzione sia per noi stessi come singoli/famiglie/piccoli gruppi che per la società in generale deve viaggiare sul piano degli elementi basilari, costituenti iniziali, della società ovvero ancora su la nostra vita come individui in primo luogo e poi nell'ambito della cerchia di relazioni alla nostra diretta portata. Si tratta necessariamente di una portata molto limitata, ma è altresì quella che ci dà una misura di realismo e di realtà, all’interno della quale ben vediamo come le chiacchiere stiano a zero. Qualcosa di percepibile, che ci dà il passo al quale dobbiamo camminare, lento, ma possibile, che ci mostra pure che pian piano andiamo avanti. E che anche ci permette di mostrare qualcosa di concreto agli altri; qualcosa di vissuto e di praticabile. Lo stile di vita da seguire deve essere tale che, se per pura ipotesi teorica tutti vivessero così, possiamo immaginare che ci sarebbe da vivere dignitosamente bene per ognuno ed il pianeta e la natura, così come la conosciamo oggi, potrebbe continuare a vivere senza traumi per un tempo indefinito. Questo è un buon metro di giudizio di massima per valutare quello che stiamo facendo ed anche quale sia un livello accettabile di tecnologia (e ricambio di attrezzi tecnologici) e di consumi. Un sistema di vita che corrisponda a questi requisiti - certo non il solo che abbia umanamente dignità e valore, non è di questo che si sta parlando - forse l’unico che davvero ci rientra del tutto, è certamente quello che si incentra sull'agricoltura contadina, agricoltura di sussistenza o comunque di piccola scala. Non a caso il sistema di vita col quale la gran parte dell'umanità ha sempre vissuto e con cui vive anche oggi in realtà, se consideriamo la totalità del mondo, ed è probabilmente per questo che ancora il pianeta riesce a sopportarci. Già oggi non potrebbe più essere così se tutti gli umani fossero passati alla modernità industriale/consumistica. Sebbene si possano immaginare altri stili di vita o tipi di sostentamento che non siano quello contadino anch'essi eco-compatibili (per esempio quelli basati sulle produzioni artistico-culturali o artigianali o di tipo ascetico-filosofico-religioso), questi lo sono solo se limitati a più o meno piccole minoranze di individui all'interno di una società. Ma nessuna società nel suo complesso può sussistere vivendo o incentrandosi su queste basi. Queste minoranze specializzate hanno bisogno di coloro che gli forniscano ciò che non producono e che gli è invece basilarmente necessario, tanto che non potrebbero vivere senza, mentre ciò che esse danno in cambio non lo è altrettanto. Un contadino può anche, nel tempo libero, suonare o dipingere, ma chi è professionalmente artista non produce il proprio cibo. Una società (ma oggi come oggi bisogna parlare di umanità dato che l'economia è globalizzata ed il suo impatto ambientale avviene su scala planetaria), o una parte considerevole di essa, che volesse trarre il proprio sostentamento solo dall'arte o dalla cultura, avrebbe necessariamente bisogno di un'altra parte, pure considerevole, che dovrebbe fare in misura maggiore tutti i lavori fisici atti a soddisfare i bisogni materiali della prima. Questa si troverebbe così a essere dominante e sfruttatrice per il tempo che sottrae all'altra se non anche per il denaro: la parte sfruttata rimarrebbe confinata nell'ambito del proprio ruolo di lavoro fisico e non potrebbe accedere alle produzioni della parte “culturale” neppure in modo passivo. Ne seguirebbe un distacco sempre più netto delle due parti, che finirebbero per ruotare ognuna dentro al proprio mondo, per quanto bene il lavoro fisico possa venir pagato. A questo va aggiunto che, se si volesse alleviare significativamente la fatica fisica di questa massa di lavoratori ed attuare uno spostamento crescente di persone verso occupazioni più culturali, sarebbe allora tutto l'ambiente naturale a non poterlo sopportare dato l'enorme impiego di macchine ed energia che sarebbe necessario. Consideriamo dunque le cose a livello di massa: pensando ad uno stile di vita/occupazione lavorativa che possa essere ecosotenibile nel senso detto sopra anche se esteso a livello della generalità degli individui di una società, questo è solo quello contadino (e non genericamente “agricolo”, ma contadino, cioè su piccola scala - ed, ovviamente, biologico). Va da sé, come già detto, che questo non significa pensare che una società dovrebbe, né potrebbe, essere composta esclusivamente da contadini al 100%, questo è chiaro. Ma una società è agricola (come anche industriale, o di terziario avanzato, o pastorale-nomade, o neo-contadina) quando la grande maggioranza, la generalità delle persone vive nel modo corrispondente al modello produttivo che la caratterizza o in modo variamente influenzato da questo e quando, di conseguenza, tale è il settore economico portante per questa società. Settore che dà anche l'impronta al modello culturale. Ciò significa altresì che tale stile di vita si pone come quello più comune, più normale, alla portata di tutti, attraverso il quale la maggioranza degli individui possono vivere di occupazioni condivise e riconosciute come normali, cercandovi soddisfazioni normali mettendo a frutto capacità ed aspirazioni normali, dove per “normale” si intende ciò che è comunemente diffuso nella considerazione e nelle aspettative delle persone.

Sergio Cabras

07/12/08

L'IPOCRISIA DEL CORRIERE DELLA SERA


Blandamente criticato da Stampa e Corriere della Sera per una misura in fondo marginale come l’aumento dell’Iva a Sky (che non è come dice Veltroni, una Tv per tifosi squattrinati - quelli vanno allo stadio, in curva - ma per gente benestante) Silvio Berlusconi ha affermato che i direttori di questi due giornali dovrebbero cambiare mestiere. Il presidente del Consiglio ha detto testualmente: “In tanti dovrebbero cambiare mestiere, direttori di giornali e politici, ho visto che la Stampa ha titolato Berlusconi contro Sky, ho visto le vignette del Corriere della Sera, ma che vergogna... dovrebbero avere tutti più rispetto per se stessi e fare un altro mestiere”. Ha ragione: se non per la Stampa senz'altro per il Corriere della Sera. Ma in senso diametralmente opposto a quello che gli dà il premier. La responsabilità del Corriere della Sera un giornale dalle grandi tradizioni liberali e che si presenta tutt’oggi come liberale, è di aver non solo avallato ma sostenuto in questi decenni, attraverso i suoi principali editorialisti, Ernesto Galli della Loggia e Angelo Panebianco (nelle cronache è stato invece più equilibrato) le posizioni e le azioni illiberali del Cavaliere. Il duopolio Rai-Fininvest (poi Mediaset) è il contrario di un assetto liberal-liberista perché, come insegnano al primo anno di Economia, e come scrivevano i padri di questo sistema, Adam Smith e David Ricardo, ammazza la concorrenza che è l’essenza stessa del liberal-liberismo e la cui mancanza è particolarmente grave nel settore dei media televisivi che sono il ganglio vitale di ogni moderna liberaldemocrazia. Un colossale conflitto di interessi che si espande dal comparto televisivo a quello editoriale, immobiliare, finanziario, assicurativo e arriva fino al calcio, e di cui ci si accorge solo quando tocca anche i propri interessi (che è il caso di Sky). Le leggi “ad personas”, per salvare gli amici dalle inchieste giudiziarie, e “ad personam”, per salvare se stesso, il “lodo Alfano”, ledono un altro principio fondante di una liberaldemocrazia: l’uguaglianza di tutti i cittadini da vanti alla legge. Ma più gravi ancora sono state, a mio avviso, le continue e devastanti aggressioni alla Magistratura italiana, la sua delegittimazione. In terra di Spagna, davanti a tutta la stampa internazionale, allibita, Berlusconi dichiarò che “Mani pulite”, cioè inchieste e sentenze della magistratura del suo Paese, di cui pur era premier, erano state una “guerra civile”. Non c'è stata volta in cui Berlusconi o i suoi amici politici sono stati raggiunti da provvedimenti giudiziari che i Pm e i giudici non siano stati accusati di “uso politico della giustizia”, un reato gravissimo peraltro mai dimostrato, fino ad affermazioni generiche ma non meno gravi: “i giudici sono antropologicamente dei pazzi”, “la magistratura è il cancro della democrazia”. E così adesso anche Paolo Mieli si becca della “toga rossa”. E ben gli sta. E anche all'inaudito volgare e violento attacco di Berlusconi, il Corriere ha reagito con un corsivetto tremebondo e una cronaca in cui la metteva sull'umorale. Questo atteggiamento supino del Corriere, il più importante quotidiano italiano, non ha fatto il bene del Paese né dello stesso Presidente del Consiglio. Lasciatagli passare, passo dopo passo, ogni cosa, il Cavaliere, che antropologicamente non conosce il senso del limite, si sente ormai autorizzato a tutto. Recentemente ha avuto la protervia di accusare le Reti televisive nazionali che pur controlla per i 3/4 di “denigrarlo”, di “insultarlo”, di essere “disfattiste” (bruttissima parola di fascistica memoria), di parlar troppo della crisi economica e quasi quasi di esserne la causa. Presidente del Consiglio, padrone assoluto del Parlamento, padrone del centrodestra, se si eccettuano la Lega e l’Udc di Casini che ha avuto il coraggio morale di smarcarsi, padrone del sistema televisivo, ricco più di Creso, Silvio Berlusconi è ormai il padrone pressochè assoluto del Paese. E nessuno può più fermarlo. Una situazione che con la liberaldemocrazia non ha nulla a che vedere. E il Corriere della Sera ne è per la sua parte, che è una notevole parte, corresponsabile.



Massimo Fini

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

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Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
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LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
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MINU

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