22/10/09

BUONSENSO QUASI MAI, MERDA QUASI SEMPRE!


Il lavoro nella stalla è duro. Non ci sono ferie, non c’è sabato e, manco che manco, domenica. E poi quel forte odore di ammoniaca, a cui fai l’abitudine, che ti impregna i vestiti, già sudati di loro, e fa tutt’uno con il resto dei tuoi umori. È come quello dell’aglio, dopo un po’ non lo senti. Ma lo sentono gli altri. Un recente studio americano ha scoperto che il contatto protratto nel tempo con l’ammoniaca dà al cervello. (Šaràlo vera? Sti americani i še ne ‘mpenša ogni dì ‘na növa.) È per questo che chi lavora tra le vacche non riesce a ragionare. Ventiquattrore ore su ventiquattro con l’ammoniaca nei polmoni e le bestie nella testa, da fieterar, da molser, da secodìr. Un lavoro ingrato perché di quei mansueti quadrupedi non riesci a fartene amico alcuno che alla fine possa ringraziarti. Vivono troppo poco. Le bestie sono merce, non anima-li con una loro anima, una loro affettività, un loro sentire. Quando vengono caricate sul camion, a fine carriera, per quel primo e ultimo viaggio, destinazione mattatoio, per diventare merce di consumo, sono troppo giovani per aver potuto affezionarsi a chi le accudiva. Sì, quello dello stalliere è un lavoro duro, ingrato e soprattutto “a vita”: fine pena mai! Giorno dopo giorno ti abbrutisce, ti fa perdere il senso del resto. Se ti va bene resti in pace con te stesso. Altrimenti covi un rancore contro chi fa altro. Dicono che all’origine di quella scelta di lavoro ci sia una grande passione! Bah…, può darsi, magari in rari casi. Forse, perlopiù invece, è solo un giogo dal quale non si è avuta la forza di liberarsi prontamente. E così il tempo passa. Le giornate si ripetono uguali, i mesi, le stagioni, gli anni. E la forma mentale dello stalliere si sclera. Nell’aia, nei cortili dell’azienda zootecnica, non si parla in lingua alta. Gli argomenti non lo richiedono. Si sbragia, facendo largo uso di addolcimenti vocali: le ü e le ö si sprecano. Nel ripetersi delle scarne espressione idiomatiche in uso, c’è un intercalare continuo di una semplice breve locuzione: dio porco! (o, a seconda del contesto, la variante inversa porco dio!) Che non è un improperio o peggio una bestemmia, non più. È un fronzolo, un abbellimento, anzi, meglio, è la colonna sonora della giornata dello stalliere. Ripetuta in ogni occasione. Con innumerevoli variazioni tonali e di efficacia a seconda dell’argomento in cui viene infilata. Stupore, rabbia, incredulità, sgomento, stanchezza, tutto viene sottolineato e infiorato con un dio porco!
Ma non c’è solo la stalla. I bovini mangiano. Hanno bisogno di foraggio. E dunque lo stalliere si trasforma, nella stagione estiva, in procacciatore di vegetali per il sostentamento degli erbivori. Una volta i piccoli allevatori (sostanzialmente ogni capo famiglia), quelli con due, tre, cinque vacche nella stalla, controllavano il grado di maturazione dell’erba, prima della falciatura. Sapevano che la sua buona qualità era fondamentale per garantire agli animali un adeguato alimento per l’inverno. I prati, tutti, erano dei campi in fiore: l’azzurro delle salvia e il rosa carico della lupinella s’alternavano al giallo oro della ginestrina, a quello meno intenso della vulneraria e al bianco/rosa tenue dell’achillea, al rosso/viola della centaurea. L’erba profumava. E quando ci si avvicinava alla sfioritura, solo allora iniziavano le operazioni della segagione. Perché il fiorime che poi decantava sotto l’assa dal fen era apprezzato dai bovini. Con esso si preparavano succulente mestüre, che – immagino – rallegrassero le vacche durante la lunga stagione invernale nella semioscurità delle stalle di una volta…
Da tempo però le cose sono cambiate. Oggi lo sfalcio è un pretesto. Diciamo, più o meno, una furberia ai danni delle finanze pubbliche. Per introitare contributi. Per poter edificare in zone altrimenti precluse e magari farsi la villa o in alternativa l’ agritur… I prati non profumano più di fiori colorati. Servono soltanto per disfarsi dei liquami della stalla. Della pissigna. All’inizio della primavera le bótti cariche di escrementi liquidi fanno la spola tra le vasche di raccolta e i prati dove vengono svuotate. Idem dopo ogni sfalcio allorquando il tempo minaccia pioggia. L’ammoniaca, concentrata nella pissigna in quantità spaventose, brucia le sementi dei fiori, i prati si trasformano in orribili selve di velenose ceviti (conium maculatum). Le quali, appena mature, rinsecchiscono velocemente colorando le praterie di un triste uniforme giallo-marroncino. Il fiorime non c’è più. Le cornute si accontentino delle farine e dei mangimi! E’ la modernità, bellezza. Gli allevatori di montagna, sui quali per opportunità politica i nostri amministratori spesso fanno facile apologia, costretti a barcamenarsi col mercato del latte (e del primario in generale) globalizzato e dai margini economici ristrettissimi, operano sostanzialmente come quelli di pianura, ma con la non trascurabile differenza che lì la resa quantitativa è enormemente maggiore. E infatti, da noi, senza i copiosissimi contributi che l’ente pubblico provinciale eroga a queste attività, dal punto di vista economico l’intrapresa sarebbe assolutamente deficitaria. Facendo un semplice conto della serva si può osservare sbalorditi che a fronte di un capitale animale di poche decine di migliaia di euro, queste nostre imprese zootecniche dispongono di macchine, macchinari e attrezzatura per centinaia di migliaia di euro. Insomma, pur riconoscendo che questo lavoro in ogni caso è duro, durissimo, a prescindere e che qualcuno lo farà di certo con passione, considerando la scarsa resa economica e il fatto che da un po’ di anni si riscontri un proliferare un po’ ovunque di “stalloni” con annessi villa e barbecue, qualche dubbio sulle vere finalità di questa attività è legittimo… Comunque, dubbi o non dubbi, passione o non passione, una cosa è certa: la forma mentale degli appartenenti alla categoria dei bacani è omogenea.
Quel giorno, quando arrivai nel campo, Martino e i suoi fratelli stavano cercando di sechentàr proprio quella sottospecie di foraggio brunastro in località Roncosogno. Erano stati giorni di piogge e le ceviti, ancorché ŝà šecche ‘n pè erano fradice d’acqua. Anche se l’instabilità del tempo avrebbe dovuto sconsigliare qualsiasi proposito de begàr co i atrezi, la stagione inoltrata li aveva indotti all’azzardo. Falciatrici, trattori, ranghinatori, rastrelli e uomini erano sparsi qua e là nell’ampia piana che si estende a est dell’abitato della piccola frazione teserana, verso Panchià, sulla sinistra orografica dell’Avisio. Proprio lì, dove da alcuni anni, coltivo un piccolo campo di circa mezzo staio, a patate e fagioli. Memore del disastro che la peronospora aveva provocato l’anno precedente, avevo intenzione di fare un trattamento preventivo col verderame per un possibile attacco della terribile fungina (ma anch’io azzardavo: se avesse piovuto di lì a poco il trattamento sarebbe stato del tutto vano). Dopo, se mi fosse avanzato del tempo, avrei voluto sfodegàr te i patatari per vedere come che le mossava. Dunque, entrando dalla stretta strada di accesso interpoderale, avevo percorso una quarantina di metri sul prato sfalciato e già sgombro d’erba col mio “ape” per poter portare il necessario, una pompa irroratrice, una tanica d’acqua e un po’ di attrezzi, in prossimità del šedime del medesimo campo.
Scaricato il tutto avevo iniziato il lavoro. Improvvisamente, passati pochi minuti, il caratteristico rumore di azionamento della pompa a mano venne soverchiato da uno stentoreo Dio pooorco!. Riconobbi la voce (non feci fatica) e mi girai quasi interdetto. Vidi la faccia tra il beffardo e l’ostile di Martino che, evidentemente, covava da chissà quanto la voglia di cantarmele, e rimasi ad ascoltarlo senza parlare. Ma no ŝon miga d’accordo cossita! Te l’aveva ben dito l’an passà che no te pös vegnir into con l’ “ape”! Porco dio! Te pös vegnir into sol a meterle e a cavarle!... Quante olte tel cogne dir? Dio porco! A quel punto s’interruppe. Restai ancora un momento in attesa e poi visto che non proseguiva capii che la sua lectio magistralis era già terminata. Allora tentai di replicare e almeno un po’ di ragionare: Probabilmente, ‘n ponta de diritto, ti t’as reson e mi ae torto, però se no ne perdon massa te le monae, che te cambielo? Mi šon šul mio, ‘l resto l’è ŝa šiegà. Le tre olte de numero che šon vegnü into sin qua con l’ “ape”, par no te dar despiašer t’ae addirittüra šiegà ‘l viacio e portà l’erba sin föra la stala. Me l’ae descargàda, ghe l’ae data into a le vacche,... che voe pü che merda no ghe dasé... E po’, vardete ‘ntorno…, avé qua na mesa de mezzi te tutta la piana. Še qua con trattori con rode che ghe völ la scala a montar šü, machine da šiegar, ranghinatori… e te stas qua a romper i cojoni parché šon vegnù into par la terza olta ten tré meṧi con l’ “ape” 40 metri tel šiegà par me portar sin qua sta roba che peṧa… Ma l’altro – come prevedibile – non sentiva ragione (il diritto d’altronde era sempre stato il suo punto forte): ma no, no, dio porco, no te pös, e basta!... A quel punto, capendo che continuare sarebbe stato tempo sprecato, gli tirai giù, a mia volta, un po’ di sacramenti, tanto perché la finisse. L’incanto della mattinata agreste era ormai svanito. Dopo un po’ lasciai il lavoro e me ne andai, discretamente alterato.
Il giorno appresso, sperando di aver miglior fortuna e non imbattermi nuovamente nell’irragionevolezza di quell’uomo, ritentai la sorte e scesi di nuovo al campo. Per non provocare eventuali altri dispiaceri fermai l’ “ape” föra i Stefenati pur sapendo che avrei dovuto fare più di un viaggio per portare a mano, dal motocarro al campo, quel che serviva per proseguire il lavoro interrotto. Mi accorsi però immediatamente, ancor prima di metter piede nei prati antistanti, che un’inaspettata rappresaglia per le mie incaute parole del giorno innanzi era stata compiuta. L’olezzante profumo di lavanda francese che si poteva percepire a distanza e il bel marrone intenso della piana non lasciava alcun dubbio in merito. Guardando sconsolato quel lago di pissigna, ripensai alle alte parole di Martino e a quanto era stata opportuna e soprattutto logica la sua magistrale lezione di diritto… Contemporaneamente però realizzai che lo studio americano sugli effetti dell’ammoniaca doveva essere indubbiamente esatto.

A.D. – tratto da “Il paese dei Sapienti”

21/10/09

E L'UOMO MODERNO SI COMPRO' LA LUNA...


La notizia era stata annunciata appena un giorno prima, nel modo più arrogante, praticamente a cose fatte: la NASA, l’ente aerospaziale americano, lancia un missile sulla luna “per vedere di quale natura è la polvere sul satellite terrestre. Il missile nell'impatto solleverà una nuvola di polvere e gli scienziati sperano di capire se c'è acqua o ghiaccio. L'idea è di confermare la presenza d’acqua, essenziale per la vita dei futuri pionieri umani” (fonte: agenzia AP Com). A parte il sospetto che l’esperimento celi ben altre finalità (militari?), noto con indignazione e sgomento che la boria dell’Homo Americanus, sottospecie evoluta dell’Homo Occidentalis, non conosce né limiti né rispetto, per nessun essere o posto del Creato. Così, passo dopo passo, di conquista in conquista, la dea Scienza, sostituto comodo e beneaugurante dell’oramai sorpassato Spirito, nei cuori degli uomini “emancipati”, miete ininterrottamente successi o vittime, al variare della visuale. L’interrogativo, però, anche nella sensibilità di alcuni inguaribili idealisti (li scusi, se può, la NASA) appare a grandi lettere sullo schermo: ma la luna è proprietà americana? E se oggi è accaduto questo, domani qualunque ente, Stato, associazione a fini eversivi (nel senso di eversione dell’ordine cosmico) potrà senza preavviso alcuno scaraventare i suoi missili sul satellite della Terra, o magari su Giove o Marte? O subissare corpi celesti di scorie radioattive, inondarli con tonnellate di spazzatura che il nostro pianeta non riesce più a smaltire, grazie al grandioso e progredito stile di vita di una minoranza di abitanti terrestri che contamina acqua, aria, spazio, sottosuolo per conto proprio e altrui? Qualcuno dovrebbe spiegare (magari nei telegiornali, al posto dei gossip sulla coppia Clooney – Canalis) il motivo reale della ricerca dell’acqua sulla luna; studio peraltro perseguito a suon di dollari, spesi arditamente mentre nel mondo miliardi di persone soffrono la fame. Che cosa dovrebbero scoprire eventuali esploratori? Chi siamo? Da dove veniamo? Chi ci ha creati? O, al massimo, quanto è grande in metri cubi l’universo? Miliardi di dollari, anni di energie per un numerino incomprensibile o per sapere che l’oggetto che ci contiene è piramidale con scappellamento a destra, avrebbe potuto osservare il buon Ugo Tognazzi.E' proprio vero che la curiosità è femmina ma la stupidità è umana. E deleteria. Il fatto inquietante, appreso durante secoli di storia, è che, una volta superate le colonne d’Ercole nell’assurda corsa verso il cosiddetto sviluppo, l’uomo non e riuscito più a fermarsi. Ubriaco di maniacale delirio d’onnipotenza, si è travestito da Dio del mondo e delle cose, convinto - ma questo è un cardine del credo capitalista, responsabile in appena tre secoli della distruzione della Terra dopo millenni di sonnacchiosa tranquillità - che volere sia uguale a potere e, per dirla col filosofo inglese Francesco Bacone, conoscere sia indispensabile per dominare.“O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l'anno, sovra questo colle / io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva / siccome or fai, che tutta la rischiari”. Un giorno questi versi leopardiani potrebbero essere l’ultimo manifesto lirico di quando l’astro celeste, da sempre inseparabile compagno notturno del genere umano, era la solitaria consolazione di poeti, amanti e suicidi. Non discarica, né zona di conquista per basi futuristiche di cui l’umanità non saprebbe che fare.Aveva ragione il poeta Giuseppe Ungaretti quando, sull’onda degli sconvolgenti eventi vissuti in prima persona durante la Prima Guerra Mondiale, scrisse cupo di sconforto che l’erba è “lieta dove non passa l’uomo”. Di sicuro tanti avvenimenti successivi non l’hanno smentito. Se ci fossi io al posto della luna non sarei per nulla tranquillo.

Antonio Talarico

20/10/09

19/10/09

IL TEMPO NUOVO


Caro Umberto che dire? Al tempo e alle donne non si comanda, come si dice. E pazienza per le donne, ma al tempo, giunti ad un certo punto – converrai – sarebbe meglio poter comandare! Il lavoro – nel nostro mondo occidentale (detto anche primo mondo) – è la parte di tempo (di quel tempo che a ognuno il destino assegna e la cui ampiezza ci è sconosciuta) che più ci occupa la vita. Siamo abituati a considerarlo, oltre che un privilegio (non a caso si dice che il lavoro nobilita l’uomo), un dovere. In verità, per come siamo congeniati, più che un privilegio e un dovere, il lavoro è una necessità, visto che ci troviamo intrappolati in un sistema che “non perdona”. O dentro, o fuori. La scelta è libera. Ma siccome restar fuori non è facile e il sistema è plutofilo, ecco che solo per mezzo del lavoro obbligato e della sua rendita finanziaria possiamo restare dentro. Tuttavia, per scommessa, e prima della pensione, si può anche starne fuori. Ma è dura. Bisogna avere gran forza, caparbietà e capacità di adattamento. Qui in paese una persona siffatta c’è. Vive di pochissimo, fa l’apicoltore, legge, ascolta la radio, coltiva un piccolo campo e insomma, con circa 30 euro al mese (il corrispettivo della vendita diretta di 3 chili di miele), vive! Ma lui è un’eccezione. E difatti, appunto, lo fa - come dice - per scommessa e al di là di quelle attività si concede (ovviamente) poco o nulla. Ma in fondo la felicità cos’è se non la capacità di apprezzare (per quanto poco sia) ciò di cui disponiamo? Sapersi accontentare è il suo segreto. Non bramare. Non farsi irretire dalle infinite sirene che il nostro sistema economico ci propone ogni giorno che passa. E invece andare avanti lenti al giusto ritmo della natura e dei suoi cicli stagionali che, proprio in quanto ingranaggi di quel sistema che “non perdona”, ci è impossibile sincronizzare da “lavoratori”.
Dunque, eroiche eccezioni a parte, adesso, finito il tempo del lavoro obbligato, hai la possibilità di entrare in una dimensione nuova. Autenticamente umana. Inizialmente, sarà dura disintossicarti (esattamente come succede a un incallito fumatore). La dipendenza dalla “droga lavoro” farà la sua bella resistenza. Un po’ alla volta però riuscirai a venirne fuori, e capirai allora che la parte migliore della Vita è proprio quella. L’Umano, in fondo, oltre al “naturale” lavoro di sussistenza (che gli garantisce l’essenziale: la casa e gli alimenti), ha bisogno di affetti, di dolcezza, di silenzio, di tranquillità. È anch’esso un animale, quantunque razionale, e di tanto, nulla di più, ogni animale, ha (avrebbe) effettivamente bisogno. Il lavoro obbligato pur, come detto, necessario per vivere in questo sistema, mal si concilia con queste primarie necessità, la mancanza delle quali, come certo avrai capito, è purtroppo all’origine di tutti i mali del mondo. Per te, fortunatamente, quel tempo nuovo è arrivato e ti auguro di cuore lunghi anni di felicità.

A.D.

18/10/09

I COLORI DEGLI DEI


Veglia Giove
sul carro trainato da Apollo
nell'azzurro


mentre Flora, aiutata da Venere
dispensa a piene mani
tutti i colori dell'Iride.


Così l'occhio umano
quaggiù
s'innamora
dell'orizzonte silenzioso
pronto
alle battaglie più aspre
con l'aiuto di Marte.


Nerino - Rio Stava 03/05/09 Dalla raccolta 4^ "Somebody"

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

MINU
Foto di Sabina

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