14/02/08

INEVITABILE L'INCENERITORE?


L’emergenza-rifiuti di Napoli, in queste settimane, ha consentito a politici e, cosa ancor più grave, a giornalisti di tutte le taglie e di tutti i colori di improvvisarsi esperti della gestione dei rifiuti, senza avere le conoscenze minime necessarie anche solo a dichiararsi informati sulla materia, e di scatenarsi conseguentemente in una sequela di analisi più o meno imprecise quando non addirittura strampalate, annegando il pubblico in un mare di disinformazione maleodorante (in tutti i sensi).
Dalla nuvola di nebbia alzata dagli operatori dell’informazione, l’unico elemento che è riuscito a svettare senza farsene avvolgere è stato il camino dell’inceneritore. Anzi, termovalorizzatore, come in questi giorni lo hanno sempre definito, con instancabile sistematicità, coloro che si sono prodigati a presentarlo come il deus ex machina, o, potremmo dire, la machina ex deo: la macchina della Provvidenza, quella che salverà tutti noi dalla montagna di rifiuti sotto la quale saremmo altrimenti condannati a soffocare.
In estrema sintesi: i rifiuti o li si porta in discarica o li si brucia. E siccome le discariche si esauriscono, e bruciarli produce energia oltre che farli sparire (quasi una magia!), allora è chiaro che debba essere quella dell’incenerimento la strada da percorrere per forza di cose, superando finalmente le ottuse resistenze dei radicali dell’ambientalismo e dell’allarmismo sanitario.
Peccato che le cose non siano così semplici come sembrano ascoltando questa semplicistica ricetta confezionata in quattro e quattr’otto dai fan del camino.
Anche qui da noi in Trentino, dove è prevista da tempo la costruzione di un inceneritore, l’emergenza-rifiuti di Napoli ha dato nuovo fiato alle trombe della "termovalorizzazione". Per fare un minimo di chiarezza in merito, abbiamo deciso di intervistare insieme Paolo Mayr di Italia Nostra e Nicola Salvati, consigliere comunale di Trento Democratica, i quali, in materia, la pensano sì diversamente, ma hanno in comune le competenze e la preparazione necessarie per discutere della questione senza cadere vittime del semplicismo.
Partiamo da una domanda molto semplice: perché, e ci rivolgiamo a Mayr, sarebbe necessario dire no all’incenerimento dei rifiuti? E perché, e ci rivolgiamo a Salvati, sarebbe invece necessario dire sì?
"E’ dimostrato da esperienze già realizzate – ci risponde Mayr – che la raccolta differenziata, ove praticata con convinzione e con efficacia gestionale, può arrivare a percentuali molto elevate, attorno al 75% almeno. Se anche in Trentino, grazie a una politica di differenziata spinta, si raggiungesse una tale percentuale – e ci sono tutti i presupposti per ritenere che ci si possa arrivare andando anche oltre – si produrrebbe assai meno delle 100.000 tonnellate l’anno necessarie a far funzionare l’inceneritore di Ischia Podetti, che, quindi, con meno rifiuti da bruciare, diventerebbe antieconomico.
Io boccio l’incenerimento soprattutto perché il suo bilancio energetico, e quindi ambientale, è negativo. Si dice sempre che l’inceneritore è un’ottima soluzione al problema dei rifiuti perché, per giunta, permette di produrre energia, mentre la discarica no. Ma quando si fa questo ragionamento si bara: il confronto non va fatto con la discarica, ma con il riciclo dei materiali. Incenerire una tonnellata di rifiuti urbani porta al recupero di circa 1,2 milioni di kilocalorie, riciclarla 4,2: ovvero, quasi quattro volte di più".
"Quello che dice Mayr sul vantaggio energetico del riciclo è verissimo –
interviene Salvati
– ma non possiamo dimenticare che, anche dopo una buona raccolta differenziata, resterà sempre una percentuale non bassa di rifiuto secco residuo, attorno al 25-30%. Infatti, se è vero che è piuttosto facile arrivare attorno al 70%, anche 75% di differenziata, è altrettanto vero che poi diventa molto difficile andare oltre tale percentuale, per ragioni sia economiche che gestionali. Di quel 25-30% di materiale indifferenziato che rimane bisogna fare qualcosa, e non si può certo continuare a utilizzare il metodo arcaico della discarica".
Mayr, cosa risponde a questa osservazione? Vuole davvero che si continui a usare la discarica per gestire il residuo secco indifferenziato?
"Ovviamente no. La soluzione che indico è già praticata con successo in diverse parti del mondo: Australia, Germania e anche Italia, in Veneto, a Fusina (VE) e a Vedelago (TV). Rappresenta un’alternativa vera sia alla discarica che all’incenerimento, e mi riferisco al cosiddetto trattamento meccanico-biologico del residuo secco indifferenziato".
Di cosa si tratta?
"Il trattamento meccanico-biologico (TMB) non è altro che una ulteriore differenziazione, che avviene dopo quella fatta dai cittadini. Una differenziazione che, avendo luogo con più cura e con mezzi più adeguati, risulta migliore di quella che possiamo attuare a casa nostra tutti noi, che, per quanto sensibili, rimaniamo inevitabilmente vittime di distrazioni oppure delle frequenti difficoltà di separazione dei materiali.
Dentro l’impianto di TMB avviene innanzitutto la separazione meccanica dei materiali recuperabili: vetro, acciaio, alluminio, carta. Dalla separazione meccanica si ottiene anche una frazione organica, che subisce una successiva fase di trattamento biologico e viene così trasformata in materiale inerte, pressoché privo di potenzialità inquinanti. Il risultato finale del TMB è il recupero, sotto forma di materiale riciclabile, di circa il 70-75% del rifiuto residuo secco che era entrato nell’impianto. Il restante 25-30%, che corrisponde soltanto al 10% di tutti i rifiuti prodotti dalla comunità, viene sì destinato alla discarica, ma si tratta di una frazione del tutto inerte, dalla tossicità estremamente ridotta rispetto al residuo portato in discarica oggi. E comunque non dimentichiamo che anche dopo l’incenerimento rimane da smaltire una frazione di rifiuto di quantità circa pari a quella che rimane dopo il TMB, ovvero le ceneri. E dove finiscono le ceneri? In discarica, con la non lieve differenza che in tal caso, a differenza dell’inerte rimasto dopo il TMB, si tratta di materiale altamente tossico. L’incenerimento esce quindi malissimo dal confronto col TMB, rivelando le sue caratteristiche di soluzione obsoleta, peggiore sia dal punto di vista sanitario, con emissioni inquinanti nettamente più alte del TMB, che ambientale, con un recupero energetico nettamente più basso del TMB".
Salvati, cosa risponde? L’alternativa indicata da Mayr sembra molto seria.
"E infatti lo è, e va tenuta in massima considerazione. Ma, anche ove si prevedesse di arrivare a praticare una raccolta differenziata spinta che si avvalga pure del TMB, non credo che si potrebbe comunque fare a meno, se non altro nei prossimi 5-10 anni, di una gestione dei rifiuti che preveda, dopo la raccolta differenziata fatta dai cittadini, di bruciare la frazione secca residua".
Si spieghi meglio. Mayr ha precisato che il TMB è alternativo al camino…
"Lo è, ma solo nel momento in cui si abbia a che fare con una raccolta differenziata attestata attorno al 70-75% minimo. Se scendiamo al di sotto di questa percentuale, il TMB diventa difficile da praticare. E io credo che ci vorranno appunto 5-10 anni prima che in Trentino si arrivi ad una capacità di differenziazione simile. Prima di allora, il residuo secco andrà per forza di cose bruciato, perché in discarica non ci sarà più posto. In altre parole, vedo la combustione del residuo secco come un tampone precauzionale che possa farci transitare, nel giro di una decina d’anni al massimo, a una gestione dei rifiuti che possa fare a meno di esso, basandosi solo sul riciclo dei materiali attraverso il TMB".
"Ed è qui l’errore –
interviene Mayr
. – La transizione con progressivo miglioramento della differenziata di cui parla Salvati non ci potrebbe mai essere. L’inceneritore da 100.000 tonnellate l’anno, infatti, è una macchina basata su di una tecnologia estremamente rigida. Non può bruciare meno di quanto è stato previsto, e per questo fermerebbe la raccolta differenziata trentina al 65%. Mai nessuno degli inceneritoristi, quando addita come esempio di impianto eccellente l’inceneritore di Brescia, ricorda che la raccolta differenziata bresciana è ancorata al 35%, e da lì non si muove. Ma ci sono esempi ancora più istruttivi, come quello di Karlshrue, in Germania. Prima vi hanno costruito un inceneritore enorme, poi i cittadini hanno cominciato ad attuare una raccolta differenziata sempre migliore, e alla fine l’inceneritore è rimasto senza la necessaria quantità di rifiuti da bruciare. Così, oggi, gli abitanti si ritrovano costretti a desiderare i rifiuti della Napoli di turno e a pagare in ogni caso tariffe più salate di quelle che pagavano prima di avere l’inceneritore: in altre parole, si ritrovano a pagare di tasca loro un impianto che doveva generare guadagno economico. Con un inceneritore, infatti, i casi sono due: o si fa come a Brescia, e si rinuncia a migliorare la differenziata, o si fa come a Karlshrue, e ci si rimette economicamente".
Salvati, ancora una volta le osservazioni di Mayr ci sembrano sensate...
"E ancora una volta devo dire che lo sono. E infatti, in Trentino, non si costruirà nessun inceneritore da 100.000 tonnellate".
Prego?
"Proprio così. Grazie anche al mio personale impegno, ritengo che la decisione politica si orienterà verso una soluzione diversa, sempre basata sull’incenerimento, ma effettuato in modo completamente diverso da quello pensato sinora".
Ovvero?
"La proposta attualmente sul tavolo è quella della gassificazione dei rifiuti, ovvero la loro trasformazione in gas, da usare poi come combustibile. Si tratta di una tecnologia già sperimentata con successo in Nord Europa. La caratteristica vincente della gassificazione è il fatto che essa avviene grazie a una combustione a bassa temperatura. Negli impianti di gassificazione, i rifiuti bruciano infatti a 400°C contro i 1.300°C degli inceneritori propriamente detti. La bassa temperatura limita di molto gli impatti ambientali della combustione, garantendo la totale assenza di diossine. Le temute polveri sottili si riducono di oltre 100 volte, mentre inquinanti come i composti dello zolfo, gli ossidi di azoto, il monossido di carbonio diminuiscono fino alla metà, e così pure i metalli pesanti. Come residuo della gassificazione, in discarica finirebbe, nei casi di maggior efficienza, una quantità di inerti pari al 10% dei rifiuti fatti entrare nell’impianto, contro il 30% che rimarrebbe con l’incenerimento.
D’accordo, la gassificazione avrà anche un impatto sanitario e ambientale inferiore a quello dell’incenerimento, ma ciò che più interessa, alla luce del discorso fatto da Mayr, è la compatibilità di una simile tecnologia con il miglioramento della raccolta differenziata. L’inceneritore, s’è detto, non garantirebbe tale compatibilità, la gassificazione sì?
"Gli impianti di cui parlo possono funzionare tranquillamente anche bruciando solo 30.000 tonnellate l’anno, o anche meno. Non c’è dunque il rischio che l’impianto di gassificazione si ponga in contrasto con la riduzione del volume dei rifiuti e con la massimizzazione della raccolta differenziata. Tanto è vero che la proposta in discussione è quella di costruire, al posto dell’inceneritore da 100.000 tonnellate, tre impianti di gassificazione da 30.000 tonnellate l’uno. Questo permetterebbe, trascorsi i 5-10 anni necessari a ripagare i 65 milioni di euro investiti per costruirli, di chiuderli progressivamente uno dopo l’altro, man mano che la raccolta differenziata migliorerà, fino a che sarà possibile farne completamente a meno".
E
che garanzie ci sono che non ci si siederà a contemplare il funzionamento di queste macchine, frenando l’impegno nella differenziazione e quindi nel riciclo?
"Le garanzie verranno messe nero su bianco al momento di decidere la costruzione dei tre impianti. Infatti verrà precisato che essi non dovranno porsi per nulla in contrasto non solo con la raccolta differenziata e il TMB, ma nemmeno con la riduzione dei rifiuti, elemento che, nella loro gestione, è ancora più importante del riciclo. La proposta non potrà prescindere dalla garanzia che riduzione e riciclo continueranno ad essere perseguiti, affinché migliorino e raggiungano la massima efficacia nel più breve tempo possibile. Ma, nonostante tutto l’impegno che ci si potrà mettere, il raggiungimento della massima efficacia di riduzione e riciclo, e quindi la possibilità di prescindere dalla necessità di smaltire il residuo secco negli impianti di gassificazione, non si otterrà immediatamente, ma serviranno degli anni. Gli impianti di gassificazione ci garantiranno una transizione tranquilla, che faccia a meno delle ormai sature discariche".
Mayr, adesso è il ragionamento di Salvati ad apparire dotato di logica. Non si parlerebbe più, dunque, dell’inceneritore da 100.000 tonnellate, ma di tre impianti di gassificazione da 30.000 tonnellate l’uno, caratterizzati da una gestione più flessibile: lei cosa risponde a questa proposta?
"Resto scettico. A mio avviso, se ci si impegnasse davvero sulla strada di riduzione e riciclo, si potrebbe fare a meno anche della gassificazione, che, per quanto meno rigida dell’incenerimento, richiederebbe comunque, come ammesso da Salvati, un periodo di 5-10 anni di funzionamento per evitare che l’investimento risulti diseconomico. Ma per raggiungere il 75% di raccolta differenziata non serve così tanto tempo: è possibile farlo nel giro di un paio di anni al massimo, come dimostrano le esperienze di successo conseguite anche nella nostra provincia. Certo, per ottenere il risultato del 75% a livello provinciale bisognerebbe investire molto di più in materia di sensibilizzazione, informazione ed educazione del cittadino, non solo alla differenziazione, ma anche al consumo critico finalizzato alla riduzione dei rifiuti. A questo bisognerebbe abbinare il miglioramento gestionale della raccolta differenziata, che dovrebbe poter contare su un sistema unico, anziché sui tanti, troppi, oggi in vigore.
Certo, tutto questo richiederebbe dei soldi. Molti più soldi di quelli investiti oggi dall’amministrazione provinciale. Ma senz’altro meno di quelli necessari a costruire l’inceneritore o gli impianti di gassificazione, con in più il pregio che si tratta di soldi che tornerebbero indietro molto più velocemente di quelli investiti in tali macchine, senza peraltro far correre rischi né per la salute pubblica né per l’ambiente".
Insomma, ancora una volta, la partita sembra giocarsi tra elemento culturale e tecnologico. Nella proposta di Salvati, è il tecnologico a prevalere, in quella di Mayr, viceversa, è quello culturale. Nessuna delle due proposte, tuttavia, fa totalmente a meno dell’ altro elemento. Quella di Salvati punta anche sull’elemento culturale, assegnando importanza (reale, non fittizia) sia alla riduzione che alla differenziazione, mentre quella di Mayr punta realisticamente anche sull’elemento tecnologico, contenuto nel TMB. Chiaramente, si tratta degli aspetti secondari delle loro proposte. Tuttavia, entrambe hanno il pregio di non fare affidamento esclusivo su uno dei due elementi. E questo ci pare il loro punto di forza: nessuna delle due affronta il problema in modo semplicistico o viziato da preclusioni ideologiche, come ultimamente è stato fatto da più parti. Così, dopo questa intervista, la frase inserita in apertura di questo articolo appare in tutta evidenza per quello che è: una baggianata. O una battuta.


Intervista di Marco Niro QT 2/08

12/02/08

IL DESERTO EMOTIVO


Conoscevamo la follia come eccesso della passione. Ne vedevamo i sintomi, ne prevedevamo i possibili scenari. Oggi sempre più di frequente, nell’universo giovanile, la follia veste gli abiti della freddezza e della razionalità, non lascia trasparire alcunché ed esplode in contesti insospettabili che nulla lasciano presagire e neppure lontanamente sospettare.
Così è stato per le tre ragazze per bene che in quel di Sondrio qualche anno fa hanno ammazzato una suora; così è stato a Sesto San Giovanni dove un ragazzo, anche lui per bene, è finito in carcere per una coltellata inferta alla sua amica nel cortile della scuola; e così è stato in quel di Padova, dove un figlio ha ammazzato suo padre, professore d’università, e poi ne ha bruciato nel cortile il cadavere.
Non sono passati molti anni da quando a Novi Ligure una ragazza, che le cronache hanno descritto bella e intelligente, cresciuta in una famiglia serena, educata in un istituto privato retto da religiosi, ha inflitto, con il fidanzatino suo coetaneo, quaranta coltellate alla madre, cinquantasei al fratello e, senza troppo scomporsi, ha retto per diversi giorni gli interrogatori a cui è stata sottoposta, senza cedimenti emotivi.
Tutti questi casi hanno in comune quell’evento terribile che è l’imprevedibilità. E di fronte all’imprevedibile, di fronte a ciò che non si lascia in alcun modo anticipare, si scatena in tutti noi l’angoscia primordiale, quella che provavano i primi uomini di fronte a un mondo che non riuscivano a decifrare.
Quando la causa è irreperibile, quando il furore che di solito accompagna i gesti della follia è assente, allora bisogna scavare più a fondo e scoprire chi sono e come sono fatti coloro che compiono gesti così orrendi senza dare a vedere alcuna risonanza emotiva.
La psichiatria conosce questa sindrome, e la rubrica sotto il nome di “psicopatia” o “sociopatia”. Lo psicopatico è colui che è capace di compiere gesti anche terribili senza che il suo sentimento registri il minimo sussulto emotivo. Il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero con il gesto. Ma non si accorge nessuno di questa condizione giovanile peraltro molto diffusa?
Tendenzialmente no. Una buona educazione – soprattutto quella borghese che insegna a tenere a bada gli eccessi emotivi – confeziona per ciascuno di questi ragazzi un abito di buone maniere, di stereotipi linguistici, di controllo dei sentimenti che, come corazza, rende questi giovani impenetrabili e scarsamente leggibili a chi sta loro intorno. Alla base c’è una mancata crescita emotiva, che ha reso il sentimento atrofico, inespressivo, non reattivo, per cui gli eventi della vita passano loro accanto senza una vera partecipazione, senza un’adeguata risposta di sentimento a quanto intorno accade.
Buon terreno di cultura sono di solito le famiglie per bene, dove i problemi, quando si affrontano, si affrontano sempre in modo razionale, dove non si alza mai la voce, dove non si piange e non si ride, e dove soprattutto non si comunica, perché quando i figli hanno dato le loro informazioni sull’andamento scolastico e sull’ora del rientro quando si fa notte il sabato sera, sono lasciati nel rispetto della loro autonomia, dietro cui si nasconde il terrore dei genitori (anche questo mascherato) ad aprire quell’enigma che i figli sono diventati per loro.
E i figli, come animali, sentono quando c’è la paura dei genitori, e, quando non c’è, sentono il loro sostanziale disinteresse emotivo. Soli da piccoli, affidati alla televisione o alle prestazioni mercenarie dell’esercito delle baby-sitter, questi figli del benessere e della razionalità, crescono con un cuore dapprima tumultuoso che invoca attenzione emotiva, poi, quando questa attenzione non arriva, giocano d’anticipo la delusione e il cinismo per difendersi da una risposta d’amore che sospettano non arriverà mai.
A questo punto il cuore, un tempo tumultuoso e invocante, si fa piatto, non reattivo, pronto a declinare ora nella depressione ora nella noia. E quando la tempesta emotiva si abbatte sul cuore, ormai arido perché mai irrigato, si comprime tutto con le difese impenetrabili approntate dalla buona educazione, dalle buone maniere, dal buon allenamento nella palestra gelida della razionalità.
Tutto bene dunque? All’apparenza si, tutto bene. A scuola non vanno male, col prossimo si sanno comportare, vestono anche bene, e con le maschere, che con estrema facilità indossano e sostituiscono, l’allenamento è collaudato.
La sessualità, quando c’è, è tecnica corporea, perché questi ragazzi sono “emancipati”, in discoteca ballano in modo parossistico, insieme a tutti gli altri, la propria solitudine. Un po’ di ecstasy dà quella leggera scossa emotiva di cui si è assetati, ma non lo si dice, lo si fa per moda, per essere come gli altri, con cui si fa “gruppo”, anche gruppo ben educato, nel tentativo di ottenere dagli amici quel residuo di conforto affettivo di cui il loro cuore, come un organo autonomo, saltuariamente ha sete.
Finché alla fine tutto esplode. La compressione della razionalità mai diluita nell’emozione, la difesa delle buone maniere, che ormai, persino a propria insaputa, fanno tutt’uno con l’insincerità, la noia, che come un macigno comprime la vita emotiva, impedendole di entrare in sintonia con il mondo, formano quella miscela che sotterra l’io di questi adolescenti infelici, facendoli agire in terza persona con gesti che la storia dell’uomo fa fatica a reperire come suoi.
Sono gesti che mettono in crisi la giustizia e, con la giustizia, la società che, per tranquillizzarsi, è sempre alla ricerca di un movente. E il movente in effetti non c’è, o se c’è è insufficiente, comunque sproporzionato alla tragedia, perché ignoto agli stessi autori. Cercarlo ci porta lontano, tanto lontano quanto può esserlo l’avvio della loro vita, lungo la quale è stato loro insegnato tutto, ma non come mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del monto incidono nel loro cuore.
Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri. E questo perché il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero con il comportamento, perché è fallita la comunicazione emotiva, e quindi la formazione del cuore come organo che, prima di ragionare, ci fa sentire che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo.

Tratto da “L’ospite inquietante” di U.Galimberti

LO SPRECO CHE NON DIRESTI


Il computer costa. Anche se non lo usi. I pc continuano a consumare energia anche da spenti. Su scala nazionale uno spreco di quasi 60 milioni di euro/anno. Bisogna staccare la spina. Tranquilli, non è una drammatica questione di vita o di morte, ma un semplice consiglio pratico. La spina è quella del computer. In Italia, tra case e uffici, ci sono - si calcola - più di 25 milioni di pc. E consumano energia elettrica. Il che di per sé non sarebbe una grande notizia, tanto più che un pc in funzione assorbe molta meno corrente di altri elettrodomestici. La scoperta però è un'altra: queste macchine non si spengono mai del tutto. Ovvero continuano a consumare energia anche quando vengono disattivate. E non stiamo parlando dello stand-by - cioè di quello stato di sospensione in cui il cuore del sistema resta in funzione per consentire un riavvio rapido - ma dello spegnimento vero e proprio. Lo ha scoperto la rivista specializzata Af Digitale sottoponendo a un test 13 desktop, i computer da tavolo (che in Italia sono circa 13 milioni): anche quando viene premuto il tasto off la scheda madre, il motore del pc, mantiene collegati alcuni circuiti. Questo succede soprattutto sui pc più recenti che rimangono sempre "all'erta" per cogliere input esterni, come il comando di avvio in remoto o segnali provenienti da eventuali periferiche. Rimanendo collegato alla rete elettrica il pc continua a consumare. E non poco a giudicare dai risultati del test. Una quantità di energia sprecata. Per 1 minuto di stand-by si può arrivare a consumare 9,42 watt. Ma lo stand-by, come sappiamo, è uno stato di dormiveglia del computer. Più sorprendenti sono il 4,62 watt che la macchina ha assorbito dopo 1 minuto dallo spegnimento. Sulla base di queste misurazioni si è giunti a calcolare i consumi di un pc tenuto spento per 1 anno: il modello più "risparmioso", tra quelli testati, consuma solo 25 centesimi di elettricità, mentre quello che ne consuma di più arriva quasi a 6,5 euro. Cifre che di per sé possono sembrare irrilevanti. Ma su scala allargata le cose cambiano: si pensi, tanto per cominciare, a un azienda che deve moltiplicare questi costi per qualche centinaio di macchine. Il dato diventa ben più impressionante se rapportato su scala nazionale. E qui la questione non è solo economica. Se il consumo medio di un pc spento si aggira sui 2-3 watt, significa che i 13 milioni di dektop italiani consumano 30-40 megawatt. In altre parole, una centrale elettrica di medie dimensioni lavora per tenere delle macchine spente! Tradotto in moneta sonante, vuol dire uno spreco di 56 milioni di euro/anno. Che si può evitare collegando il pc a una ciabatta di alimentazione dotata di un interruttore e spegnerlo ogni volta che si chiude il pc.


Tratto da Virgilio Consigli per risparmiare elettricità in casa

11/02/08

DOPING DELLE API... NO GRAZIE!


Diversi furono i motivi nell’Italia nella seconda metà dell’Ottocento, in tempi di grandi ristrettezze e fame, che avvicinarono parte del clero rurale alle api. Da un lato una formazione culturale di base che distingueva e permetteva al più umile sacerdote di cogliere, e anche di divulgare, le grandi innovazioni in corso; dall’altro lato la ricerca di fonti di sostentamento. Nel pieno del conflitto con il giovane Stato italiano e la sua pretesa di gestire il potere temporale, anche i gradi più bassi del clero conobbero una qualche difficoltà materiale di sopravvivenza. Ciò che facilitò e non poco la relazione preti e api, oltre alla consolidata tradizione monastica, fu anche una peculiarità inerente all’aspetto e al necessario distintivo decoro. Il buon sentore delle api non comporta l’afrore persistente di stalla. Per il buon curato di campagna il “profumo d’api” ben si addiceva all’altare e pure lo distingueva come pastore dal suo umano, odoroso, gregge. Raramente ci si ricorda e si parla della fragranza delle api che costante accompagna l’apicoltore, ma credo sia invece una delle radici e motivazioni della passione e piacere per questo lavoro. L’olfatto, infatti, è un senso molto più importante di quanto in genere sia ritenuto in quest’epoca fatta di sovra stimolazioni visive e uditive. Spiacevole cambiamento è che, da un po’ di tempo a questa parte invece, amici e conoscenti apistici si dividono in due categorie: quelli che sono sempre circonfusi di aromi essenziali o di acido e quelli che si portano addosso o nell’automezzo il puzzo di micidiali coktail di molecole chimiche. Ovviamente tra queste due categorie estreme si collocano poi infinite varianti e sfumature anche olfattive. Nella mia aziendina rientriamo a pieno titolo nella categoria degli olezzanti di acidi e aromi e purtroppo senza sapere se in effetti, come vorremmo, sia questa la strada che garantisce futuro alle nostre api. Certo i nostri alveari non sono messi bene e lamentiamo perdite rilevanti. Ma ciò che è altrettanto certo è che a fronte delle difficoltà l’ultima cosa da fare è smettere di provare, condividere e proporre. Tale attitudine è ben testimoniata da questo numero di L’Apis. E in particolare dal Dossier allegato che esprime il diritto di discutere, e proporre di modificare, le norme veterinarie sciocche e controproducenti. L’arma vincente alla fine non sta, infatti, solo in questa o quella “medicina” ma nella capacità di condividere e costruire, insieme, vie di sopravvivenza. Ma anche le avversità, ed è risaputo, si danno di mano tra loro per cercare di trasformarsi in mazzate mortali. Non bastavano: il calo di prezzi dello scorso anno, i pesticidi neurotossici in stagione, la siccità imperante e le carenze polliniche, la varroa da luglio in avanti. Ora ci troviamo pure a fronteggiare il tentativo di rendere “legali” elevati residui di antibiotici nel miele. L’U.e. sta, infatti, cambiando la normativa sui trattamenti sanitari degli allevamenti. Si vuole definire la soglia di ricerca analitica di presenza infinitesimale di sostanze negli alimenti derivati da animali cui non sono somministrabili molecole consentite invece per altre specie. Da anni sosteniamo che, con le attuali capacità analitiche, il concetto di “zero assoluto” è irrealistico e impraticabile e che bisogna determinare livelli certi per effettuare sia il controllo che l’autocontrollo. Nell’ambito di tale obiettivo, per avere ad esempio analogo livello di ricerca di anabolizzanti nelle carni, si apre una finestra di delega ai “tecnici”. E in quel varco “tecnico”è andata a infilarsi la spudorata proposta della Germania, guarda caso, per ottenere di fatto “l’autorizzazione” nei mieli di elevati quantitativi dei vari antibiotici, e poter di conseguenza importare liberamente da tutto il mondo senza vincoli e commercializzare quindi senza“allarmi comunitari” di sorta. Questo proprio mentre la gran maggioranza di apicoltori italiani, volenti o nolenti, sta verificando che sono ben altre le gravi difficoltà sanitarie e che con la peste americana c’è modo molto più efficiente ed efficace di combattere che non il doping dell’eterna somministrazione di polverine. L’augurio è che prevalga alla fine il senso del limite, e soprattutto il buon senso. Speriamo che anche su tale terreno si sappia costruire, insieme. Abbiamo vinto battaglie anche più ardue e in effetti c’è poi, forse, una piccola buona novella alle porte. Si osserva una certa inversione di tendenza nei prezzi di scambio internazionale del miele. Che si sia entrati in un’altra onda? Che ci sia un’inversione di tendenza anche per le avversità?


Francesco Panella direttore di “LAPIS”

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

MINU
Foto di Sabina

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