17/01/08

UN PO' DI POVERTA' CI FARA' BENE


La responsabilità non è né del governo Prodi né di quello precedente. Il nostro impoverimento dipende da quel meccanismo che si chiama globalizzazione che è, in estrema sintesi, una spietata competizione planetaria. Per rimanere all’altezza tutti gli Stati sono costretti ad investire sempre di più, chiedendo sacrifici sempre più pesanti alle popolazioni, sia in termini di aumento del lavoro che di riduzione dei salari (ottenuta o direttamente o con l’aumento delle tasse o con l’inflazione). Il bello (si fa per dire) è che nessuno esce realmente vincente da questa competizione. Se tutti corrono a una velocità sempre più folle, è come se tutti stessero fermi. E’ però anche vero che chi rallenta è perduto. Della situazione si avvantaggiano, apparentemente, alcuni Paesi che sono partiti più tardi nella corsa del libero mercato internazionale, perché hanno più margini. Ma a costi umani devastanti. In Cina, da quando è iniziato il boom, il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. Ha un senso, un senso umano dico, tutto questo? No, non ce l’ha. Tanto più che alla fine della folle corsa, iniziata due secoli e mezzo fa con la Rivoluzione Industriale, non ci può essere che la catastrofe, che sarà o energetica (basta vedere che cosa provoca un semplice sciopero dei Tir) o ecologica (il pianeta non ci sopporterà più) o finanziaria (c’è in giro una colossale quantità di denaro di cui il 99% non corrisponde a nulla se non a scommesse sempre più iperboliche sul futuro). In ogni caso penso che un po’ di povertà ci farà bene. Ci renderà, forse, più solidali e, soprattutto, ci costringerà a riflettere sul modello paranoico che stiamo vivendo e subendo.

M.F.

MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO



Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.


Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.


Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.


E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.


Eugenio Montale

GLI APPLAUSI AFFRETTATI DELLA CASTA


La notizia che fa più impressione - politicamente parlando - non è l’arresto di Sandra Mastella e di altre 23 persone. E neanche l’indagine a carico del ministro della Giustizia, di cui si è saputo solo nel pomeriggio. È invece la reazione che tutto questo ha suscitato nel mondo politico, a destra, al centro e a sinistra. L’applauso bipartisan che ha salutato il furioso e anche commosso discorso di Mastella contro la magistratura, gli interventi che si sono succeduti in aula, la preghiera che tutti - a cominciare da Prodi e a finire con Rifondazione, che ha corretto il tiro solo dopo l’intervento di Bertinotti dal Venezuela - hanno rivolto al ministro affinché restasse al suo posto, dimostrano una cosa sola: guai a chi tocca la casta della politica. La quale si difende senza neanche aspettare qualche ora per capire meglio che cosa stia succedendo, si ribella e spara a zero contro i giudici senza aver letto le carte (dalle quali si spera che arrivino ipotesi di reato più solide della concussione nei confronti di Bassolino). Senza informarsi. A prescindere. Fa quadrato, si schiera a difesa del suo esponente sotto accusa (peraltro ieri mattina era sotto accusa solo sua moglie), arriva fino al punto di respingere dimissioni indispensabili, anzi doverose, da parte del responsabile della Giustizia. Eppure chiunque con un minimo di buon senso sa che Mastella non poteva restare al suo posto mentre il suo partito, la sua famiglia e lui direttamente venivano colpiti dalla giustizia stessa, fosse stato ministro dei Beni culturali ancora ancora... Ma questo semplice buon senso politico non ha minimamente sfiorato i nostri uomini di governo e di maggioranza: un coro di dichiarazioni, un pellegrinaggio di solidarietà, una sequela di telefonate sono arrivate a Mastella. Non stiamo parlando di solidarietà umana, ché quella non si nega a nessuno: bensì di quella politica (e di governo). E se l’opposizione non sorprende, visto che al centrodestra le toghe non sono mai piaciute (mentre dall’altra parte sì), e visto pure che un’occasione del genere per acchiapparsi Mastella e chiudere così l’era Prodi non si presenta tutti giorni, la domanda va rivolta al premier. Perché ha respinto le dimissioni di un suo ministro che evidentemente non può più svolgere serenamente le sue funzioni, se non diventando ostaggio dei magistrati che lo indagano (e viceversa)? E perché tutto il centrosinistra, escluso Di Pietro, ha seguito il suo premier su una strada che rischia di trasformarsi in un vicolo cieco? La risposta non è solo quella più evidente, appunto la casta che difende se stessa. Qui entra in gioco un altro fattore, ossia la vita del governo. La paura, diciamo pure il terrore, che Mastella approfittasse della contingenza per chiudere la sua avventura con il centrosinistra, ha scatenato una reazione istintiva, primordiale: primum sopravvivere. E allora non importa la morale, l’etica, l’immagine peraltro già logora che si trasmette al Paese e alla propria opinione pubblica. Non importa nemmeno il rispetto della regola elementare che il centrosinistra sbandiera contro Berlusconi solo quando gli fa comodo: il conflitto di interessi. Che in questo caso, al di là di quelle che siano le sue colpe (se ci sono), Mastella incarna in un sol uomo. Importa solo restare dove si sta, ad ogni costo, nonostante tutto e tutti. Sempre meno credibili, sempre più deboli e sempre più esposti al rischio di crollare da un minuto all’altro. Sarebbe facile dire che se un comportamento del genere l’avesse tenuto il governo Berlusconi, l’opposizione di allora avrebbe occupato il Parlamento, sarebbe scesa in piazza, si sarebbe appellata al Presidente della Repubblica, avrebbe gridato al colpo di Stato. Ma si sa che l’abito fa il monaco, in politica purtroppo non conta la coerenza bensì il ruolo che in quel dato momento si ricopre e il potere che si gestisce. Anche se questo modo di fare può provocare - e probabilmente provocherà - una reazione di disgusto in gran parte degli elettori del centrosinistra. Che oggi hanno tutto il diritto di chiedersi dove si trovi sul serio l’antipolitica: nel Paese o nel Palazzo?


Riccardo Barenghi - La Stampa 17/01/08

15/01/08

MOVIMENTO ZERO


Un modello di sviluppo atroce, sfuggito dal controllo anche di chi pretendedi governarlo, ci sta schiacciando tutti, uomini e donne di ogni mondo. Proiettandoci a una velocità sempre crescente, che la maggioranza non riesce più a sostenere, verso un futuro orgiastico che arretra costantemente davanti a noi - perché è lo stesso modello che lo rende irraggiungibile -crea angoscia, depressione, nevrosi, senso di vuoto e inutilità. In Occidente questo modello paranoico è riuscito nell'impresa di far star maleanche chi sta bene (566 americani su mille fanno uso abituale dipsicofarmaci). Esportato ovunque, per la violenza dei nostri interessi e quella, ancor più feroce, delle nostre buone intenzioni, il modello occidentale ha disgregato popolazioni, distrutto culture, identità, specificità, diversità, territori, tutto cercando di omologare a sé. Il marxismo si è rivelato incapace di contenere e di sconfiggere il capitalismo. Perché non è che una variante inefficiente dell'Industrialismo. Capitalismo e marxismo sono due facce della stessa medaglia. Nati entrambi in Occidente, figli della Rivoluzione industriale, sono illuministi, modernisti, progressisti, positivisti, ottimisti, materialisti, economicisti, hanno il mito del lavoro e pensano entrambi che industria e tecnologia produrranno una tale cornucopia di beni da far felice l'intera Umanità. Si dividono solo sul modo di produrre e di distribuire tale ricchezza. Questa utopia bifronte ha fallito. L'Industrialismo, in qualsiasi forma, capitalista o marxista, ha prodotto più infelicità di quanta ne abbia eliminata. Per due secoli Capitalismo e Marxismo, apparentemente avversari, in realtà funzionali l'uno all'altro, si sono sostenuti a vicenda come le arcate di un ponte. Ma ora il crollo del marxismo prelude a quello del capitalismo, non fosse altro che per eccesso di slancio. Su questi temi fondanti però si tace o li si mistifica. Anche le critiche apparentemente più radicali si fermano di fronte alla convinzione indistruttibile che, comunque, quello industriale, moderno, è 'il migliore dei mondi possibile. Sia il capitalismo sia il marxismo, nelle loro varie declinazioni, non sono in grado di mettere in discussione la Modernità perché nella Modernità sono nati e si sono affermati. Danno per presupposto ciò che deve essere invece dimostrato. Stanchi di subire la violenza dell'attuale modello di sviluppo e il silenzio complice o la sordità di coloro, politici ed intellettuali, che dovrebbero farci da guida e invece ci stanno portando all'autodistruzione, in una società che non è più capace di recepire argomenti ma solo 'coup de thèatre' abbiamo quindi pensato, recuperando una antica tradizione, di ricorrere ad un MANIFESTO in 11 punti che traccia le linee ideali e culturali di un programma che intendiamo portare anche in campo politico, extraparlamentare e parlamentare. Vogliamo passare all'azione. Levate la testa, gente. Non lasciatevi portare al macello docili come buoi, belanti come pecore, ciechi come struzzi che hanno ficcato la testa nella sabbia. In fondo non si tratta che di riportare al centro di Noi stessi l'Uomo, relegando economia e tecnologia al ruolo marginale che loro compete. Chi condivide in tutto o in parte lo spirito del Manifesto lo firmi. Chi vuole collaborare anche all'azione politica, nei modi che preferisce e gli sono più congeniali, sarà l'arcibenvenuto. Abbiamo bisogno di forze fresche, vogliose, determinate, di uomini e donne stufi di vivere male nel "migliore dei mondi possibili" e di farsi prendere in giro. Forza ragazzi: si passa all’azione.


MASSIMO FINI

14/01/08

LA CATTIVA CONSUETUDINE


Cicerone definiva “bona consuetudo” la prudenza e il buon gusto nell’accogliere elementi stranieri nella lingua latina. Presso i romani i grecismi erano di norma fedelmente traslitterati, declinati alla greca nei casi retti e di preferenza alla latina negli obliqui; oppure se ne traeva un calco, specie dai nomi personali. Vigilius e Vincentius rendevano Gregórios e Nikásios, dapprima sgraditi ma poi accolti nella bassa romanità.
Questo eclettismo di buona consuetudine è del tutto estraneo al parlar quotidiano della gente comune. L’italiano allevato in batteria ha un’espressione sempre più povera e sciatta, con frequente ricorso ai vari big, job, shop, set, flash e ad altri insulsi monosillabi fastidiosi come mosche. A queste assunzioni per “libera scelta” vanno aggiunte le voci straniere imposte dall’alto, come ad esempio ticket, fixing, intercity.
A suo tempo furono accolti, con saggia parsimonia, singoli anglismi di bassa utenza quali sport, ring, club, film, preferibili ai riscontri nostrani agonistica, quadrato, consociazione, pellicola, meno denotati o meno accessibili agli indotti. E assai prima, per buon istinto selettivo, erano entrati nella lingua nostra spagnolismi come lindo, premura, creanza, maniglia, puntiglio, cadauno e molti altri ancora, pregnanti e gradevoli all’orecchio latino. Ben altro istinto ha lasciato supinamente penetrare certi nessi telegrafici anglosassoni quali black-out “oscuramento”, week-end “fine settimana”, green-back “verdone” ossia “banconota” per metonimia, part-time “a tempo ridotto”, full-time “a tempo pieno”, case-work “inchiesta attitudinale”. Per tacere di certi mostri tautologici tipo gazebo “chiosco” (da ingl. to gaze “scrutare” + lat. videbo).
Che le scelte lessicali siano ispirate dal “genio della lingua” o piuttosto dal “genio della società”,come si va disputando da anni, poco importa. Nel nostro caso, se di genio si tratta, è di certo un genio perverso.

da “Povera lingua nostra, dove vai?" di Silvano Valenti

13/01/08

LA POLITICA DELL'ECOLOGIA OLTRE IL RIFIUTO DEI NEGAZIONISTI


Gli ecosistemi hanno la forma che conosciamo perché 20mila anni fa la natura è passata da un paesaggio dominato dai ghiacci in gran parte dell'Europa e dell'America del nord al paesaggio attuale, dove i ghiacci sono concentrati ai poli e ad alta quota. Questa transizione, durata 5mila anni, coincide con un riscaldamento globale di circa 5 gradi, cosa che permette di stimare che il ritmo naturale del cambiamento di temperatura a lungo termine sia su scala mondiale di un grado per millennio. Il problema è che entro il 2050 si prevede un raddoppio della quantità di CO2 (anidride carbonica, principale gas a effetto serra). Ciò potrebbe provocare un aumento medio della temperatura almeno dieci volte più rapido dei ritmi medi globali di cambiamento dall'ultimo periodo glaciale. Per l'Agenzia internazionale dell'energia (Aie), se il consumo di combustibili fossili continua al ritmo attuale, le emissioni di CO2 legate esclusivamente all'energia raggiungeranno le 40 giga-tonnellate nel 2030, cioè il 55% in più rispetto al 2004. Abbastanza per riscaldare il pianeta di 2,4-6,4 gradi entro la fine del XXI secolo, secondo il margine di oscillazione più alto degli scenari previsti dall'ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sull'evoluzione del clima (Ipcc), l'organo di riferimento delle Nazioni unite, che annuncia un cambiamento di era climatica. Un aumento del genere provocherà profonde modifiche della geografia mondiale. La nuova distribuzione delle agricolture, l'esodo delle popolazioni costiere e insulari, la migrazione o la scomparsa di una parte delle specie animali e vegetali determineranno un cambiamento di civiltà. Al di là dei semplici dati, la crisi ambientale è anche una questione psicologica, un fattore cognitivo, in quanto le sue dimensioni superano la capacità di comprensione degli individui. Nonostante il gran numero di rapporti scientifici, dal primo vertice della Terra a Stoccolma nel 1972 fino alla recente Valutazione degli ecosistemi per il Millennio, questa crisi è oggetto di un rifiuto generalizzato, alimentato da controversie che cercano di relativizzare la portata del problema. Dallo scrittore «clima-scettico» Michael Crichton, autore di Stato di paura, un tecno-thriller antiecologista, a Claude Allègre, convinto sostenitore della tecnologia contro i mali del mondo, personaggi di ogni sorta hanno cercato di disorientare l'opinione pubblica, alimentando al tempo stesso delle controversie sull'esistenza del riscaldamento climatico. Negli Stati uniti i centri di studio (think tanks) finanziati dalle compagnie petrolifere vicine al presidente George W. Bush, prima fra tutti la Exxon-Mobil, cercano ancora oggi di minimizzare la portata del cambiamento e di screditare i lavori dell'Ipcc. Una rete di scienziati e di privati cittadini americani ha di recente condotto un'indagine presso 279 climatologi che lavorano per agenzie di ricerca federali negli Stati uniti: il 58% è stato censurato dai superiori o ha subito pressioni affinché espressioni come «cambiamento climatico» fossero eliminate dai rapporti. A questo proposito una polemica sulle condizioni della Terra è iniziata nel 2001 con la pubblicazione del libro del danese Bjorn Lomborg, “L'ambientalista scettico”. Con lo slogan «non bisogna preoccuparsi», l'autore sosteneva che in molti campi la situazione ambientale migliorasse anziché deteriorarsi, e che i meccanismi di mercato avrebbero saputo correggere i problemi transitori. L'apparente rigore scientifico di questo libro è stato denunciato da molti esperti. Ma questo non sembra aver scoraggiato il suo autore, che in “Cool It: The Skeptical Environmentalist's Guide to Global Warming” (La guida del riscaldamento climatico dell'ecologista scettico), replica con una negazione più mirata: quella della portata del riscaldamento climatico. In sintesi Lomborg esorta le società a non adottare serie misure per limitare le variazioni del clima. Secondo i suoi calcoli, per rispettare gli obiettivi di riduzione di emissioni di gas a effetto serra, le economie industriali dovranno spendere 180 miliardi di dollari. Di fronte a costi così elevati sarebbe meglio? secondo lui? continuare a distruggere la Terra per alimentare la crescita e produrre delle tecnologie che finiranno per salvare l'umanità! Questo atteggiamento scettico ha sempre meno sostenitori, anche a causa del rincaro del costo dell'energia. Del resto la stessa Aie, che non può certo essere sospettata di difendere le tesi della decrescita, si schiera contro questo tipo di ragionamento. Secondo il suo ultimo rapporto annuale, il World Energy Outlook del 2006, ci vorranno 14,5 miliardi di euro di investimenti cumulati per soddisfare la crescente voracità energetica del mondo fra il 2006 e il 2030. L'Aie stima «vantaggioso» prendere delle misure adottando degli scenari di ricambio come quelli proposti dal Protocollo di Kyoto e questo il più rapidamente possibile: «Il costo di queste politiche sarebbe più che compensato dai vantaggi economici che procurerebbero un consumo e una produzione energetica più efficienti». Questo approccio è confermato dal rapporto molto pubblicizzato dell'economista inglese Nicholas Stern, secondo cui il riscaldamento potrebbe costare all'economia mondiale 5.500 miliardi di euro. La distruzione della natura provoca la perdita degli inestimabili servizi vitali resi dagli ecosistemi, come la purificazione dell'aria e dell'acqua, la stabilizzazione del clima, la diversità delle molecole utili in campo medico contenute nelle piante. La considerazione del clima in economia ha di recente conferito alla crisi ecologica una nuova credibilità per i dirigenti dei paesi industrializzati. Senza però rimettere in discussione gli aspetti fondamentali della crescita. Ormai il numero di pubblicazioni e di rapporti scientifici convergenti, ripresi da portavoce emblematici come il conduttore televisivo Nicolas Hulot o l'ex vicepresidente americano Al Gore, è tale che la realtà della crisi ambientale non può essere più negata. Questa sovrabbondanza di segnali di allarme ha però anche un aspetto negativo: il rischio della loro banalizzazione. L'intera società sembra impegnata in un'operazione di greenwashing («lavaggio ecologico»), che permette di riciclare le coscienze anziché cambiare modello. I mondiali di rugby sono stati presentati dal ministro francese dell'ecologia Jean-Louis Borloo come il «primo grande spettacolo sportivo internazionale concepito come un modello in termini di evento ecosostenibile». Tuttavia questa manifestazione emette circa 570mila tonnellate di CO2 a causa del traffico aereo che comporta. Via via che la società prende consapevolezza del degrado delle condizioni di vita sulla Terra, le forme di rifiuto si fanno più complesse, come se si volesse rimandare la scadenza della riorganizzazione della collettività e la ridiscussione del produttivismo globalizzato. Come diminuire drasticamente i rifiuti mondiali, in particolare di CO2, e passare dalle parole a un'effettiva sobrietà energetica? Da quando gli specialisti del clima e delle questioni ambientali vanno in giro per il mondo a parlare ai vari vertici e conferenze internazionali, sono state proposte solo soluzioni globali. Ma tenuto conto dell'urgenza, sarebbe preferibile che alcuni paesi si facessero avanti e servissero da esempio piuttosto che attendere un cambiamento di politica ambientale di alcuni grandi come gli Stati uniti o l'Australia, paese fra i più grandi produttori mondiali di carbone e che non ha firmato gli accordi di Kyoto allo scopo di mantenere inalterata la sua ricchezza carbonifera.Hermann Scheer, deputato tedesco socialdemocratico e premio Nobel alternativo nel 1999, specialista delle energie rinnovabili, osserva: «La volontà di consenso [mondiale] a ogni costo è incompatibile con la necessità di ridurre al più presto i rischi, poiché il fatto di cercare il maggior numero di consensi ci mette in balia di chi vuole impedire, frenare e diluire gli obiettivi presi in considerazione». In altre parole, tutti aspettano tutti. Inoltre su un pianeta dalle risorse limitate, le grandi riunioni internazionali non affrontano mai la questione della crescita economica in quanto tale. Le misure in favore della sopravvivenza ecologica sono accettate solo se non ostacolano il principio di questa crescita nè la liberalizzazione del mercato. Le produzioni energetiche (compresa la raffinazione) sono all'origine del 49% delle emissioni mondiali di CO2 e sono fra quelle che hanno maggiori conseguenze sul clima. Alcuni paesi lo hanno capito bene e nei decenni scorsi non hanno esitato ad adottare strade energetiche alternative. La Danimarca, per esempio, ha sviluppato l'energia eolica terrestre fin dagli anni '80 e gli inglesi hanno avviato dei programmi di ricerca sulle energie rinnovabili marine alla fine degli anni '90. A sua volta la città di Barcellona ha imposto nel 2000 l'uso di celle solari termiche per le case nuove o in ristrutturazione; una misura che è stata ripresa dall'intera Catalogna e poi da tutta la Spagna. La Germania procede da diversi anni sulla stessa strada. Tuttavia alcuni sottolineano con una certa ironia che Berlino conduce una politica contraddittoria sviluppando da un lato i risparmi di energia e le energie rinnovabili, e continuando dall'altro a bruciare carbone, a importare elettricità dalla Francia e prolungando la durata di vita delle sue centrali nucleari. Ma questi critici dimenticano di ricordare che la Francia produce un ventesimo di energia verde rispetto al suo vicino e che quello che si sta svolgendo è una vera e propria battaglia fra due mondi energetici: da un lato un vecchio mondo centralizzato legato al carbone, al nucleare, al trasporto automobilistico individuale; dall'altro un nuovo mondo decentralizzato, legato ai risparmi energetici, alle fonti rinnovabili, ai trasporti in comune e alle questioni di sanità pubblica. Da decenni le lobby del vecchio mondo fanno di tutto per negare la necessità e la possibilità di un cambiamento rapido della situazione. Gli specialisti delle energie rinnovabili sanno che i freni non sono tecnici ma soprattutto amministrativi e politici. Particolare attenzione dovrà essere data alle elezioni regionali del 27 gennaio 2008, che si svolgeranno nel Land dell'Assia (sei milioni di abitanti per 21mila chilometri quadrati), dove la candidata del Partito socialdemocratico (Spd) Andrea Ypsilanti porta avanti un modello energetico alternativo, la cui applicazione concreta sarà affidata a Scheer. Se sarà eletta, la Ypsilanti conta di ottenere in cinque anni importanti risparmi energetici ed energie pulite, chiudere le due centrali nucleari del suo Land e dimostrare che la costruzione di centrali a carbone non è affatto necessaria.Le scelte da fare esigono che lo stato ritrovi il suo ruolo di arbitro sul lungo periodo per il bene comune, senza piegarsi agli interessi a breve termine delle lobby. L'americano Richard Heinberg ha pubblicato di recente un libro sulle questioni energetiche e ambientali. Il suo titolo, “The Party is Over”, è significativo perché è giusto affermare che «la festa è finita». Tuttavia la sfida del riscaldamento climatico, se capita bene, può rappresentare una grande possibilità per l'umanità. Rimettere in discussione gli spostamenti in automobile significa ottenere delle città meno frenetiche; abbandonare il nucleare e le energie fossili centralizzate significa sviluppare dei modelli energetici locali con il coinvolgimento della popolazione; diminuire gli spostamenti di merci nel mondo significa rilocalizzare l'economia e lottare contro la disoccupazione. Questa lotta contro il riscaldamento climatico rappresenta una possibilità per poter lavorare alla creazione di un mondo più bello.


di Philippe Bovet e Agnès Sinai

INCANTO NOTTURNO

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LE OCHE E I CHIERICHETTI

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TESERO 1929

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PASSATO

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ANCORA ROSA

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VIA STAVA ANNI '30

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TESERO DI BIANCO VESTITO

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LA BAMBOLA SABINA

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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

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