15/05/08

DOBBIAMO ROMPERE L'ASSEDIO DELLA BRUTTEZZA E DELLA STUPIDITA'


Due grandi pericoli minacciano l'armonia e la saggezza della nostra vita, e sono entrambi figli diretti della modernità: bruttezza e stupidità. L'uno attenta al nostro senso del bello, l'altro al nostro desiderio del vero; e dalla loro azione congiunta ne va anche del nostro senso di ciò che è buono, perché la distorsione estetica e quella gnoseologica sfociano inevitabilmente nella distorsione morale. Quando si innamorano delle cose brutte e si lasciano irretire da stupidi maestri, gli uomini finiscono per diventare anche cattivi, perché bellezza, verità e bontà sono il trinomio fondamentale che sempre procede unito. L'attentato al nostro senso estetico si manifesta, fondamentalmente, come scomparsa dei luoghi. Una tale affermazione, a prima vista, potrebbe suonare come paradossale: ma come, non vediamo forse ogni giorno che vengono aperte nuove banche, nuovi supermercati, nuovi centri commerciali, nuove agenzie di viaggi, nuove superstrade, rotatorie e circonvallazioni di scorrimento veloce? Certo: solo che questi non sono affatto luoghi: sono tristi non-luoghi della modernità. Nella piazza del nostro paese, fino a pochi anni fa, c'erano parecchi negozi, vetrine da guardare, movimento di persone, di famiglie con bambini che, il sabato e la domenica, passeggiavano, guardavano, chiacchieravano. Ora ci sono soltanto banche; nessuna vetrina da guardare; nessun passeggio di persone; e, il sabato e la domenica, la piazza si popola in gran parte di immigrati stranieri che sostano sulle panchine pubbliche, formano dei gruppetti presso i telefoni pubblici; è come se dicessero: se voi del luogo abbandonate questi spazi, se vi rinchiudete nelle vostre confortevoli villette con giardino, allora ce ne impadroniamo noi. E quel che è accaduto nella piazza del nostro paese, sta accadendo in mille e mille piazze d'Italia, in mille quartieri, in mille borgate. Banche, aeroporti, supermercati, centri commerciali, sopraelevate stradali e raccordi anulari extra-urbani non sono luoghi, ma spazi anonimi e intercambiabili: potrebbero appartenere a qualsiasi paese o continente, potrebbero essere a Tokyo come a Rio de Janeiro. Qualcuno potrebbe domandare cosa ci sia di terribile in questo fatto, specialmente considerando che il mondo sembra andare nella direzione di una globalizzazione che mette sempre più in relazione milioni d'individui e favorisce la loro conoscenza reciproca. Il fatto è che nessuna conoscenza reciproca reale viene favorita dal non-luogo: in esso è possibile non un incontro, che è un qualcosa che avviene sempre sulla base della propria identità specifica, ma uno sfiorarsi frettoloso e indifferente, un toccarsi, quasi, senza nulla sapere e senza nulla comprendere dell'altro. Come avviene, appunto, in un grattacielo ove vivono migliaia di persone che s'incrociano ogni giorno in ascensore, ma che non sanno nulla le une delle altre; al punto che, se un anziano muore nel suo appartamento, può accadere (ed è accaduto, e accade) che passino addirittura dei mesi prima che qualche coinquilino se ne accorga: magari per quel certo odore, assai poco gradevole, che filtra dalla porta chiusa. Solo allora ci si chiede dove sia finita quella tale persona: si chiama il fabbro e si apre quella porta che mai nessuno, prima, aveva varcato suonando il campanello. Formuliamo pertanto una specie di legge sociologica: solo in un luogo, ossia in uno spazio che possiede un'anima, è possibile la vera socializzazione, quindi solo in un luogo è possibile la ricchezza dell'incontro fra l'io e il tu, fra il mio progetto di vita e il tuo, fra la mia ricerca di senso e la tua. E pazienza se, accanto ai luoghi, crescessero in misura esponenziale solo i non-luoghi; no: essi sono affiancati da un numero crescente di anti-luoghi. Una discoteca, ad esempio, è un anti-luogo: la sua funzione è quella di far sì che gli individui, abbrutendosi dal punto di vista fisico ed emozionale e azzerando scientemente la propria dimensione razionale e affettiva (le due facoltà centrali dell'anima), regrediscano nelle zone più buie e fangose del sub-conscio, e il tutto con l'illusione dell'incontro, della compagnia, del divertimento; mentre regna incontrastata, di fatto la più solipsistica solitudine. "Gli antropologi danno una definizione molto precisa di luogo: si tratta di «uno spazio simbolizzato in cui le identità personale e collettiva prendono forma esprimendosi in attività tipiche di una certa cultura» scrive l'antropologo Marc Augé nel suo volume Non-lieux (1990): Il luogo non ha soltanto una dimensione fisica, esso attribuisce ruoli, identità e senso storico." Il contrario di luogo è il non-luogo, privo di questa significatività. Un non-luogo è uno spazio fisico ma non «un luogo storico carico di significati»; esso è anche uno spazio in cui gli individui perdono temporaneamente la loro identità e ne acquistano una provvisoria: a seconda del contesto si può essere viaggiatore, cliente ma non il signor Tal dei Tali. Nel non-luogo - che può essere una stazione, un aeroporto, un supermercato e qualche volta anche una scuola - si è di passaggio, ci si sente omologati e spersonalizzati. Ci si sente più numero che persona. I luoghi invece li sentiamo nostri, ci soggiorniamo, ci danno identità." (Anna Oliverio Ferraris, - Albertina Oliverio, Il mondo delle scienze sociali, Bologna, Zanichelli, 2000, p. 221). Il non-luogo, pertanto, è l'esteriorizzazione di una situazione di radicale inautenticità in cui si è ridotto a vivere l'uomo moderno: e così come il suo spazio fisico si è degradato a non-luogo, la lingua che egli parla è diventata una non-lingua (ad es., l'italiano della pubblicità televisiva); i giocattoli con cui giocano i nostri bambini sono diventati non-giocattoli (oggetti tecnologici o, comunque, standardizzati che annullano la funzione creativa di chi li adopera), le nostre parole sono diventate non-parole (si parla di tutto ma, in realtà, di nulla: e la televisione dà il cattivo esempio), i nostri pensieri sono diventati non-pensieri (si ripetono formulette e si crede di aver fatto un ragionamento: e qui il cattivo esempio vien proprio dalla scuola), i nostri sentimenti sono diventati non-sentimenti (ci si "sente" innamorati o si "sente" di detestare qualcuno, ma in realtà si è sfiorati da emozioni epidermiche e passeggere, tutto come in quel non-luogo per eccellenza che è la "casa" del Grande Fratello). Infine, horribile dictu ma inesorabile conseguenza di quanto abbiamo fin qui sostenuto, le persone regrediscono allo stato di fantocci: oh, fantocci gradevoli, abbronzati e palestrati, sempre giovani, senza rughe e con tanti capelli in testa (indovina di chi stiamo parlando); ma irrimediabilmente fantocci, senza possibilità di redenzione, perché inconsapevoli di essere fantocci, e anzi convintissimi di essere il non-plus-ultra dell'autenticità. Il pericolo è proprio questo: che tutto il nostro senso del giudizio venga sovvertito; che noi, ad esempio, finiamo per trovare bella la bruttezza del non luogo; interessante la chiacchiera della non-parola; profonda la banalità del non-pensiero. Forse qualcuno ricorderà quella pubblicità televisiva in cui si vedeva un ometto che, spaventato dall'aggressività del mondo "esterno", si rifugiava in un rassicurante supermercato, da cui decideva di non uscire mai più (una versione moderna del Barone rampante?), si sposava, metteva al mondo dei figli, li cresceva e li aiutava a fare i compiti, il tutto sempre entro le pareti rassicuranti del supermercato. Demenziale metafora di quel ritorno all'utero materno che, nel clima impazzito della modernità consumista, svolge la funzione di surrogato di quel senso di sicurezza, di accoglienza e di benessere da cui siamo stati espropriati proprio dalla pianificazione politica del non-luogo ormai dilagante. Allo stesso modo, quei genitori che scoraggiano l'uso del dialetto da parte dei propri figli e si rallegrano di vederli parlare solo e unicamente in buon italiano, per ragioni di prestigio sociale, non si rendono conto di essere portatori di un disvalore che si traduce nella partecipazione a un vero e proprio genocidio culturale. È stato calcolato che, dei 7.000 idiomi attualmente parlati nel mondo, metà sono ormai in via di estinzione (dati di National Geographic): il che significa che ogni due settimane una lingua scompare dalla faccia della terra. Una lingua, cioè una cosa viva e vera: la più viva e la più vera che l'essere umano sia in grado di esprimere. E ciò avviene col sorriso sulle labbra, in quanto siamo portati a interpretare l'uniformità linguistica - come ogni altro genere di uniformità - come una specie di benedizione del Cielo, un passo avanti sulla via del "progresso" e della "modernità". Certo, forse qualche lacrimuccia di coccodrillo siamo anche disposti a versarla per questa ecatombe; ma, si sa, sono i costi della modernità: come era fatale che scomparissero maniscalchi e calderai, arrotini ed ombrellai. Che volete farci, è il prezzo del progresso: chi si ferma è perduto, bisogna sempre andare avanti. Non importa verso dove; riflettere sui fini esorbita dagli orizzonti concettuali (invero microcefali) di questo sedicente sviluppo; alla ragione strumentale basta aver chiaro il rapporto tra mezzi e fini, basta sapere che la linea più breve che unisce due punti è una retta. E qui arriviamo al secondo aspetto che intendiamo discutere: il dilagare, nella società odierna, di una incontenibile, straripante ondata di stupidità. Non si tratta di una impressione puramente epidermica, né di uno sfogo generico, ma di una dimensione antropologica i cui meccanismi sono stati lucidamente analizzati, più di mezzo secolo fa, da un filosofo del peso di José Ortega y Gasset nel suo ormai classico La rebelión de las masas. A suo parere, già nell'ultimo decennio del XIX secolo si era affermata, in Occidente, l'egemonia culturale di una nuova classe di intellettuali, gli "scienziati mediocri": esperti di un campo sempre più limitato del sapere, ma che, dall'alto (o dal basso) della loro suprema ignoranza di tutto il resto - per non parlare della loro assoluta incapacità di riflettere sulle basi teoriche della loro stessa disciplina - s'impancano a giudici infallibili di ogni ramo dello scibile umano e trinciano giudizi perentori a destra e a manca, con la stessa arrogante sicumera che deriva loro dalla forma mentis dello specialista, ci si perdoni il bisticcio linguistico, super-specializzato. E sottolineava, giustamente, che questa figura di scienziato "mediocre" era una assoluta novità nella storia; o, meglio, che era un'assoluta novità il peso sociale e culturale che una tale figura, sempre esistita e anche utile nel suo ristretto ambito di competenza, aveva strappato e usurpato nella società moderna."Un tipo di scienziato senza esempio nella storia: un uomo che, di tutto ciò che occorre sapere per essere una persona intelligente, conosce soltanto una scienza determinata, e anche di questa conosce bene solo la piccola parte di cui è investigatore attivo. Egli arriva a proclamare virtù questa sua carenza d'informazione per quanto rimane fuori dall'angusto paesaggio che coltiva specificamente. "Ortega y Gasset aveva individuato nell'ipertrofia e nella sopravvalutazione dello specialismo la radice di questa barbarie e parlava, appunto, di "barbarie dello specialismo". Un biologo molecolare che s'impanchi a predicatore di verità nel campo della mitologia e della religione, della storia e della paleontologia, della teologia e della filosofia, è un barbaro che agisce da barbaro e che imbarbarisce la cultura: specialmente se trova un pubblico che lo stia ad ascoltare e, magari, dei microfoni televisivi che amplifichino oltre misura le madornali sciocchezze che snocciola senz'ombra di rossore, anzi applaudito e riverito. Maurizio Blondet, in un recente intervento dal titolo significativo Il cretinismo scientifico, ha illustrato con mordace acutezza quanto il male sia, oggi, diffuso; e, anche se - personalmente - non condividiamo l'asprezza dei toni da lui usati in chiave di polemica personale, non possiamo non dargli pienamente ragione per quanto riguarda la descrizione di un fenomeno socio-culturale che si va allargando a macchia d'olio e che bisogna essere assai miopi o in cattiva fede per non vedere, anzi per non sentirsene gravemente angustiati e doverosamente preoccupati. Che la modernità del terzo millennio sia destinata al trionfo del cretinismo scientifico? Vi sono segnali inquietanti che le cose stiano procedendo proprio in questa direzione, per cui urge correre ai ripari finché siamo in tempo, e reagire a una situazione che rischia di sfuggirci completamente di mano. Il mondo non può e non deve essere governato dai mediocri, dagli stupidi, dai cretini; la figura del tecnico è necessaria, ma deve stare nell'ambito che le compete, ossia di esecutore di una progettualità che non è certo lui a stabilire, ma la parte pensante della società. Ora, pensare significa interrogarsi sui fini e non valutare le strategie per ottimizzare il risultato; mentre è quest'ultima cosa che sta accadendo oggi: si scambia l'ottimizzazione del rapporto mezzi-fini per la l'esercizio della razionalità tout-court. Guai a noi, se non sapremo elaborare una progettualità complessiva che ci consenta di rimettere scienza e tecnica al servizio dell'uomo; se non torneremo alla saggezza di Platone e Aristotele, che vedevano nel Logos strumentale una delle dimensioni del pensiero umano, ma non certo l'unica né la più alta; se non ci ricorderemo che l'affettività, nel senso più ampio del termine, è alla radice della nostra aspirazione a un rapporto armonioso con noi stessi e con l'altro. Guai a noi se venderemo per un piatto di lenticchie (cioè per un apparente benessere puramente materiale) la felice intuizione che solo valorizzando tutte le più nobili facoltà umane avremo un reale progresso e che, pertanto, dobbiamo consentire ad esse di esprimersi liberamente, a cominciare dalla creatività. E cominciamo, se possibile, col lasciare che i nostri bambini giochino in maniera semplice e immediata, senza falsi giocattoli che "fanno tutto da sé"; ricordandoci, piuttosto, di raccontar loro una bella fiaba, prima del bacio della buonanotte! Guai a noi se, come effetto della bruttezza e della stupidità del non-luogo, della non-lingua, della non-parola, dei non-pensieri e perfino dei non-sentimenti (vero e proprio Paese di Alice allo specchio), cominceremo a innamorarci di una forma di vita totalmente inautentica, totalmente adulterata: come i cibi estrogenati e colorati che quotidianamente ingurgitiamo, come la chiacchiera insulsa e logorroica con la quale ci stordiamo ogni giorno, forse per non udire il grido di disperazione che sale dal fondo della nostra anima.

Francesco Lamendola

13/05/08

TRA CORPI PERFETTI E DENARO DIMENTICATA LA "CURA DELL'ANIMA"


Non si sente più parlare di anima. Questo termine, così diffuso e pregnante in altre epoche della storia occidentale non è sulla bocca, almeno nei loro discorsi in pubblico, del papa, dei cardinali, dei vescovi e neppure dei preti. Ora, io non credo all'anima, ma il papa, i cardinali, i vescovi, i preti ci dovrebbero credere visto che tutta la cosmogonia cristiana si basa sulla fede nella sua esistenza e che la funzione, diciamo così, istituzionale della Chiesa e dei suoi sacerdoti è proprio "la cura delle anime". Ma non ne parlano mai. Non ne parlano più. Non si parla nemmeno, sul côtè laico, di spirito, l'antico "pneuma" del pensiero greco, ma questo non è più comprensibile dato l'uso sciagurato che ne hanno fatto Hegel, in Italia Gentile (e per la verità anche Croce), per cui ha finito per assumere un significato vagamente fascista. Si parla, in compenso, molto del corpo e del suo benessere. Di "beauty farm", di palestre, di materassi , di plantari e anche di prodotti che aiutano la donna, e immagino anche l'uomo, a riacquistare la sua "normale regolarità" (che l'anima, per una bizzarra combinazione alchemica, abbia cambiato la sua sostanza?). Si parla moltissimo di cibo e di cibi il cui destino peraltro è inevitabile e non particolarmente glorioso. Si parla molto di chirurgia estetica che deve fare apparire il nostro corpo sempre giovane, bello e levigato e d'una medicina che deve rendere la nostra vita sempre più longeva e, prima o poi, immortale. Ma si parla soprattutto di denaro, del Dio Quattrino che è l'unico nume unanimemente adorato, riconosciuto e condiviso, in Occidente, e quindi di economia, di finanza, di derivati, di banche, di carte di credito, di bancomat, di Cin, di Pin, di Iban. In questo nuovo Regno l'uomo ha ancora una parte, ma come sottoprodotto. Non è più propriamente un uomo, ma un "consumatore". È un tramite. È il tubo digerente, il lavandino, il water attraverso cui deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto rapidamente produce. "Bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione". È il "terminale uomo" del meccanismo. È un target. Un obiettivo. Non è più soggetto, ma un oggetto. Si inventano strategie di marketing sempre più sofisticate, nascono scuole per "personalizzare" i venditori, ma se c'è qualcuno che tituba a ridurre la propria esistenza a quella di rapido defecatore e di Pinocchio nel Paese dei Balocchi si ricorre a metodi più spicci e si reclutano e si schiavizzano schiere di giovani Lucignoli perché l’uomo-consumatore faccia, per benino e senza protestare, il suo dovere. Come l'uomo sono ridotti i Paesi e le Nazioni. Un Paese è considerato solo se è un appetibile mercato o è tanto più ganzo quanto più è capace di acquisire nuove "quote di mercato". Un tempo esisteva l'idea di Nazione, di una comunità con valori condivisi . Adesso la Nazione è stata sostituita dalla Produzione. In occidente si torna a parlare, è vero, e molto di Dio. Ma, mi pare, del tutto a sproposito. Se ne fa un uso parecchio utilitaristico. Il Presidente degli Stati Uniti conclude ogni suo di scorso con la frase "Dio protegga l'America". E perché non l'Afghanistan? O l'Iraq? L'Iran? O ancor meglio, gli indigeni delle isole Andemane che non hanno mai rotto le scatole a nessuno? Oppure si impetrano da lui e o dalle sue Maestranze favori particolari. Ma perché mai Dio dovrebbe concederli a questi piuttosto che a quelli? È curioso che l'epoca del massimo e trionfante scientismo sia anche quella della massima superstizione (Fatima, Lourdes, la Madonna di Czestokowa, quella di Medjugorje, San Gennaro, Padre Pio, eccetera). Ma poi se non esiste più l'anima che senso mai può avere conservare Dio? L'immateriale è scomparso dal mondo contemporaneo. È stato sostituito dal virtuale che solo apparentemente gli si apparenta. Perché è una parodia masturbatoria del reale. E non ha nulla a che vedere con l'Immateriale. Con lo Spirito. Con l'Anima.

Massimo Fini

12/05/08

LE API STANNO MORENDO IN TUTTO IL MONDO. PERCHE'?


All’inizio sembrava una di quelle notizie “millenariste”, “catastrofiste”, una di quelle cose insomma che vanno di moda da Kyoto in poi e che in fondo lasciano il tempo che trovano… la fine del Mondo che si avvicina, i sensi di colpa di una società troppo opulenta ed ineluttabilmente in declino… Poi oltre la boutade, oltre il ragionevole scrupolo da “uomo-qualunque” e l’innegabile fascino da scoop giornalistico sono cominciate ad arrivare le prime conferme scientifiche, la cruda analisi dei dati, i bollettini specializzati e i bilanci delle associazioni di categoria, gli allarmi di enti locali e nazionali. Allora adesso possiamo dirlo, si può dire, anzi adesso è meglio che lo si dica e si cominci anche a rifletterci seriamente: le api stanno morendo. Muoiono in tutto il mondo. Con percentuali diverse, probabilmente per cause e concause diverse tra loro, ma stanno proprio morendo. E’ un dato di fatto, è una orrenda certezza statistica. E, purtroppo, non è nemmeno più una novità: succede da anni, costantemente, senza margini d’errore. Siccome in certi casi spaventarsi è non solo giusto ma anche doveroso, cominciamo da una frase di Einstein ( o almeno attribuita ad Einstein ma si sa che citare una frase di Einstein fa sempre più effetto, quindi stabiliamo che sia davvero sua) : “Se le api dovessero scomparire, al genere umano resterebbero cinque anni di vita”. Il ragionamento che sottende all'affermazione è sicuramente valido, sia o meno di Einstein, almeno in via di principio: niente più api, niente più impollinazione, niente più frutta e vegetali (non tutti, ma gran parte), con conseguente spirale a discendere il cui limite sta solo nella fantasia di ciascuno di noi. Cosa vuol dire “le api stanno morendo”? Vuol dire che in Italia, secondo le stime riferite al 2007 dell’Agenzia per la protezione dell'ambiente e i servizi tecnici (Apat), il numero degli insetti si è dimezzato. In un anno! Una cifra enorme con rischi gravi per i delicati equilibri dell'ecosistema e per il ciclo naturale, con danni economici stimati in 250 milioni di euro. Il disastro interessa tutta l'Europa, con una perdita tra il 30% e il 50% del patrimonio di api; ed è ancora più grave negli Stati Uniti, con punte anche del 60-70% in alcune aree per il fenomeno da spopolamento definito Ccd (Colony collapse disorder). L’allarme negli USA è scattato almeno nel 2003; da allora la strage continua. E si allarga. Perché? Con certezza non lo sa nessuno, perlomeno nessuno è in grado di individuare un’unica causa. Semmai molteplici concause. L’inquinamento (di aria, acqua e suolo), i cambiamenti climatici repentini e prolungati, che avrebbero influito negativamente sulla disponibilità e sulla qualità dei pascoli e dell’acqua. Per quanto riguarda l’inquinamento, le maggiori responsabilità sono attribuibili all’inquinamento da fitofarmaci e da pesticidi come i neonicotinoidi a base di imidacloprid. Come il Gaucho della Bayer, a detta dell’entomologo Giorgio Celli. La Bayer ha introdotto sul mercato un nuovo prodotto, quando ancora si stanno studiando i suoi effetti sulle api. Per colpa dei telefonini, secondo uno studio condotto dal dottor Jochen Kuhn dell’Università di Landau. Kuhn imputa alla crescita esponenziale dell’inquinamento elettromagnetico il fatto che le api, stordite e sviate dal segnale dei telefonini, perdano il senso dell’orientamento. Ma peggio ancora il caos elettromagnetico favorirebbe alcune malattie come virosi e varroa (malattia causata da un acaro che attacca sia la covata sia l’ape adulta, e la cui diffusione è favorita proprio da queste forme di inquinamento). Per quanto riguarda i cambiamenti climatici, le maggiori responsabilità sono attribuibili all’andamento sempre più irregolare del clima (periodi siccitosi prolungati, periodi con temperature molto elevate seguiti da repentini ritorni di freddo, temporali intensi) che comporta un’interruzione al flusso normale dei nutrienti necessari alle api per la loro crescita e per il loro sviluppo, indebolendo di conseguenza le difese dell’alveare. Il problema è che così come l’italiana APAT nessuno oggi al mondo è in grado di identificare una sola causa. Ma tutti sono d’accordo sugli effetti, del resto ben visibili: crollo verticale delle popolazioni di api in tutto il mondo. A rischio. Sono le colture di mele, pere, mandorle, agrumi, pesche, kiwi, castagne, ciliegie, albicocche, susine, meloni, pomodori, zucchine, soia, girasole e colza (come denunciato dalla Coldiretti), ovvero tutte quelle piante la cui produzione dipende completamente o in parte dalle api (grazie alla loro impollinazione). Ma a rischio sono anche gli allevamenti, visto la sempre minore impollinazione da parte delle api delle colture foraggiere a seme (come l’erba medica ed il trifoglio) fondamentali per i prati destinati a pascolo. Il forte calo dei prodotti agricoli e da allevamento comporta effetti negativi inevitabili come un aumento sensibile del suo prezzo di mercato e un aumento delle importazione dall’estero, con tutto quello che ne concerne… Insomma, di sicuro c’è solo che l’uomo si sta dando la zappa sui piedi, se già non se li è amputati.


Daniele De Luca - Peacereporter

11/05/08

IPOCRISIA E REDDITI IN RETE


Fino a oggi nessuno ha mai protestato per il fatto che le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti fossero di pubblico dominio presso gli uffici comunali. Né ha mai suscitato scandalo che alcuni giornali pubblicassero stralci più o meno ampi degli imponibili fiscali di personaggi di qualche notorietà. Ora, viceversa, apriti cielo perché l'Agenzia delle entrate ha messo su Internet l'intero elenco dei dati Irpef. Una moltitudine inferocita ha alzato la bandiera della difesa della privacy dell'uomo qualunque, mentre un'associazione di consumatori si è procacciata facile popolarità proponendo addirittura una causa per danni con richiesta miliardaria di risarcimento. In tali reazioni c'è qualcosa che non convince anche per un certo sentore di ipocrisia. Tutto bene, infatti, fino a quando l'accesso ai dati era di fatto limitato dalla necessità di doversi recare di persona presso gli uffici competenti. Tutto male, invece, ora perché la pubblica conoscenza delle dichiarazioni è stata enormemente facilitata dalla loro messa in Rete. Come dire, insomma che oggi lo scandalo consisterebbe nel fatto che tutti sono stati messi in grado di vedere tutto. Sarà, naturalmente, la magistratura a stabilire, in base alla legislazione vigente, la liceità o illiceità di questa scelta dell'Agenzia delle entrate. Ma certo quello dei giudici non sarà un lavoro semplice perché esso implica una valutazione sul rapido e travolgente progresso tecnologico di quei mezzi di comunicazione di massa, come Internet, che sono diventati anche un potente strumento di trasparenza democratica. In sintesi, tutto ruota attorno a una sola questione: è giusto e opportuno che le dichiarazioni dei redditi di ciascun contribuente siano agevolmente consultabili da chiunque oppure no? Per rispondere all'interrogativo è bene ricordare che il pagamento delle imposte è il principale atto con il quale prende sostanza il diritto di cittadinanza nello Stato moderno. Come insegna la storia della democrazia parlamentare, nata e cresciuta proprio in forza della rivolta dei sudditi contro il potere assoluto del Principe a stabilire i termini del prelievo fiscale. Infatti, è con l'affermazione del principio 'no taxation, without representation' che sono sorti i primi parlamenti, dove gli eletti dal popolo hanno progressivamente assunto in proprio il compito di stabilire le tasse, così realizzando il pieno passaggio dei contribuenti dal ruolo servile a quello di cittadini dotati di diritti e doveri: verso lo Stato, ma anche degli uni verso gli altri com'è logico che avvenga in una comunità civilmente istituzionalizzata. Per quale motivo, dunque, non si dovrebbe consentire la più ampia conoscenza dello status fiscale di ciascuno? Per non suscitare fenomeni di gelosia sociale, come dicono alcuni? Per non indurre in tentazione la criminalità, come altri paventano? Questi sono alibi patetici utili soltanto per coloro che hanno buone ragioni per vergognarsi del tanto ovvero del poco che dichiarano al Fisco. Alibi che rivelano anche quanto cammino vi sia ancora da fare nel nostro Paese prima che la coscienza di cittadino diventi l'abito naturale degli italiani.

Massimo Riva

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
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MINU

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