03/01/09

DIARIO DA GAZA, MAPPA DELL'INFERNO


Jabilia, Bet Hanun, Rafah, Gaza City, le tappe della mia personale mappa per l'inferno. Checché vadano ripetendo i comunicati diramati dai vertici militari israeliani, e ripetuti a pappagallo in Europa e Usa dai professionisti della disinformazione, sono stato testimone oculare in questi giorni di bombardamenti di moschee, scuole, università, ospedali, mercati, e decine e decine di edifici civili. Il direttore medico dell'ospedale di Al Shifa mi ha confermato di aver ricevuto telefonate da esponenti dell'IDF, l'esercito israeliano, che gli intimavano di evacuare all'istante l'ospedale, pena una pioggia di missili. Non si sono lasciati intimorire. Il porto, dove dovrei dormire, ma a Gaza non si chiude un occhio da 4 giorni, è costantemente soggetto a bombardamenti notturni. Non si odono più sirene di ambulanze rincorrersi all'impazzata, semplicemente perché al porto e attorno non c'è più anima viva, sono morti tutti, sembra di poggiare piede su di un cimitero dopo un terremoto. La situazione è davvero da catastrofe innaturale, un cataclisma di odio e cinismo piombato sulla popolazione di Gaza come piombo fuso, che fa a pezzi corpi umani, e contrariamente a quanto si prefigge, compatta i palestinesi tutti, gente che fino a qualche tempo fa non si salutava nemmeno perché appartenenti a fazioni differenti, in un corpo unico. Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri di quota state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di Hamas o Fatah esposte sui davanzali, non hanno ripensamenti esplosivi neanche se sei italiano. Non esistono operazioni militari chirurgiche, quando si mette a bombardare l'aviazione e la marina, le uniche operazioni chirugiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullate alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbe salvabili. Non c'è tempo, bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito susseguente in attesa di una trasfusione. All' ospedale di Al Shifa ci sono 600 ricoverati gravi e solo 29 macchine respiratorie. Mancano di tutto, soprattutto di personale preparato. Per questa ragione, esausti più che dalle notti insonni, dall'immobilismo e dall'omertà dei governi occidentali , così complici dei crimini d'Israele, abbiamo deciso di far partire ieri da Larnaco, Cipro, una delle nostre barche del Free Gaza Movement con a bordo 3 tonnellate di medicinali e personale medico. Li ho aspettati invano, avrebbero dovuto attraccare al porto alle 8 a.m. di questa mattina. Sono invece stati intercettati a 90 miglia nautiche da Gaza da 11 navi da guerra israeliane, che in piene acque internazionali hanno provato ad affondarli. Li hanno speronati tre volte, producendo una avaria ai motori e una falla nello scafo. Per puro caso l'equipaggio e i passeggeri sono ancora tutti vivi, e sono riusciti ad attraccare in un porto libanese. Sempre più frustrati dall'assordante silenzio del mondo "civile", i miei amici ci riproveranno presto. Hanno scaricato infatti i medicinali dalla nostra nave danneggiata, la Dignity, e li hanno ricaricati su di un'altra pronta alla partenza alla volta di Gaza. Certi che la volontà criminale di Israele nel calpestare diritti umani e leggi internazionali non sarà mai forte come la nostra determinazione nella difesa di questi stessi diritti e uomini. Molti giornalisti che mi intervistano mi chiedono conto della situazione umanitaria dei palestinesi di Gaza, come se il problema fossero la mancanza di cibo, di acqua, di elettricità, di gasolio, e non chi è la causa di questi problemi sigillando confini, bombardando impianti idrici e centrali elettriche. Lunghe file ai pochi panettieri con ancora le serrande semiaperte, 40-50 persone che si accapigliano per accaparrarsi l'ultima pagnotta. Uno di questi panettieri, Ahmed, è un mio amico, e mi ha confidato il suo terrore degli ultimi giorni. Più che per le bombe, teme per gli assalti al forni. Dinnanzi al suo, si sono già verificate risse. Fino a poco tempo fa c'era la polizia a mantenere l'ordine pubblico, specie dinnanzi alle panetterie, ora non si vede più un poliziotto in divisa in tutta Gaza. Si sono nascosti, alcuni. Gli alti stanno tutti sepolti sotto due metri di terra, amici miei compresi. A Jabilia ancora strage di bambini, due sorelline di Haya e Laama Hamdan, di 4 e 10 anni, colpite e uccise da una bomba israeliana mentre guidavano un carretto trainato da un asino, in strada as-Sekka, a Jabalia. Mohammad Rujailah nostro collaboratore dell'ISM, ha scattato una foto che più di un fermo-immagine, è una storia, è la rivelazione di ciò che tragico viviamo intensamente ogni minuto, contandoci ogni ora, perdendo amici, fratelli, familiari. Carri armati, caccia, droni, elicotteri apache, il più grande e potente esercito del mondo in feroce attacco contro una popolazione che si muove ancora sui somari come all'epoca di Gesù Cristo. Secondo Al Mizan, centro per i diritti umani, al momento in cui scrivo sono 55 bambini coinvolti nei bombardamenti, 20 gli uccisi e 40 i gravemente feriti. Israele ha trasformato gli ospedali e gli obitori palestinesi in fabbriche di angeli, non rendendosi conto dell'odio che fomenta non solo in Palestina, ma in tutto il mondo. Le fabbriche degli angeli sono in produzione a ciclo continuo anche questa sera, lo avverto dai fragori delle esplosioni che avverto fuori dalle mie finestre. Quei corpicini smembrati, amputati, e quelle vite potate ancora prima di fiorire, saranno un incubo per tutto il resto della mia vita, e se ho ancora la forza di raccontare delle loro fine, è perché voglio rendere giustizia a chi non ha più voce, a chi non ha mia avuto un fiato di voce, forse a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare. Restiamo umani.


Vittorio Arrigoni - attivista per i diritti umani

01/01/09

DISCORSO DI CAPODANNO 2009



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YouTube - Discorso di Capodanno 2009

LA BANALIZZAZIONE DEGLI AUGURI


Ho trascorso le feste impegnato a rispondere agli auguri. Via sms. Alcuni, lo ammetto, li ho inviati anch'io. Anzi: molti. E, ovviamente, non è ancora finita. L'opera continuerà per qualche giorno ancora. Dicono, i gestori della telefonia mobile, che in questi giorni l'aumento del traffico degli sms sia aumentato in modo spropositato. Di 25 punti percentuali in più rispetto a un anno fa. Sarebbe stato inviato un miliardo di sms solo a Natale. Pare. Ma deve essere vero. Io, nel mio piccolo, continuo a sentire il mio cellulare che segnala l'arrivo di nuovi messaggi. Tre ticchettii. A ripetizione. E' il prezzo della tecnologia. Basso, dirà qualcuno. Anzi, più che un prezzo, un risparmio, perché inviare gli auguri per posta - una cartolina, un biglietto, una lettera - costava molto di più, in tempo e, forse, ma non ne sono certo, anche in denaro. Però - bisogna aggiungere - per via postale il numero di messaggi di auguri inviato era molto più ridotto. Il che costringeva a selezionare. A scegliere le persone per cui valesse la pena di "spendere" tempo. Per amicizia, riconoscenza, diplomazia, deferenza. Molti e diversi i motivi. In fondo, gli auguri sono un dono. Il cui fine non è solo altruista. Seguono anch'essi una logica di utilità, per quanto implicita. Servono a tener viva una relazione. Fanno parte di un complesso gioco di reciprocità. Anzi, di scambi. Gli auguri, infatti, si "scambiano". Il cellulare, per questo, ne riduce il valore e il significato. Riducendoli a un rito elettronico, routinario e superficiale. Si fanno gli auguri in qualche nanosecondo. "Cari auguri...". E, pochi secondi dopo, tre tocchi e arriva la risposta. Oppure, a tua volta, senti il segnale del cellulare. Apri il messaggio e leggi: "Cari auguri...". Un secondo dopo hai già risposto: "... anche a te". Non è più un gioco di scambi e di relazioni. Solo una questione di riflessi. A volte non ti soffermi neppure a guardare di chi si tratta. Anche perché non sempre è possibile. A volte arrivano sms da numeri che non ho memorizzato. E il messaggio è firmato da nomi comuni. Molto comuni. Troppo. "Un Natale felice a te e ai tuoi. Paolo". Ma io conosco almeno una ventina di persone che si chiamano Paolo. Di quale si tratterà? Per cui non mi pongo problemi e rispondo: "Anche a te e alla tua famiglia. Ilvo". Tanto costa poco. Anche se la tecnologia ricorre a soluzioni sempre più elaborate, per simulare il biglietto di auguri tradizionale. Messaggi sofisticati, con disegni sempre più complessi. Alberi-di-natale-con-luci-intermittenti. Presepi-con-o-senza-remagi. Accompagnati, talora, da canti natalizi. Quattro-cinque note. La tentazione, ovvia, è di usarli a nostra volta. Sostituire la firma, e "inoltrare" ad altri. Evitando, possibilmente, di girarli a chi te li ha spediti. Gli sms: hanno impoverito il rito degli auguri. Lo hanno burocratizzato definitivamente. Completando l'opera avviata dalle e-mail. Che, però, erano e restano prerogativa di una cerchia ristretta. Perché la posta elettronica la usa, comunque, una minoranza colta di persone, i cellulari più o meno tutti. Della posta elettronica gli sms hanno riprodotto la tendenza a standardizzare il rapporto fra gli interlocutori. Colpa delle mailing-list. Delle agende di indirizzi che possono essere usate per mandare messaggi collettivi. Talora elaborati: poesie, detti celebri, citazioni di filosofi greci o da mistici medievali. I più militanti: frasi di teologi della liberazione. E' la situazione peggiore. Come rispondere se arriva, per sms, questa massima di Meister Eckhart: "... finché avrete dei desideri, Dio li soddisferà, avrete desiderio di eternità e di Dio fino a che non sarete perfettamente poveri. Poiché è più povero solo chi non vuole nulla e non desidera nulla"? Sei disarmato. Non puoi reagire con: "Auguri anche a te e ai tuoi". Si instaura così una relazione asimmetrica, almeno in apparenza. Perché, di fatto, quella citazione è stata spedita a qualche decina o centinaia di indirizzi. Una volta per tutte. Non a uno a uno. Anche per questo il Natale e le altre feste stanno perdendo il loro valore sociale. Troppi doni, pochi alberi di Natale, pochi presepi, pochi, pochissimi auguri veri, fatti in modo diretto. Ormai per marcarne il segno esclusivo, come un dono dedicato, gli auguri devi farli di persona. Almeno per telefono. Altrimenti tutto scade nell'assoluto impersonale. I tentativi di personalizzare gli sms collettivi, usando, per risparmiare tempo, lo stesso messaggio ma cambiando, di volta in volta, il nome del destinatario insieme all'indirizzo, trasmettono, comunque, una sensazione insopprimibile di artefatto. E lasciano aperti varchi pericolosi a equivoci imbarazzanti. A me, ad esempio, il giorno di Natale è arrivato un sms - firmato da una persona a me nota - che recitava: "Caro Matteo, tanti cari auguri a te e famiglia". Matteo. Così gli ho risposto: "Anche a te e ai tuoi, caro Marco". Io non mi chiamo Matteo. Lui non si chiama Marco. Così ho ristabilito una relazione simmetrica. Fra due persone che si conoscono ma non si ri-conoscono. Un gioco di maschere e di finzioni. Forse un segno dei tempi.

Ilvo Diamanti

30/12/08

DROGA, DALLA NATURA ALLE NEVROSI D'OGGI


Gli uomini si drogano da millenni: per lenire il dolore e la fatica. La natura è un incredibile bazar di erbe analgesiche e/o allucinogene, funghi dell'oblio, umori eccitanti, la liceità di questo genere di pratiche non è stata mai troppo discussa fìnchè si trattava di aiutarsi a reggere l’inumana sofferenza di campare. Il contadino boliviano denutrito masticava foglie di coca per sopportare meglio la sua soma quotidiana, mica per il gusto di sballare nel weekend. La faccenda si è fatta molto più complicata dacché le droghe, al pari di tante altre cose, da laborioso espediente per tirare avanti (o da viatico per certi tranfert di tipo culturale e religioso) sono diventate un comfort voluttuario, uno sfizio, una merce di consumo. Così come gli obesi e i bulimici sono coloro che hanno perduto il valore d'uso di proteine e calorie (e di proteine e calorie possono anche morire), i drogati sono coloro che assumono alcune particolarissime sostanze non più per saltuaria necessità ma per ossessione culturale o per dipendenza psicologica. E a volte ne muoiono, e più spesso si distruggono la salute: fisica, mentale e anche economica. La dipendenza dalle droghe è diventato un gravissimo problema sociale, perché mina e invalida individui quasi sempre giovani, e perché alimenta a dismisura il mercato nero e la criminalità. Questo problema ha generato, tra gli altri inconvenienti, anche una vera e propria forma di panico che non aiuta (è il mio parere) a risolverlo. Alle droghe si attribuiscono poteri demoniaci che finiscono per esaltarne, anche contro la volontà dei demonizzatori, il potere di suggestione sugli spiriti più fragili. La loro potenza, in qualche caso già devastante, è amplificata dall'aura di peccato e di proibito che le circonda. Quando fumai, a quindici anni, il mio primo e penultimo spinello, rimasi profondamente deluso dal suo piccolo effetto inebriante, e sopratutto rimasi infastidito dall'estasi semi-sacerdotale nella quale fingevano di sprofondare coloro che me lo avevano offerto. Più che da quella droga, mi allontanai da quei “drogati” il cui eccesso di devozione alla sostanza e ai suoi poteri mi parve ridicolo e imbarazzante. Più tardi lessi la testimonianza di un grande poeta, Ungaretti, che raccontava, molto divertito, di avere fumato cannabis in America, e di averla trovata infinitamente meno eccitante della sua propria “droga autogena”, la poesia che gli ravvivava il cervello. Non voglio dire che le droghe non siano pericolose. Alcune lo sono molto, e bruciano la testa di chi le usa. Ma tutte, indistintamente, lo sarebbero di meno se le si ridimensionasse sulla base di ciò che esse sono: sostanze naturali e chimiche che possono procurare, caso per caso, sostanza per sostanza, effetti piacevoli e contro-effetti spiacevolissimi. La distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere” (i derivati dalla cannabis) mi pare utile soprattutto perché aiuta a sciogliere quel groppo uniforme e oscuro che chiamiamo “la droga” e comincia a definire razionalmente “le droghe”, differenziandole per qualità e per pericolosità. Naturalmente, in materia, ci sono posizioni differenti. Molti proibizionisti vengono da una dura e rispettabile milizia nel campo della lotta alle tossicodipendenze e quando parlano li ascolto con interesse (tranne i fanatici che hanno in tasca la ricetta magica). Mi pare, però, che tra i vantaggi dell'atteggiamento antiproibizionista ci sia una maggiore propensione a razionalizzare il problema, sfrondandolo degli anatemi moralistici e da quell’alea di colpa e di perdizione che attira i deboli e i suggestionabili come il nettare fa con le api. I fiori del male, alla fine, sono pur sempre fiori, non spiriti maligni. La droga, anzi le droghe, sono un problema di farmacopea impazzita, e di bulimia dei consumi, non di posseduti dal demonio da esorcizzare a suon di sberle. Ai giovani andrebbe spiegato che è un problema di autostima, di controllo di sé, di intelligenza e rispetto dei limiti, non di senso di colpa da alimentare. Che di quello - il senso di colpa - siamo già tutti drogati a morte.


Michele Serra

29/12/08

LE MERCI DISTRUGGERNNO L'ECOSISTEMA?


Miseria dello sviluppo (Laterza 2008, € 15,00), l'ultimo libro di Piero Bevilacqua - ordinario di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, autore sempre per Laterza (2008), di La terra è finita. Breve storia dell'ambiente - si divide in tre parti: la prima, «Fine dello sviluppo», si occupa di un tema poco conosciuto al grande pubblico e poco trattato anche in letteratura in Italia, e cioè della «distruzione di ricchezza a mezzo di merci» (come si intitola uno dei capitoli di questa prima parte). «L'intero edificio dell'economia dello sviluppo è stato costruito - nella cultura occidentale - su una doppia finzione, dice l'autore: la pretesa eternità dei fenomeni sociali e la supposta infinità della natura». La cancellazione della Natura dal tempo (e cioè la sua pretesa fissità rispetto al variare incessante dei processi sociali) e la sua separazione dallo spazio (e cioè dalla realtà fisica della materia vivente) ha portato a rappresentare le risorse naturali come uno stock di materie prime inanimate, con conseguenze gravi. Questa impostazione riduttiva ha reso possibile il saccheggio della ricchezza naturale dei paesi del Sud da parte dei paesi del Nord, che dura ormai da diversi secoli. E ha impedito di capire che la natura funziona in modo ecosistemico e non in modo puntuale, e che per usare una risorsa bisogna usarne molte altre, e ciò comporta abbattere foreste, inquinare fiumi e corsi d'acqua, affamare le popolazioni locali. Pochi di noi riflettono sul fatto che una “insignificante” maglietta di cotone, che a noi costa poco - anche 2 soli euro - richiede oltre 20 litri di acqua e che pertanto noi occidentali, disponendo ognuno di 10 o 20 magliette di cotone, senza saperlo siamo corresponsabili della sete nel mondo e della morte per dissenteria dei bambini dell'Africa. Ma oltre allo spreco di beni comuni scarsi essenziali alla vita come l'acqua e la terra, tutte le risorse e i fenomeni naturali hanno una funzione precisa, spesso insostituibile nel palcoscenico della vita: tra i molti esempi riportati dall'autore, quello della sabbia considerata materia interte, nonostante faccia parte dell'ecosistema fiume e serva a fini essenziali come frenare l'erosione delle rive e limitare le inondazioni; o quello delle foresta e dei boschi, che sono ecosistemi complessi di biodiversità naturale e agricola, e non possono essere ridotti a legname per il mercato. Un capitolo molto importante di questa prima parte è quello sui paradossi dell'agricoltura industriale chimicizzata, che contribuisce in modo determinante a creare la fame nel mondo. Nella seconda parte, «La grande ritirata», l'autore si occupa dei fattori che negli ultimi 30-40 anni hanno impresso una forte accelerazione alla distruzione di ricchezza a mezzo di merci, tra cui spiccano la formidale iniziativa capitalistica che, portata ai suoi estremi, ha prodotto la crisi finanziaria mondiale di queste ultime settimane, e l'arretramento strategico del movimento operaio, dei partiti di sinistra e del sindacato. L'avvio di questa fase viene individuato, anche sul piano simbolico, nella famosa frase di Ronald Reagan, resa nota poco dopo il suo insediamento alla Casa bianca nel 1981: «Lo stato non è la soluzione ai nostri problemi; ne è invece la causa». Nella terza parte, «Quel che può la politica», l'autore afferma - con una scrittura piana ma chiara e determinata - che il «Grande Racconto», la leggenda della prosperità per tutti, è arrivato al suo epilogo. Che siamo davanti a una sconfitta profonda, anche perché accompagnata da una «autentica catastrofe culturale della sinistra storica». Ma subito dopo Bevilacqua reagisce in positivo: le iniquità sociali - dice - generano conflitti, e i conflitti pensiero teorico e pratico. Sarà un pensiero necessariamente diverso da quello del passato, dove alla Natura sia restituito il ruolo che le spetta nella produzione della ricchezza, accanto al Capitale e al Lavoro. Non si tratta infatti di aprire qualche nuovo parco o di salvare questa o quella specie in estinzione ma di pensare l'economia e la società in modo diverso: dove sia privilegiata la cooperazione rispetto alla competitività, i mercati locali al posto del free trade, il welfare territoriale, le reti solidali, i rapporti di comunità e quelli di vicinato. È necessario dunque lavorare alla costruzione di una nuova cultura «delle possibilità», usando il metodo della sperimentazione ma consapevoli che non siamo all'anno zero, e che molto già si muove in tutte le parti del mondo.

Giovanna Ricoveri

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
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MINU

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