03/12/07

IL BENE, IL MALE E IL "TERRORISMO"


Il terrorismo rimane un concetto astratto, poiché la comunità internazionale non è riuscita a darne una definizione. È dal 1937, che la Società delle nazioni (Sdn) non riesce ad adottare una convenzione per prevenirlo e reprimerlo per mancanza di un accordo fra gli stati membri. Per la stessa ragione, l'Organizzazione delle nazioni unite (Onu), malgrado gli innumerevoli dibattiti che si sono svolti nel corso dei suoi sessant'anni di esistenza, non ne ha potuto determinare la natura. Più di recente, al momento della sua creazione avvenuta nel 1998, la Corte penale internazionale (Cpi) ha dovuto escludere dalle sue competenze il terrorismo internazionale nonostante fosse deputata a punire un largo spettro di crimini, compresi quelli di genocidio. Il tema ha tuttavia invaso la stampa scritta e audiovisiva; in numerosi stati sono stati instaurati sistemi repressivi col pretesto di resistere a una minaccia considerata mortale. Di rado nella storia dell'editoria ci sono stati tanti libri, dotti e non, dedicati a un fenomeno che ha portato alla «guerra» proclamata dal presidente George W. Bush all'indomani degli attentati dell'11 settembre 2001. Washington ha di che rallegrarsi: moltissimi stati hanno concluso con gli Stati uniti accordi di «cooperazione» che neanche la resistenza al «comunismo internazionale» aveva prodotto a suo tempo. Anzi, l'America dei neoconservatori ha potuto avere dalla sua l'Unione europea e la Russia e concludere con loro, in questo inizio aprile 2007, un'alleanza antiterrorista, anche se, in realtà, si tratta di una convergenza gravida di secondi fini e non di un vero e proprio consenso. Poco tempo fa, negli Stati uniti, un conferenziere doveva evitare di analizzare le cause politiche e sociali della violenza, per paura di essere sospettato di voler giustificare il terrorismo. L'ukase ufficiale imponeva che si considerasse il pianeta minacciato dall'odio immotivato per la democrazia. Politologi e giornalisti evitavano per prudenza di andare controcorrente. Tuttavia, l'ondata di proteste che dilaga, in seguito agli scandali che scuotono l'amministrazione Bush, spazza via progressivamente tabù e preconcetti come testimoniano diverse opere comparse di recente. Esse non giustificano il terrorismo, ma analizzano le cause e suggeriscono rimedi. Autore di diversi libri dedicati ai conflitti mondiali, Matthew Carr prende in contropiede i neoconservatori dimostrando, con il suo libro Unknown soldiers, che il terrorismo non è altro che la violenza al servizio (o al cattivo servizio) della politica, in modo esclusivo o meno. Egli banalizza il fenomeno ricordando gli attentati, gli omicidi, commessi nel XIX secolo in Russia dalle organizzazioni che si rifacevano alla rivoluzione francese del 1789, oppure dagli anarchici delle due sponde dell'Atlantico, nello specifico in Francia, dopo il massacro dei comunardi nel 1870. Nel secolo scorso, la follia omicida infiamma i Balcani (1900-1913), l'Irlanda del nord a partire dal 1919, i paesi colonizzati che si ribellano contro le potenze occupanti. Queste ultime giustificano l'esplosione delle loro sanguinose repressioni demonizzando i combattenti per la libertà. Matthew Carr ricorda che questi «terroristi» sono stati definiti dai loro oppressori banditi, criminali comuni, malfattori, mostri, serpenti, vermi... Un esempio fra i tanti, i mau-mau in Kenya che, negli anni '50 venivano presentati dall'amministrazione e dai coloni britannici come membri di una «setta satanica» mentre il rispettabilissimo New York Times spiegava dottamente la rivolta keniota con «le frustrazioni di un popolo di selvaggi (...) incapace di adattarsi al progresso della civiltà». Le cifre ufficiali indicarono ulteriormente che coloro che erano accusati di essere «assetati di sangue», durante i sette anni della sollevazione, uccisero 32 coloni e 167 membri delle forze dell'ordine di cui 101 africani; per contro, oltre 20.000 mau-mau vennero massacrati dalle forze di sicurezza, e diverse centinaia di migliaia di kenioti vennero feriti, mutilati, cacciati dalle loro case. Carr, che richiama, tra gli altri, il caso algerino, ricorda che tutti i conflitti coloniali si sono conclusi con l'arrivo al potere dei dirigenti «terroristi»: Jomo Kenyatta in Kenya, Nelson Mandela in Sudafrica, Ahmed Ben Bella in Algeria, Menahem Begin in Israele, Anouar El-Sadat in Egitto, per citarne solo alcuni. Per i poteri stabiliti, i terroristi non hanno mai motivazioni legittime; sia le loro frustrazioni che le loro rivendicazioni politiche o sociali non sono degne di essere prese in considerazione (se non con la forza), non essendo il ricorso alla violenza che l'espressione del loro «fanatismo» o della loro «follia». Matthew Carr riporta a questo proposito che, negli anni '70, le autorità della Germania occidentale prelevarono i cervelli dai cadaveri dei membri della Banda Baader-Meinhof per determinare le origini genetiche della loro mentalità criminale. Uno psichiatra tedesco era persino riuscito a «scoprire» una disfunzione patologica in uno degli organi che aveva esaminato... Altre teorie sono state diffuse dagli intellettuali americani di alto rango: Samuel Huntington, docente di scienze politiche all'Università di Harvard, prevede dal '93 un «conflitto di civiltà» tra «l'Occidente» e l'Islam, mentre lo storico Bernard Lewis spiega, dal '64, che il conflitto israelo-arabo è dovuto alla incapacità dell'Islam di adattarsi alla modernità. Non c'è da stupirsi allora che Lewis diventi uno dei mentori più apprezzati dai neoconservatori e dagli ultrasionisti americani. Un'opera che sembra unica nel suo genere contribuisce con forza a demistificare i fantasmi coltivati sulle motivazioni dei terroristi. Dining with terrorists è stato scritto da Phil Rees, celebre giornalista d'inchiesta premiato con decine di riconoscimenti internazionali per i suoi libri, i suoi documentari, i suoi articoli. Per anni, ha percorso il pianeta per «mangiare» con i responsabili delle organizzazioni che praticano la violenza. Un viaggio a tappe forzate che consisteva nell'introdursi, ovvero infiltrarsi nei movimenti clandestini dei più diversi paesi come la Colombia, l'Algeria, i Paesi baschi spagnoli, l'Indonesia, la Cambogia, lo Sri Lanka, l'Afghanistan, il Libano, l'Iran, l'Egitto, l'Irlanda, la Jugoslavia, il Kashmir, il Pakistan, la Palestina. Il risultato di queste inchieste, foto alla mano, è giudicato non a caso «sbalorditivo» da Noam Chomsky. Il ritratto umano dei combattenti che emerge, la forza delle loro convinzioni, spingono a usare altri mezzi dalla forza per aver ragione della loro violenza, per quanto atroce possa apparire. Narratore senza pari, Phil Rees ci fornisce dei resoconti delle sue avventure e disavventure, e ritratti accattivanti dei suoi interlocutori. Nessuno di loro si considera un terrorista, ognuno sostiene di opporre la violenza alla violenza degli oppressori. Quelli che sperano in una vittoria militare sono rari; alcuni sperano di obbligare il nemico a un compromesso, altri si accontentano di diffondere un «messaggio politico». Così, Matthew Carr classifica come azioni di propaganda quelle dei palestinesi negli anni '70, nello specifico i dirottamenti aerei. Per Phil Rees, i palestinesi sono partigiani allo stesso titolo dei sionisti sotto il mandato britannico (1922-1948) e dei francesi sotto l'occupazione nazista. Nel '97, fa la conoscenza di uno dei fondatori di Hamas, un intellettuale laureatosi nelle università americane, docente d'ingegneria all'università islamica di Gaza, autore di diversi libri di tecnologia o politici. Ismail Abou Shanab gli confessa che accetterebbe volentieri gli accordi di Oslo solo se Israele accettasse la creazione di uno stato palestinese degno di questo nome. «Di fronte alle bombe lanciate dai carri armati, ai bombardamenti degli aerei F-16 ai missili degli elicotteri Apache dell'esercito d'occupazione, cosa possiamo fare d'altro se non mandare i nostri figli a farsi ammazzare in Israele», dice tristemente a Rees. Per lui è anche un modo di lanciare un appello disperato all'opinione pubblica mondiale. Abou Shanab, all'età di 47 anni, era rimasto un militante nonostante gli otto anni di prigione che aveva appena trascorso nelle carceri israeliane, due dei quali in isolamento in una minuscola cella sotterranea. Sei anni dopo, nel 2003, mentre guida la macchina, una raffica da un elicottero israeliano lo decapita e fa a pezzi il suo corpo, uno spettacolo a cui assiste, atterrito, Phil Rees guardando per caso il servizio diffuso da un canale di televisione satellitare. Abou Shanab, dopotutto, non è che la centotrentottesima vittima, in due anni, della politica israeliana dei cosiddetti «omicidi mirati», nota il reporter senza altro commento. Avrebbe potuto aggiungere che gli assassini mirati (esecuzioni fuori dalla legge) sono crimini di guerra per le leggi internazionali, mentre Hamas - che è anche e soprattutto un importante partito politico, maggioritario in un parlamento democraticamente eletto - è severamente punito in quanto «organizzazione terrorista» sia dagli Stati uniti che dall'Unione europea, che hanno anche tagliato gli aiuti al governo palestinese all'indomani della vittoria di Hamas nel corso di elezioni peraltro democratiche. Phil Rees non teme di attraversare la Colombia da un capo all'altro, per visitare i rifugi marxisti delle Forze armate rivoluzionarie (Farc) e poi quelli delle milizie controrivoluzionarie, che praticano sia gli uni che gli altri sistematicamente i sequestri e gli omicidi non solo di concittadini sospettati di simpatia per l'uno o l'altro campo, ma anche di stranieri di passaggio. Ne rimane sconvolto, ma ritiene che sia controproducente bollarli con l'appellativo infamante di «terroristi». Per arrivare alla pace, sostiene, si dovrebbe escludere l'ingiuria e tenere in considerazione gli interessi e la posta in gioco delle parti in conflitto. D'altronde, aggiunge citando ex-ambasciatori americani in America latina, la politica di Washington in questo cortile di casa degli Stati uniti sarebbe forse meno «terrorista» (1)? Nei Paesi baschi, Phil Rees non nasconde i crimini commessi dal movimento indipendentista Eta anche se rimprovera al governo di Madrid (e in modo accessorio agli Stati uniti e all'Unione europea) di denunciare questo «terrorismo» senza però impegnarsi in un dialogo serio con quelli che rivendicano la storia, la cultura e l'identità basca. Ricorda che nell'Irlanda del nord, un conflitto vecchio di diversi decenni e che veniva presentato come un conflitto di natura religiosa, quindi irrisolvibile, ha potuto essere risolto grazie, è vero, a lunghi e faticosi negoziati con l'Esercito repubblicano irlandese (Ira). Va in modo completamente diverso per al Qaeda che, in perfetta armonia con il presidente Bush, giudica che lo scontro tra l'Occidente «giudeo-cristiano» e l'islam è di natura esistenziale. Nessuna trattativa, nessun compromesso, nessuna coesistenza pacifica come quella che si poteva stabilire per esempio con «l'impero del male» sovietico, è ipotizzabile nel caso specifico. La guerra santa, il «jihad», di Osama bin Laden è altrettanto intransigente della «crociata» condotta dal presidente Bush dall'attentato dell'11settembre. Come si fa d'altronde a scendere a patti con una nebulosa arroccata nelle montagne afgano-pachistane, senza strutture globali, senza radici nazionali, e che si accontenta di incitare i suoi partigiani alla violenza contro l'impero americano e i suoi accoliti locali? Come trattare con delle cellule militanti disseminate nel mondo che funzionano in modo autonomo come elettroni liberi con motivazioni diverse da un paese all'altro? Le risposte a queste domande e a molte altre sono date da un'opera consacrata ad al Qaeda, senza dubbio una delle più ricche apparse fino a oggi, The looming tower, di Lawrence Wright, che ha appena ottenuto il premio Pulitzer. Lawrence Wright, docente universitario, firma della rivista New Yorker, i cui lavori sono stati premiati a diverse riprese, si basa su informazioni di prima mano, documenti inediti redatti dai dirigenti di al Qaeda, interviste che ha realizzato con 483 attori o testimoni (di cui fornisce l'elenco), che comprendono persone vicino a bin Laden, terroristi pentiti, specialisti dell'islam, ex membri della Cia e dell'Fbi. La sua inchiesta l'ha portato, in cinque anni, in Arabia saudita, in Egitto, in Afghanistan, in Pakistan, in Sudan, nello Yemen ma anche in diversi paesi occidentali. Descrive nei dettagli le origini dell'organizzazione transnazionale, la sua ideologia, le lotte intestine, le illusioni e disillusioni. I ritratti che fornisce dei dirigenti, del loro ambiente sociale e familiare, rivelano i meccanismi psicologici dei loro comportamenti. La personalità di bin Laden, descritta da quelli che lo hanno conosciuto bene, stona: marginale in una famiglia di miliardari, di una modestia estrema, conduce una vita monacale in fondo alle caverne; premuroso verso le sue quattro mogli, due delle quali in possesso di dottorato, una in psicologia dell'età evolutiva, l'altra in linguistica. Padre irreprensibile di una quindicina di bambini; nazionalista saudita prima di diventare globalmente antiamericano, sembra avere capacità intellettuali limitate, da cui l'influenza che esercita su di lui l'egiziano Ayman al-Zawahiri, suo vice e testa pensante di al Qaeda. Il loro credo comune è quello del loro capo teorico, l'ideologo egiziano Sayed Qutb, impiccato sotto il regime di Nasser, secondo il quale «l'uomo bianco degli Stati uniti e d'Europa schiaccia i popoli colonizzati». Il mondo per Sayed Qutb si divide in due campi contrapposti, quello dell'islam e quello della jahiliyyah (periodo preislamico pagano e decadente), con riferimento ai regimi «apostati» sottomessi all'imperialismo. Non è affatto un caso che l'organizzazione transnazionale sia decollata a metà degli anni '90 mentre la maggior parte dei movimenti islamici (nazionali) rinunciavano alla violenza (dopo aver preso atto delle sue conseguenze negative) per integrarsi nella vita politica dei rispettivi paesi. Il baratro fra le sue correnti si manifesta apertamente al momento dell'attentato contro le torri di New York e il Pentagono. La quasi totalità dei movimenti islamici, legali o clandestini, tutte le autorità religiose musulmane, condannarono sia i crimini ciechi dei jihadisti che la loro ideologia, denunciata come contraria agli insegnamenti del Corano. Lo scisma, ampiamente occultato dai media, non impedì all'islamofobia di diffondersi nell'opinione occidentale; questa tende a confondere - complici il vocabolario usato dai media e gli antichi pregiudizi - islam, islamismo, fondamentalismo, jihadismo e terrorismo. La caricatura apparsa in un giornale danese che raffigurava il profeta Maometto con un cappello a forma di bomba è un'eloquente espressione di questo amalgama. I dibattiti legittimi che seguirono intorno al «diritto di criticare l'islam» (2) nascosero la discussione che avrebbe invece dovuto tenersi sulle molteplici cause del terrorismo; sulle frustrazioni e la rabbia suscitate dall'egemonia americana, dai regimi dittatoriali che proibiscono ogni libera espressione, dalla corruzione e dalle ingiustizie sociali, dalla crisi identitaria degli immigrati. Le élite «giudeo-cristiane» sanno bene che l'islam, come tutte le altre religioni, contiene elementi che possono essere strumentalizzati politicamente per giustificare sia il bene che il male.Gli strateghi americani avevano puntualmente predetto che nell'era post-sovietica l'islam avrebbe sostituito il comunismo come minaccia vitale. La dimensione geopolitica dell'avvenimento è analizzata da Adrian Guelke, docente del Centro per lo studio dei conflitti etnici, a Belfast, nel suo libro Terrorism and Global Disorder. Egli sostiene che l'amministrazione americana, seguita da numerosi politologi, abbia torto a considerare gli attentati contro le torri di New York e contro il Pentagono come una svolta nella storia contemporanea. Per lui, è il crollo dell'Unione sovietica che apre la via a una nuova forma di resistenza all'egemonia onnipotente degli Stati uniti, cioè il terrorismo trasnazionale. L'importanza politica degli avvenimenti dell'11 settembre è stata esagerata per giustificare le «guerre» del presidente Bush? Questi, lo ricordiamo, accusò al Qaeda di cercare di «stabilire un impero islamico dalla Spagna all'Indonesia». Gli attentati dell'11 settembre costituirono per i neoconservatori un «regalo divino», che ha consentito la messa in atto del loro programma imperiale: occupazione dell'Afghanistan e dell'Iraq, che doveva precedere quella dell'Iran; rafforzamento della presenza militare in Asia centrale e nel Golfo, messa sotto tutela delle risorse petrolifere, «democratizzazione» o sostituzione dei regimi restii ad accettare il «nuovo ordine internazionale».Il tutto in nome della «guerra contro il terrorismo», planetaria, totale e di durata illimitata, come ha confessato il presidente Bush. Prendendo infine coscienza delle implicazioni negative di questa definizione, il Foreign Office ha, in una circolare diffusa in aprile, raccomandato ai diplomatici britannici di non usarla più. Senza dubbio l'inaudita audacia dei pirati dell'aria, la spaventosa ampiezza del numero delle vittime, l'emozione suscitata attraverso il mondo, hanno contribuito a spingere - almeno all'inizio - la «comunità internazionale» sull'asse scivoloso su cui si erano avviati gli Stati uniti. Le conseguenze, come si sa, sono state catastrofiche. L'implosione dello stato iracheno, l'anarchia che fa il paio con il successo militare dei taliban in Afghanistan, lo scacco subito nei due paesi dall'esercito americano sono solo i risultati più spettacolari dell'avventurismo neoconservatore. Il bilancio reale è molto più pesante. L'amministrazione Bush approfitta della congiuntura per moltiplicare le leggi repressive che ricordano il clima dell'epoca maccartista. Essa avalla il comportamento degli stati polizieschi quando questi reprimono l'opposizione interna o le minoranze oppresse. Agli occhi di Washington, sono terroristi i movimenti che resistono all'egemonia americana, non lo sono quelli che accettano questa egemonia. Il terrorismo di stato è tollerato o meglio incoraggiato se è esercitato negli interessi degli Stati uniti. E questi sono altrettanti fattori che favoriscono i sostenitori della violenza. Gli emuli di al Qaeda (che contava meno di un centinaio di membri attivi dieci anni fa) si sono stabiliti a forza in Iraq, e si sono moltiplicati in numerosi paesi, soprattutto in Africa del nord e in Europa. Si potrebbe concludere, alla fine della lettura delle opere citate qui, che in un mondo unipolare il terrorismo rimane la sola arma di cui dispongono i deboli per non dare tregua ai potenti nei conflitti asimmetrici. Solo un trattamento politico del fenomeno potrebbe attenuarne la portata.

di Eric Rouleau - L.M.D. 08/2007




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