11/01/08

L'INFERNO ANIMALE



Il vostro bimbo siede davanti a un bicchiere di latte, voi ordinate un cappuccino al bar. In quel liquido bianco che sa di maternità e conforto non può esserci niente di male, né le confezioni industriali in tetrapak, plastica o vetro suggeriscono altro che lindore. Di certo sapete che la bevanda viene estratta da corpi animali, ma forse non vi siete mai domandati come.
Un capannone lungo cento metri e largo sessanta accoglie duecentoventi vacche, ciascuna rinchiusa in un box ove le è impossibile girarsi, con il muso rivolto alla mangiatoia in cui di continuo vengono rovesciati mangimi stimolanti e di promiscuo assemblaggio. Ognuna di esse ogni stagione partorisce e un istante dopo le viene sottratto il piccolo. Se maschio, questi è destinato alla filiera della carne. I meno sani finiranno subito al macello per diventare cibo per cani o gatti, macinato a uso umano o caglio, estratto dai loro stomaci e indirizzato alla produzione di certi formaggi. Ai più sani, prima di essere uccisi, si concede un anno per ingrassare in sofferenti recinti, sempre al chiuso. Le femmine in genere vengono tenute, per subentrare verso i diciotto mesi alle madri, le quali anziché vivere trenta o quarant’anni come potrebbero, muoiono a tre o quattro, sfinite dal ritmo della suzione e delle ininterrotte gravidanze. La dichiarazione di fine carriera fa da preludio all’ultimo viaggio con destinazione il mattatoio.
In ogni caso anche i vitellini sono subito isolati in box a parte e attaccati a poppatoi artificiali. Il latte a loro in origine destinato viene munto dalla vacca due, anche tre volte al giorno, per ottenerne un quantitativo che varia dai trentacinque ai settanta litri a testa.
A questi animali docili e sensibili non è mai concesso di vedere il cielo, muovere un passo o avere un contatto spontaneo con un proprio simile. Di contro, sono sottoposti a continue vessazioni, come la pulizia delle deiezioni eseguita senza alcun garbo in spazi tanto esigui.
Quando una vacca da latte si accascia, è più economico lasciarla morire da sé che non curarla o sopprimerla. Qualsiasi somministrazione di farmaci sarebbe in contrasto con l’utilizzo successivo del suo corpo, né gli allevamenti sono autorizzati all’abbattimento diretto. Viene dunque abbandonata alla propria sorte, con le mammelle che scoppiano di dolore per la mancata mungitura, in un’agonia che può durare parecchi giorni.
Negli Stati Uniti la quasi totalità dei vitelli è allevata su larga scala per la macellazione infantile, dentro gabbie di centocinquanta centimetri per sessanta, con pavimento di nude assi di legno. Isolati, senza potersi muovere né pulire, i piccoli vengono nutriti con una poltiglia priva di ferro e fibre per mantenerne bianca e pregiata la carne. Tutti sofferenti di anemia subclinica, consumano denti e pelo mordendo le grate e leccandosi per sopperire alle carenze vitaminiche e affettive. Riempiti di ormoni e antibiotici per crescere in fretta e per prevenire o piuttosto arginare l’insorgere di malattie e infezioni come dissenteria, polmonite, tricofizia, ulcere o setticemia, all’età di quattordici settimane, troppo atrofizzati anche per camminare, vengono, vengono stipati a centinaia sui camion per compiere viaggi anche molto lunghi verso i mattatoi.
Nella zoofila Gran Bretagna, circa l’80% della carne di manzo è un sottoprodotto dell’industria lattea e ogni anno circa 170.000 vitelli muoiono prima del compimento dei tre mesi a causa di incuria e maltrattamenti durante i trasporti e nei mercati.
Tutto questo perché la carne, secondo il sentire comune, piace e fa bene. E poi aiuta i bambini a crescere. Se davvero si avesse a cuore il loro sviluppo, ci si preoccuperebbe in primo luogo di educarli alla conoscenza, alla gentilezza e alla pietà, anziché parcheggiarli davanti al televisore o ai videogiochi – alcuni capaci, come noto, di generare crisi epilettiche – o di lasciarli preda delle mode e delle abitudini imposte da multinazionali che gestiscono le masse umane proprio come quelle animali: in batteria.

da “La pelle dell’orso” di Margherita d’Amico

10/01/08

PER LE STRAGI DI PERUGIA




Non più di frodi la codarda rabbia
Pasce Roma nefanda in suo bordello;
Sangue sitisce, e con enfiate labbia
A’ cattolici lupi apre il cancello;

E gli sfrena su i popoli, e la sabbia
Intinge di lascivia e di macello:
E perché il mondo più temenza n’abbia,
Capitano dà Cristo al reo drappello;

Cristo di libertade insegnatore;
Cristo che a Pietro fe’ ripor la spada,
Che uccidere non vuol, perdona e muore.

Fulmina, Dio, la micidial masnada;
E l’adultera antica e il peccatore
Ne l’inferno onde uscì per sempre cada.

Giosue Carducci - 1859

TRA DISNEYLAND E GLI AYATOLLAH


Non ci sarà scontro tra cultura globalizzata e cultura locale. Questa è la convinzione che Michel Serres ha espresso durante i «Colloqui del XXI secolo» organizzati dall'Unesco. Basando la sua analisi sulla storia delle tecnologie e dei loro rapporti con le società umane, il filosofo francese sostiene che lo spazio culturale si è sempre nutrito di relazioni di contiguità e di confronti con gli altri. E lo sviluppo delle reti informatiche non cambia certo le cose.

Le «nuove» tecnologie sono più antiche di quanto in genere si pensi.Esistono due tipi di tecnologie che la parola, di origine inglese, non permette di distinguere: le tecniche - cioè l'insieme degli strumenti - che utilizziamo su scala antropica (dallo schiaccianoci alla bomba atomica) e le tecniche a carattere propriamente informatico, per le quali per esempio nella lingua francese non esiste un termine specifico. La parola inglese «tecnologia» (technology), abbracciando entrambe queste nozioni, ci dà l'illusione di un'evoluzione lineare nel passaggio dalle tecniche «dure» alle tecnologie «dolci» che oggi ci circondano. Non è così. Le tecnologie dolci hanno sempre accompagnato la storia dell'uomo. Sono state decisive anche nel suo processo evolutivo: l'invenzione della scrittura, per esempio, è una tecnica che attiene all'attività dell'informazione (o alle «energie dolci»), così come l'invenzione della stampa. Non è affatto strano, quindi, che le tecnologie dolci sfruttino il «dolce» e le tecnologie dure il «duro». Come ha ricordato Jeremy Rifkin, nell'economia tradizionale le tecnologie relative alle energie dure usavano le energie dure. Ma le tecnologie dolci esistevano già e avevano già scoperto «l'età dell'accesso». Non dobbiamo dimenticare, infatti, che anche se abbiamo imparato a scrivere le lingue che ci sono familiari, delle mille esistenti nel mondo, oltre 950 sopravvivono ancora solo grazie alla trasmissione orale. I popoli che le parlano non hanno avuto accesso alla scrittura. Peraltro, fin dall'invenzione della stampa, l'accesso alla lettura, alla scrittura e alle biblioteche riguardava già le energie dolci. Non si tratta quindi di un'evoluzione lineare della storia che condurrebbe dalle tecnologie dure a quelle dolci. Si evidenziano, al contrario, due storie: quella delle energie dolci da un lato e quella delle energie dure dall'altro. Peccato di simonia Le tecnologie dolci, che sfruttano il dolce e, di fatto, la cultura, sono in piena ascesa. Nella tradizione europea, però, è in atto un processo di riflessione sulla mercificazione della cultura a partire da un concetto di diritto canonico: il peccato di simonia. Questa nozione deriva dagli Atti degli apostoli e fa riferimento a Simon Mago che vendeva oggetti o atti sacri. Gli uomini colti avevano così iniziato a considerare «simoniaco» chi vendeva cultura. Per molto tempo, proprio l'ideologia simoniaca ci ha protetto dalla mercificazione del sapere. Recentemente, tuttavia, ho costatato con brutalità, vedendo la mia immagine utilizzata per una pubblicità televisiva contro la mia volontà, che questo senso di protezione era solo un'illusione. Un atto, contrario alle mie convinzioni, la cui esatta definizione potrebbe essere simoniaco! In un contesto di grandi cambiamenti come quello attuale, dobbiamo calcolare in modo esatto cosa guadagniamo e cosa perdiamo. Rischiamo forse di perdere la cultura? È bene fare due esempi. Di generazione in generazione, la memoria si affievolisce perché, abbandonando la tradizione orale per quella scritta, ricorriamo sempre meno a quella particolare capacità cognitiva. In effetti, contrariamente a quanto si pensa, la tradizione orale risulterebbe più solida di quella scritta. Nella nostra cultura si ritiene che la memoria sia soggettiva, una «facoltà dell'anima» strettamente individuale. Nessuno ha identificato la sede della memoria nel corpo umano. Propongo una visione diversa: da quando è stata inventata la scrittura, la memoria si è liberata di un peso e la scrittura è diventata un oggetto. Prima della stampa, infatti, un uomo colto che desiderasse conoscere Omero o Plutarco doveva impararne i testi a memoria. La stampa ha eliminato questa necessità e di conseguenza alleggerisce la memoria. Il che spiega appieno l'espressione di Montaigne: «Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena». La scrittura è stata inventata e noi abbiamo perso la memoria. La memoria è diventata collettiva e obiettiva, mentre la credevamo soggettiva e cognitiva. Questo processo è un dato costante nell'evoluzione dell'uomo. Non bisogna dunque avere paura di perdere perché, liberati dal pesante obbligo di ricordare, in realtà guadagniamo, e questa testa «ben fatta» può ornarsi di altre attività, più inventive. Le nuove tecnologie mettono a nostra disposizione tutta la memoria del mondo. Lo storico André Leroi-Gourhan descriveva così il processo evolutivo: quando l'uomo per camminare assunse la posizione eretta liberò gli arti anteriori dalla funzione di trasporto che avevano assolto fino ad allora. La mano poté allora sviluppare la capacità di afferrare e l'uomo divenne un Homo faber. Poiché la mano aveva conquistato questa facoltà, la bocca, che fino a quel momento aveva adempiuto alla stessa funzione, la perse. La bocca poté allora parlare... Ora, se nell'economia del processo mettiamo a confronto il guadagno della parola e la perdita della funzione di trasporto, non c'è alcun dubbio che il guadagno trascenda ampiamente la perdita. Oggi sta succedendo la stessa cosa? In questa evoluzione, è il soggetto umano stesso, nella sua dimensione cognitiva, che cambia. Ma è sempre cambiato, via via che le tecnologie dolci evolvevano. Questo vale in particolare nel campo delle scienze. Senza dubbio tutti ricordiamo le esercitazioni liceali: bisognava, a partire dalla sperimentazione proposta, effettuare delle misure e riportarle su un grafico, il che consentiva di ricavare una legge. Poche sperimentazioni e pochi dati permettevano quindi di giungere a grandi risultati. Pochi dati e poche sperimentazioni furono sufficienti anche a Newton per scoprire la legge di gravità. Oggi, le tecnologie realizzano per noi le osservazioni e le misurano, automaticamente e in tempo reale, poi registrano i dati senza limiti. A tal punto che un progetto lancia un appello agli utenti di computer di tutto il mondo per collegare quasi due milioni di macchine e poter così trattare i dati. Stiamo cambiando dunque anche paradigma scientifico: la scienza attuale non ha più niente a che vedere con quella di qualche decina di anni fa.Il termine «cultura» in origine fu inventato da Cicerone, per il quale «la filosofia è la cultura dell'anima». Questa prima definizione si inserisce in una visione umanistica che i filosofi del XVI secolo, dal canto loro, hanno ripreso dando vita alla tradizione de «l'honnête homme». Un secondo significato al termine cultura viene dalla Germania. Utilizzato per la prima volta da Kant, fu poi ripreso dal Kulturkampf, e designa l'insieme dei processi acquisiti in una società umana. In questo senso, la cultura del maiale degli agricoltori della mia infanzia faceva parte della «cultura della Guascogna». Sicuramente aveva pochi tratti in comune con le ballerine dell'Opera, che meglio si iscrivono nella prima definizione di cultura. Per me, la cultura è la strada che va dal maiale all'Opera, e viceversa. In questa ottica, una persona dai gusti artistici raffinati che ignora la cultura nel senso antropologico del termine non è affatto colta, così come non lo è un antropologo che non si intenda d'arte. Una terza definizione, più recente, è quella che individua la cultura come merce «globalizzabile». Già ora le imprese realizzano colossali profitti commercializzando oggetti culturali che fanno riferimento all'esperienza umana. Il film Titanic ripropone l'esperienza marittima universale. Vertical Limit si richiama ad un'altra esperienza universale nota a tutti, quella della montagna, anche se nei fatti si tratta di una teatralizzazione, di una realizzazione tangibile dell'esperienza proposta... Oggi si parla di una battaglia tra questa cultura globale, globalizzata e mercantile, e la cultura locale, nell'accezione antropologica del termine. Chiudere le frontiere per resistere all'invasione della cultura globalizzata sarebbe il modo più assurdo di porre il problema: in questa ottica saremmo condannati a dover scegliere tra Disneyland e gli ayatollah. Come si acquisisce una cultura? Prima di tutto in senso antropologico: il luogo dove siamo nati, la lingua dei nostri genitori... un certo numero di comportamenti, costumi e usi che ci vengono tramandati. Ma è evidente che ciò non basta a rendere colta una persona. Infatti, quando la cultura è chiusa, soffoca e muore. La cultura è l'invenzione, a partire da un punto dato, di una strada che, passo dopo passo, ci accompagna in un viaggio che ci porta a scoprire prima una cultura che sentiamo vicina, poi un'altra che lo è un po' meno, e così via. Questo percorso da una cultura all'altra è costellato di ostacoli, e l'incontro con l'altro, che spesso è diverso da come lo immaginiamo, è difficile. A volte accostarsi alla sua lingua, alle abitudini, alle tradizioni non è facile come si pensava. Tuttavia, in questo percorso possiamo essere sedotti e scoprire costumi che ci sono estranei: che c'è di più bello dell'artigianato brasiliano o di più straordinario, sotto certi aspetti, della raffinatezza della cultura giapponese? La cultura non ha frontiere: è porosa. Mai la Francia fu così francese come nel XVII secolo, quando Molière si ispirava fortemente agli italiani, o Corneille agli spagnoli. La battaglia annunciata tra dimensione locale e globale, cioè tra la cultura che designa l'insieme dei processi acquisiti in una società umana e la cultura diventata merce, dimostra una profonda incomprensione di cosa è lo spazio culturale. Lo spazio culturale è granuloso. È complesso, diverso per ciascuno e fatto di passaggi, ostacoli, guadi, colli, montagne invalicabili... Soprattutto, ciascuno vi traccia il suo cammino individuale, unico, vi disegna la sua mappa originale che esprime la singolarità culturale di ognuno di noi. Culture di questo tipo non rischiano niente, neppure da Internet, perché anche quello della Rete è uno spazio granuloso: non è uno spazio globale. In realtà, anche se questi mezzi di comunicazione sono considerati universali e tali da permetterci di entrare in rapporto immediato con qualsiasi punto del mondo, l'uso che se ne fa è sorprendentemente locale! Al contrario di ciò che si pensa, infatti, il telefonino ha rafforzato i legami comunitari della famiglia. Certo, il loro uso assume anche una dimensione globale. Ma è proprio questa combinazione di utilizzazioni locali e globali di strumenti come il portatile o Internet, che fa del loro impiego uno spazio articolato, granuloso, disseminato di ostacoli e di strettoie come lo spazio culturale. Per questo, a mio avviso, la «vera» cultura non è in pericolo. Su un punto sono tuttavia d'accordo con Jeremy Rifkin: in effetti, contrariamente a quanto pensava Marx, la cultura è l'infrastruttura. L'Europa del carbone e dell'acciaio non è stata sufficiente per costruire l'Europa, perché l'economia non è l'infrastruttura. È vero che dal Medioevo esiste una cultura europea. Se all'epoca fosse stata accettata l'idea che la cultura è l'infrastruttura, sarebbe stato sufficiente creare un'Università europea, incoraggiare lo scambio fra i giovani e costruire una cultura comune attraverso programmi educativi. Si sarebbero parlate quattro lingue, come in Svizzera, e l'Europa sarebbe ora una realtà! Ma se tentiamo di definirla veramente, la cultura a mio avviso dimostra due cose. Da un lato, si caratterizza attraverso il processo di acculturazione, cioè il «viaggio» che permette, di contatto in contatto, di incontrare l'altro. Dall'altro, è fondata su una singola decisione dell'individuo, quando stabilisce: no, non faccio parte di questa cultura. Viviamo una notevole trasformazione del soggetto cognitivo, della scienza obiettiva e della cultura collettiva. È questa trasformazione che mi fa rimpiangere sul serio di non avere diciotto anni!

di MICHEL SERRES Filosofo, membro dell'Académie française

08/01/08

VIVERE SENZ'AUTO


Non è che non se la possano permettere, sono semplicemente persone che fanno una scelta di responsabilità e di libertà. La responsabilità di ridurre i danni provocati dall'auto (inquinamento dell'aria e acustico, utilizzo dello spazio, incidenti) e la libertà di non possederne una, con tutti i vantaggi che ne derivano.


Meno stress, meno spese, meno pensieri inutili. Amo camminare in città, alla fine del lavoro. I miei percorsi sono passeggiate nella bellezza, un po' in bici un po' a piedi” racconta Eva di Firenze. “I vantaggi? La riduzione delle spese, in particolare quella dell'assicurazione che rappresentava per me un incubo” fa eco Denis, di Faenza. “Inoltre la riscoperta di "vivere la città" pedalando o "con i piedi": noti scorci mai visti, incontri e saluti un sacco di gente in più; riesci ad essere più in sintonia con lo scorrere delle stagioni. Rallentano i ritmi, i tempi si dilatano un pochino e pedalando si pensa meglio. Un po' di moto tutti i giorni fa bene! E parcheggiare? Mi scappa da ridere...”
Aggiunge Stefano, di Milano, “mi piacerebbe evitare di parlare dei vantaggi economici ma l'auto comporta una spesa incalcolabile sul budget di ognuno di noi. Benzina, assicurazione, bollo, ricambi, autostrada: ora li ho trasformati in libri, musica, viaggi e cose che mi interessano sul serio... Enormi vantaggi anche in termini di tempo. E' l'auto che ci mette fretta, provare a camminare da un posto all'altro o andarci in bici ti cambia i ritmi mentali, ti senti sempre meno in ritardo e ridai al tempo la sua giusta importanza. E' più bello passare il sabato mattina a leggere un libro di Douglas Adams piuttosto che portare la macchina a lavare! I vantaggi sono tantissimi e forse, dire che vivere senz'auto migliora la qualità della vita sembra banale, ma per me è cosi, vivo meglio, molto meglio!”
Perfino vivendo nella periferia di Roma questa scelta sembra possibile e vantaggiosa. Raccontano Mariarosa e Paolo: “Non dover cercare parcheggio, ci permette di arrivare come gli automuniti al lavoro, anche nelle distanze lunghe (14+14 km); quello che "perdiamo" pedalando, lo riguadagnano mentre gli altri cercano disperatamente parcheggio”.
Nessun inconveniente dunque? La spesa, il freddo, la pioggia, la notte, gli imprevisti?
“Tra i vantaggi: la spesa Zen. Non ci vedrai mai riempire ossessivamente carrelli, perché abbiamo zaini e borse laterali di capienza dignitosa.
“Gli inconvenienti? Devi "rivoluzionare" i tuoi modi di pensare gli spostamenti. Devi "scroccare" passaggi ai tuoi amici (ma basta offrire poi una birra). Per esigenze particolari devo chiedere l'auto in prestito a mio padre (3 volte all'anno). Non puoi assecondare tutte le tue voglie istintuali di raggiungere un posto”. E ancora: “A volte devo spostare oggetti ingombranti o pesanti, oppure mi devo recare in luoghi non serviti da mezzi pubblici, allora finché è possibile, uso l'auto di mia madre: è un'occasione per andarla a trovare”.
E se ci sono dei bambini?
“A dire il vero i nostri 3 sono contenti del fatto che da un anno non possediamo più un'auto. A loro piace andare e tornare da scuola a piedi o in bici” dice una coppia di Rovereto, entrambi lavoratori fuori casa. “Durante la settimana ci si organizza senza auto, personalmente ho riscoperto la bici. Per la spesa grossa e quando piove preferisco chiedere l'auto a qualcuno. L'estate scorsa siamo stati 4 volte a Pisa, 2 volte in treno e 2 con auto prestate. L'auto ci è invece proprio necessari nei fine settimana per andare in montagna perché i mezzi pubblici non lo permettono...”
Gli auto free, pur usandoli, sono accomunati da una certa delusione verso l'efficienza dei mezzi pubblici. “Le ferrovie dello stato fanno di tutto per farmi venir voglia di andare a vivere in un altro paese europeo...” “Chiaramente se ci fossero mezzi pubblici migliori e più efficienti ... La tranvia, una metropolitana interrata... ” “Se non c'è una linea vicino, a Roma, coi mezzi, ci si mette 2,45 ore per 12 km” “I servizi pubblici non hanno attrattiva, e ci si deve molto accontentare”.
Gli autofree non si stupiscono di essere una minoranza, e attribuiscono questa situazione ad un problema culturale: “perché gli italiani hanno l'ossessione di non voler sembrare poveri”. “Siamo succubi di quel pensiero da "boom economico" quando l'automobile iniziò a rappresentare simbolo di libertà (e di individualismo). Culturalmente l'automobile è "carica" di potere: di muoversi, di andare veloci, di comodità”. “Vedo l'auto come un mezzo superato, anacronistico. Ci fanno credere che l'auto che compreremo sfreccerà per strade deserte e ci porterà in posto fantastici, la realtà è di gran lunga diversa.”
Vivere senza possedere un'automobile sembra dunque essere una scelta possibile
, se integrata con altre modalità di trasporto (piedi, bici mezzi pubblici, car poooling, car sharing). Certo richiede organizzazione, creatività, determinazione, anche un po' di fantasia. “Maturavo questa scelta da tanto tanto tempo e come tutte le cose è più facile farle che pensarle. Sono contenitissimo di questa decisione e non tornerei indietro”.

di Antonella Valer

07/01/08

VIABILITA' TESERO - NUOVO COMMENTO


Ti scrivo dopo aver letto tutte le tue pagine dedicate a politica e a ecologia, non mi sarei mai permessa di scrivere basandomi solo su ciò che si dice di te in paese, (e ti assicuro che il fatto che non mi sia basata solo sulle chiacchiere di paese ti giova); mi sono presa il tempo di leggere le tue pagine, e mi sono fatta un'idea: quella che tu non riesca a calarti nei panni di un cittadino del 2000, che ti senta nostalgicamente attaccato a un passato, ma che tu in realtà non faccia altro che criticare un mondo in cui comunque vivi, che tu non operi in modo costruttivo (perché criticare così acerbamente una delle poche iniziative che fanno rivivere il nostro passato, anche in modo superficiale visto che è stata allestita una mostra a ottobre non certo rivolta ai turisti visto che era fuori stagione....), e che comunque non ti renda conto che in questo mondo che tu critichi con tanta rabbia ti ha generato, che i turisti che tu tanto disprezzi hanno fatto sì che questa valle non morisse, che tu potessi avere un lavoro qui nella valle che ami, che tu non ti dovessi spostare o addirittura emigrare verso la città, con le infernali automobili, per lavorare. Non pensi che sei tu quello ad essere soggetto a “schizofrenia comportamentale”? Mi spiace perché su alcuni punti mi trovo in accordo (tipo le gerarchie familiari di Tesero sono lampanti e di stampo mafioso e anche l'operato di alcuni personaggi potenti di Tesero di cui parli) così come sull'elogio della bici e dell'andare a piedi e ho apprezzato le poesie che hai messo online, tutte di altissimo livello. Sono assolutamente d'accordo sul fatto che spesso si usa con superficialità l'automobile, che spesso si potrebbe muoversi a piedi e farsi due passi che, vista la nostra vita sedentaria odierna farebbero giusto bene... ma penso anche che bisogna agire in questa direzione rieducando il cittadino e non ponendo divieti dappertutto. Penso inoltre che chi usa la macchina per spostamenti brevi lo faccia non per ostentazione dello status symbol (che ostentazione opera chi va in giro con la sua Panda 1000 o con l'Ape????????), ma sia soprattutto una questione di pigrizia e di ritmi di vita sempre più veloci che impongono a una donna di lavorare, (NB! Un buon 75% della popolazione di Tesero lavora fuori paese e la macchina la deve prendere per forza!!!) andare a prendere i figli in piscina, e fare la spesa, parcheggiando la macchina davanti alla cooperativa per non metterci mezz'ora ad arrivare a casa con tre borse della spesa sul groppone e l'aspettativa di una cena da preparare.Non so se tu abbia vissuto fuori da questa valle tanto da permetterti di farti pensare quanto “provinciali e cafoni” siamo noi; io sì, a sufficienza per rendermi conto che il vivere civile è la parola d'ordine qui, che il nostro è ancora un paradiso in cui i bambini vanno a scuola a piedi o in bici, in cui si scivola sulla dolce neve e in cui il “bianchetto” si può ancora bere nelle terrazze dei bar senza sentirsi assordati da sirene, autocarri, e schiamazzi degli ambulanti, storditi dai rumori e dallo stress acustico a cui ti costringe una città di 2 milioni di abitanti, (ma in realtà anche una città più piccola... ) Mi sembra veramente assurdo che proprio tu che ti sei fortemente battuto contro la strada di fondovalle e la strada di circonvallazione, che tolgono moltissimo traffico che invece prima passava per il paese, torni a lamentarti e sconvolgere la viabilità del paese (con suggerimenti alla giunta che peraltro non intralciano in alcun modo la viabilità né a te né alla tua famiglia). Prima della costruzione di queste due arterie stradali che alleggeriscono da una quindicina d'anni il paese dal passaggio di automobili, ma soprattutto di pullman, di autocarri, di camion per il trasporto di materiali dalle cave, com'era la situazione? Tu che preferivi che queste strade non venissero costruite, se si fosse avverato questo tuo desiderio, cosa faresti adesso? Dove convoglieresti i veicoli che ora transitano sulle strade che tu non volevi? Il povero signor G che tu critichi dove transiterebbe? Non ti senti provincialotto a parlare di traffico a Tesero? Hai mai guidato in un comune con più di 3000 abitanti all'ora dell'uscita dal lavoro, tipo le 17.30? Non ti sembra una soluzione migliore promuovere un bel progetto di “rieducazione all'uso dei piedi come mezzo di trasporto” invece di far mettere divieti e sensi unici per tutto il paese e osservare con malizia il signor L che vuol farsi un giretto con il cane la domenica? E con queste mie osservazioni non voglio assolutamente rassegnarmi alla decadenza e allo sviluppo sconsiderato che ci ha investiti nell'ultimo mezzo secolo, anzi... mi batto quotidianamente per la conservazione della storia e delle tradizioni locali e per la valorizzazione del centro storico; semplicemente credo che quella che tu insistentemente hai portato davanti alla giunta comunale non sia “LA” soluzione, ma “UNA” soluzione, che potrebbe (e sottolineo il condizionale) funzionare solo temporaneamente, ma che non risolve il problema, che è punitiva per chi si trova a abitare nella parte alta del paese (e che mica abita quassù perché abbia più soldi: ci sono anche le case ITEA.... ehm.... ci abita semplicemente perché le zone edificabili si sono spostate lassù... o bisognava costruire sopra il campanile de “san liseo”???????). Pensi veramente che chi prima prendeva la macchina per scendere dalla “Beverly Hill's” di Tesero ora cambi idea e scenda a piedi? Non penso proprio... scenderà ancora con il suo SUV (chi ce l'ha poi????? adesso sembra che tutti quelli che vivono nella zona alta abbiano il SUV...) compiendo un tragitto più lungo a causa dei divieti e sensi unici, aumentando il traffico e di conseguenza il rumore sotto casa tua... Tra l'altro è studiata estremamente male... chi vive in zona peoco-teatro ad esempio e che lavora fuori paese, che giro deve fare aumentando il traffico del paese essendo costretto a passare dalla parte dell'asilo e giù quando prima semplicemente saliva dalla canonica???? se poi il problema principale è il transito in via Stava, il transito che si è tolto rendendola a senso unico salendo, è stato prontamente sostituito da tutto il traffico che prima transitava salendo in Via Cavada e che ora sale per Via stava, o no?? e ti dico questo perché prima che io da via Stava ci scendevo, pochissime volte all'anno, ora sono costretta a passare sempre per il fatidico incrocio “del rana” visto che è l'unica strada che posso fare per arrivare a casa!! per non parlare poi del divieto che impedisce a chi abita in via Stava di utilizzare la strada di circonvallazione visto che non si può più scendere, ma gli impone di passare per il paese e salire... un’ultima e poi chiudo... sarà anche vero che i centri storici delle città hanno il traffico limitato, ma i residenti ci possono accedere, e comunque a Tesero come fai a distinguere il centro dal non centro? Prova a parlare di centro e non centro di Tesero a qualsiasi cittadino di qualsiasi città, ma visto che tu parli di Bologna, prendiamo Bologna... si metterà a ridere a crepapelle e ti chiederà se gentilmente vuoi far cambio e vuoi andare a provare i tuoi tappi di cera in centro nella sua città... fai tu i tuoi conti, ma tieni presente che la medaglia prima o poi si gira... buonanotte abitante del C.S. di Tesero, dormi sogni tranquilli e prendi con più leggerezza la vita, ti farà bene! Con stima, na tiesera.



Cara tiesera, ho letto con piacere il tuo commento al post “Nuova Viabilità Tesero – Punti di Vista” e ti ringrazio per avermelo inviato. Sono convinto che il confronto franco sia il fondamento della convivenza civile. Questa è stata una delle rare occasioni in cui un lettore abbia espresso un parere in merito a quanto scrivo (dall’aprile 2007, mese di attivazione di questo blog, i commenti pervenuti superano di poco la ventina), e non posso naturalmente non rallegrarmene. Sono d'accordo con te a proposito della mia “critica”: anche se piuttosto che acerba e rabbiosa la definirei, più propriamente, abbastanza pungente; e non ho mai “sperato” di dire cose che venissero apprezzate dai più. Se così non fosse non sarebbe più critica! Quando dal mio punto d’osservazione della realtà di questo “piccolo mondo” in cui mi tocca vivere scorgerò finalmente “segnali positivi” ne diverrò il cantore. Come ho già detto altre volte sono consapevole che la mia è una visione parziale, come del resto la tua e quella di qualsiasi persona che voglia esprimerne una, ma non per questo rinuncio a esercitare il mio diritto di opinione e, giustamente, così hai fatto anche tu.
Quanto al suggerimento finale che mi fai invitandomi a prendere con più leggerezza la vita e dormire “sogni tranquilli” sappi che da quando è entrato in vigore il nuovo piano della viabilità dormo effettivamente meglio e la mattina mi sento molto più “leggero”.
Concludo, e in cuor mio sorrido all'idea, osservando che alla fine del tuo gradito commento non sia stata posta alcuna firma; più che un segno di emancipazione che ben si pretenderebbe nell’oltremodo mitizzato “Duemila” mi pare un’orribile limitazione della libertà degna di altri tempi e di altre culture. Al contempo però, di ciò me ne dispaccio, perché celandoti dietro un anonimo appellativo mi impedisci di sapere chi sei e quindi di poter collaborare con te in merito ai sacrosanti progetti educativi che suggerisci. A proposito, quale educatore ci ha insegnato a non palesare la nostra identità in calce ad uno scritto?

euro

P.S.
Poiché gli argomenti toccati nel tuo commento meriterebbero una più approfondita e puntuale risposta da parte mia (segnatamente le ragioni del mio dissenso alla Strada di Fondovalle, alla Circonvallazione di Tesero e alle “Corte de Tieser”) se vuoi palesarti sarò ben lieto di incontrarti e spiegarti nel dettaglio le cose. Fai come vuoi, per contattarmi io comunque ti comunico il mio indirizzo e-mail: euro.delladio@yahoo.it

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

MINU
Foto di Sabina

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