01/03/08

I FIGLI OBBEDIENTI DI MAMMA TELEVISIONE


Un articolo inquietante di un pensatore francese. Un’analisi spietata sullo stato dei cervelli dell’uomo del 2000; sulla capacità di persuasione dei nuovi strumenti di comunicazione di massa; sulla modificazione della famiglia indotta dalla tecnologia; sullo stordimento generale delle popolazione del cosiddetto Occidente e sulla “riduzione in schiavitù” dell’Uomo contemporaneo al consumismo. Una lettura chiarificatrice che si sposa perfettamente con le tesi sull’inganno di concetti come libertà e democrazia sviluppate da Massimo Fini (Sudditi - Manifesto contro la Democrazia).


L'individualismo non è la malattia della nostra epoca: è l'egoismo, il self love tanto caro a Adam Smith, decantato da tutto il pensiero liberale. È l'epoca dell'incitamento all'egoismo, alla produzione di individui tanto più ciechi o accecati da non accorgersi di quanto siano inquadrati in regimi omologati. E proprio di «ego» si tratta, poiché le persone si credono uguali mentre in realtà sono passate sotto il controllo del «gregge». Quello dei consumatori, in questo caso. Vivere nel gregge simulando di essere liberi è sintomo di un rapporto con il sé terribilmente alienato, in quanto ciò presuppone di aver accettato come regola un rapporto ingannevole con se stessi. E, dunque, con gli altri. Dunque, si mente sfacciatamente agli altri, quelli che vivono al di fuori delle democrazie liberali, allorché si racconta di voler portare loro la libertà individuale, con qualche gadget in regalo o armi alla mano in caso di rifiuto, mentre si tenta soprattutto di farli entrare nel grande gregge dei consumatori. Ma a cosa serve tale menzogna? La risposta è semplice. Occorre che ciascuno si diriga liberamente verso le merci che il buon sistema di produzione capitalistico produce per lui. «Liberamente» poiché, sotto costrizione, opporrebbe resistenza. L'obbligo permanente di consumare deve essere sempre accompagnato da un discorso di libertà, ovviamente falsa, intesa come mezzo per «fare ciò si vuole». La nostra società sta producendo un nuovo tipo di aggregazione sociale, che implica una strana combinazione di egoismo e socievolezza, cui darei il nome di «ego-gregario». Ciò rimanda al fatto che gli individui vivono separati gli uni dagli altri, soddisfacendo il proprio egoismo, ma rimangono collegati in modo virtuale per essere condotti verso le fonti dell'abbondanza. Le industrie culturali svolgono un ruolo decisivo: la televisione, Internet, una buona parte del cinema commerciale, le reti della telefonia mobile zeppe di offerte «personalizzate»... La televisione è innanzitutto un media domestico, che si è inserito in una famiglia già in crisi. Si è parlato dell'«individualizzazione», della «privatizzazione» e della «pluralizzazione» della famiglia, come conseguenze dell'inedita disarticolazione dei legami coniugali e filiali. Alcuni autori invocano addirittura una sua «deistituzionalizzazione», riferendosi alla caduta delle relazioni di autorità e all'insorgenza di relazioni di uguaglianza. La famiglia cessa di essere un gruppo strutturato da poli e da ruoli, e diventa un semplice raggruppamento funzionale agli interessi economico-affettivi: ognuno può badare ai propri interessi, senza che ciò implichi diritti e doveri specifici per nessuno. Per esempio, ognuno - padre, madre o figlio - va a cercare nel frigorifero il proprio sostentamento, quando dovrà placare la fame prima di tornare nella propria camera davanti alla televisione o al video registratore senza passare per il rito collettivo del pasto. Questi aspetti sono ben noti. Sono meno conosciuti i mutamenti introdotti dall'uso della televisione. Essa cambia infatti i connotati dello spazio domestico, indebolisce ulteriormente il ruolo già ridotto della famiglia reale e crea una specie di famiglia virtuale che si aggiunge a quella precedente. Alcune ricerche nordamericane già da molto tempo lo chiamano il «terzo genitore». Occorre prendere alla lettera tale espressione e non considerarla una semplice metafora, poiché spesso il terzo genitore riveste un ruolo più importante dei primi due. Il nuovo genitore porta con sé, nello spazio ora deistituzionalizzato della vecchia famiglia, la propria famiglia che, per quanto virtuale, non è meno invadente. Questo terzo genitore nei confronti dei figli, che allo stesso tempo è il migliore amico della famiglia per i genitori reali, costituisce dunque il vettore che permette di saldare una nuova famiglia virtuale ai resti della famiglia reale. Questa estensione si è imposta tanto più facilmente in quanto la propagazione della televisione si è diffusa in tutto lo spazio privato: oltre al televisore che troneggia, come una generazione fa al centro del focolare domestico, in soggiorno, ora se ne trovano persino nelle camere dei bambini.Il prolungamento virtuale della famiglia provocato dal terzo genitore è stato scarsamente rilevato dalle scienze sociali, malgrado la letteratura lo avesse colto perfettamente sin dagli inizi del regno televisivo. Nel 1953, nel suo avvincente romanzo Fahreneit 451, lo scrittore americano Ray Bradbury mostrava diversi aspetti del problema, uno solo dei quali è stato in seguito esplorato: una società in cui la televisione ha preso il posto del libro. Ne è stato tratto un film, realizzato da François Truffaut nel 1966: la trama è ambientata in un futuro prossimo in cui la società giudica pericolosi i libri, considerandoli un ostacolo allo sviluppo della persona. Se la questione del rapporto televisione/libro è stata indagata a fondo, scarso peso è stato dato alla seconda questione fondamentale posta dagli avvenimenti: la televisione come nuova famiglia. Tale aspetto è tuttavia assai presente attraverso il ruolo svolto, nel racconto, dalla moglie di Montag, il protagonista. Mildred (Linda, nel film) è totalmente succube del sistema di vita asettico e forzatamente felice instaurato dal «Governo». Ingurgita le pillole necessarie ad evitare ogni rischio d'ansia. E soprattutto vive con la televisione, che ritrova in ogni stanza della casa e che ricopre tutta la parete (il racconto giunge leggermente in anticipo sulla nostra tecnologia, ma fortunatamente ora abbiamo schermi piatti sempre più grandi). Tali «muri parlanti», come li chiama il narratore, rappresentano ciò che ella definisce la sua «famiglia», i cui personaggi virtuali vivono tutti i giorni nel salotto di Mildred. L'ambizione maggiore della protagonista è di arrivare, un giorno, a permettersi un quarto muro-schermo per migliorare... la vita di famiglia. La forza del romanzo sta nell'aver saputo rivelare tale aspetto con molto anticipo: mentre la famiglia reale - con i suoi codici, i suoi luoghi e le sue gerarchie - svaniva lentamente, veniva rimpiazzata da una nuova comunità immensa e volatile, portata dalla televisione. Sin dal 1953 Bradbury aveva compreso che, trascurando i vecchi rapporti sociali reali, i telespettatori cominciavano ad appartenere ad una stessa «famiglia»: improvvisamente con gli stessi «zii» che raccontano le barzellette, le stesse «zie» impertinenti, gli stessi «cugini» che si confidano. I numerosi talk show e gli altri programmi di intrattenimento trasmessi dai canali generalisti forniscono un'intera galleria di ritratti di famiglia: dal timido impenitente allo sbruffone incallito, passando per il brontolone patentato, l'ex-militante riciclato, il professore idiota, l'ecologista della buona cucina, il cinico un po' spaccone, la bionda petulante dall'anatomia modificata, l'eterno idolo dei giovani, il cantastorie della terza età, la star del porno che difende i diritti dell'uomo, l'omosessuale in tutte le sue declinazioni, l'handicappato simpatico, la drag-queen pronta a tutto, l'intellettuale blasonato, l'immigrato volubile, gli attori con le loro manie, gli sportivi dal cuore d'oro, i difensori delle cause perse e persino lo psicoanalista pieno di sottintesi freudo-lacaniani... un centinaio di persone che scorrazza ininterrottamente da un canale all'altro e che valgono oro: quelli che oggi chiamiamo people, inseguiti dai politici in crisi di ascolto. Facendo zapping oggi si incontrano i cugini, gli zii e le zie, e sono pure simpatici, o almeno si suppone che lo siano. La «famiglia» della televisione è chiamata a fornire ciò che le storie di famiglia (piccole e grandi, comiche o tragiche) non danno più. La televisione conforta le persone sole e intrattiene i gruppi in cerca di brio. La «tele» non fornisce solo una «famiglia», ma riunisce in una grande famiglia chi la guarda. Ognuno si confida con tutti gli altri in un ideale di trasparenza dove non si può nascondere più nulla. Prima della fine della trasmissione, i «segreti di famiglia» meglio conservati vengono svelati: nessuno resiste al grande sfogo. Sotto il sole del Grande Fratello, tutti devono dire tutto a tutti. Anche gli adolescenti e i giovani adulti che passano dal confessionale di «Loft Story» o di «Star Academy» (reality show di grande successo in Francia, ndt). La novità di queste trasmissioni è che il telespettatore può comporre la famiglia secondo le sue preferenze - per esempio, pigiando il tasto 1 se vuole sostenere Cyril o 2 se vuole espellere Elodie... Ci si potrebbe chiedere: dopo tutto, cosa c'è di sbagliato nella virtualizzazione dei rapporti familiari? Non fa parte del corso della storia? Dunque non c'è ragione di disprezzare il periodo attuale né, tanto meno, di rimpiangere il tempo che fu. D'altronde, l'epoca in cui si soffocava nella famiglia reale non è poi così lontano. Il celebre «Famiglie, io vi odio» di André Gide, ripreso dagli studenti del 1968, risale a una o due generazioni fa soltanto. Non è quindi più desiderabile una «famiglia» virtuale rispetto ad una vera, visto che quando non se ne può più, basta schiacciare il pulsante senza dover «uccidere il padre» come prima? La risposta è semplice: il telespettatore che ama i personaggi di questa «famiglia» non può essere ricambiato poiché essi, essendo virtuali, non possono che essere del tutto indifferenti. Eccezion fatta, evidentemente, se egli diventa mediatizzabile. In tal caso, si farà entrare l'infelice personaggio «nel» televisore, e gli saranno date sovradimostrazioni d'amore, come per far dimenticare l'intrinseca non-reciprocità del media. Da ciò deriva un'altra domanda, e una nuova risposta. Tutta questa spesa in tecnologia (telecamere, tecnici, palinsesti, satelliti, reti ecc.) e in investimenti diversi (finanziari, libidinosi ecc.) serve solo a sottrarre esistenza reale ai soggetti che guardano la televisione e vi passano tanto tempo? La «famiglia» è forse il regno del puro divertimento pascaliano? Un tempo, esso era concentrato sul re, in quanto quest'ultimo appoggiava tutti nonostante nessuno appoggiasse lui. Così, per sfuggire al forte rischio di malinconia del re, non vi era alternativa che quella di divertire continuamente. Siamo in una situazione simile oggi, con la differenza che tutti, nella democrazia di mercato, dovrebbero essere intrattenuti piacevolmente. Ma divertire il soggetto non basta. Si può fare di meglio. L'esistenza soggettiva dell'altro non preoccupa affatto la «famiglia», perché nulla la preoccupa, in quanto essa stessa è solo un'illusione. Dietro, si nasconde l'unica realtà consistente, l'audience (un'audience fidelizzata dal simulacro), che si misura, si scompone in parti allo scopo di essere venduta e comprata sul mercato dell'industria culturale. Se vi fosse ancora qualcuno così ingenuo da credere che la qualità dei programmi viene tenuta in conto nella programmazione, rimarrebbe forse disilluso già a una prima indagine. Conta solo l'indice di ascolto, poiché solo questo influisce sul vero affare: il prezzo degli spazi pubblicitari. È una regola espressa nel modo seguente da un direttore dei programmi di Tf1, docente alla università Paris Dauphine e alla Sorbona, ad uso degli apprendisti programmatori: «È inutile aumentare i costi per produrre un programma migliore di quello che si trasmette, se si possiede già il maggiore indice d'ascolto». Conosciamo le affermazioni fatte, dapprima in privato, da Patrick Le Lay, presidente di Tf1: «Le nostre trasmissioni hanno la vocazione di rendere [il cervello del telespettatore] disponibile: cioè di divertirlo e rilassarlo per prepararlo tra un messaggio e l'altro. Ciò che vendiamo a Coca-Cola è la disponibilità del tempo del cervello umano. Nulla è più difficile che ottenere tale disponibilità». Ecco, dunque, ciò che dobbiamo comprendere: il modo esatto in cui si ottiene tale disponibilità. Tuttavia, sebbene nessun'altra attività sociale venga misurata tanto quanto il consumo televisivo, tali misure non dicono quasi nulla sulla soggettività del pubblico. Perciò, è bene esplorare la vasta zona d'ombra in cui l'energia psichica è catturata per essere convertita in indice di ascolto. Dunque, prendo per buona l'ipotesi che ciò che permette al pubblico di divenire fedele si spieghi con la funzione di famiglia virtuale sostitutiva svolta dalla televisione. Esaminare tale «famiglia» è indispensabile per chi voglia davvero descrivere e pensare il mondo e le sue tematiche. Ciò permette di penetrarne la natura autentica. Bernard Stiegler, in un vivace libretto sulla televisione e la miseria simbolica, sostiene che «[l'audiovisuale] genera comportamenti gregari e non, contrariamente alla leggenda, comportamenti individuali. Dire che viviamo in una società individualista è una palese menzogna, un imbroglio straordinariamente falso (...) Viviamo, come aveva già capito e anticipato Nietzsche, in una società-gregge». La famiglia in questione sarebbe dunque in realtà un «gregge», che basta guidare laddove esso si abbevera e si può nutrire, cioè verso fonti e risorse ben precise. Non invocherei Friedrich Nietzsche, le cui qualità di vero democratico sono ancora tutte da dimostrare, quanto piuttosto Emmanuel Kant e Alexis de Tocqueville. Kant sviluppa il tema dell'irreggimentazione degli uomini in Che cos'è l'Illuminismo? (1784). Essa avviene, secondo lui, allorché gli uomini rinunciano a pensare per conto loro e si pongono sotto la protezione di «guardiani che, per "bontà", si propongono di vigilare su di loro. Dopo aver prima di tutto istupidito il gregge [Hausvieh, letteralmente «bestiame domestico»], ed essersi assicurati che tali miti creature non osino fare il minimo passo al di fuori del parco in cui sono rinchiuse, essi mostrano loro il pericolo di procedere per proprio conto». Alla lista dei guardiani del gregge proposta da Kant - il cattivo principe, l'ufficiale, il precettore, il prete, che dicono: «Non pensate! Obbedite! Pagate! Credete!» - è bene oggi aggiungere il mercante, assistito dal pubblicitario che ordina al gregge dei consumatori: «Non pensate! Spendete!». Quanto a Tocqueville, è degno di nota che l'eminente pensatore della democrazia abbia prefigurato l'irreggimentazione delle popolazioni quando si interrogava sul tipo di dispotismo che le nazioni democratiche devono temere. La nozione di «gregge» compare appunto nel 1840, quando egli afferma che la passione democratica per l'uguaglianza può «ridurre ogni nazione a non essere altro che un gregge di animali timidi e industriosi» liberati dal «problema di pensare». E in effetti, è vero: nel gregge siamo davvero tutti uguali. Dopo la proletarizzazione degli operai, il capitalismo si è adoperato alla «proletarizzazione dei consumatori». Per assorbire la sovrapproduzione, gli imprenditori hanno sviluppato tecniche di marketing che mirano ad intercettare il desiderio degli individui allo scopo di incitarli a comprare sempre di più. Le teorie di Sigmund Freud sono state messe così a profitto, attraverso l'adattamento al mondo dell'industria realizzato... dal suo nipote americano Edward Bernays. Quest'ultimo sfruttò (dapprima per il produttore di sigarette Philip Morris) le immense possibilità di incitamento al consumo di ciò che suo zio chiamava «l'economia libidinale». Il genio di Bernays è di aver percepito con molto anticipo il profitto che si poteva trarre dalle idee di Freud. In effetti, già nel 1923, in Crystallizing Public Opinion, egli spiega che i governi e gli annunciatori possono «irreggimentare la mente come i militari con il corpo». Questa disciplina può essere imposta grazie «alla flessibilità intrinseca alla natura umana individuale». Bernays indica che «la solitudine fisica è un vero terrore per l'animale gregario [gregarious animal], e che l'irreggimentazione gli provoca un sentimento di sicurezza. Nell'uomo, questo timore della solitudine suscita un desiderio d'identificazione con il gregge e con le sue opinioni». Ma, una volta entrato nel «gregge», l'«animale gregario» desidera sempre esprimere la sua opinione. Di conseguenza, i comunicatori devono «fare appello al suo individualismo [che] accompagna da vicino altri istinti, come l'egotismo». Perciò Bernays raccomanda di parlargli sempre del «suo» desiderio. L'irreggimentazione omogeneizza i comportamenti in modo tale da conquistare mercati e massimizzare il profitto, facendo leva in particolar modo sui media audiovisivi di massa, come la radio e il cinema, e poi la televisione inventata poco dopo, usati per funzionalizzare la dimensione estetica dell'individuo. Si badi che parlare di una società-gregge di consumatori proletarizzati non è affatto incompatibile con il dispiegamento di una cultura dell'egoismo assunta a regola di vita - anzi: tali nozioni si richiamano e si sostengono l'un l'altra. La vita in un gregge virtuale, incessantemente condotto verso fonti provvidenziali piene di sirene e naiadi, presuppone in effetti un egoismo ipertrofico presentato come emancipazione democratica. «Sii sempre più te stesso partecipando sempre più alla famiglia», «Con noi, sarai al centro del sistema» o «al centro della banca, della rete e di tutto ciò che desideri» - potremmo elencare mille pubblicità che utilizzano tale registro, poiché i pubblicitari sono specializzati nell'utilizzare il trucco (grossolano, ma imbattibile) consistente nel lusingare in ogni forma possibile l'egoismo degli individui. Con questo «egoismo gregario» (ricordiamo che «gregario» proviene dal latino gregarius, da grex, gregis, «gregge»), assistiamo senza dubbio a un tipo di «aggregato» nuovo, che va indagato tanto più rapidamente in quanto il suo lato egoista gli impedisce per sempre di scoprirsi esso stesso come essere collettivo. Con queste formazioni ego-gregarie, ci troviamo davanti a mostri generati dalla democrazia. Mostri, poiché tali formazioni sono profondamente antidemocratiche: esse si basano sull'omissione volontaria e sull'artificio ripetuto, sulla vendita delle coscienze, sulla sbruffonata vincente, sul profitto rapido e massimo e, per giunta, contaminano sempre di più il funzionamento democratico reale contribuendo in modo particolare alla «peoplelisation» della politica. La vita nel gregge virtuale è organizzata a partire dalla serializzazione degli individui esposti a molteplici possibilità di soddisfazione di bramosie egoiste, costantemente eccitate e rilanciate. Con «serializzazione», intendo la perdita del sentimento di appartenenza a una (o alla) collettività umana, l'insorgenza di un'anomia che conduce i membri di un gruppo a vivere ciascuno per proprio conto e nell'ostilità nei confronti degli altri. Tale serializzazione contribuisce affinché ciascun membro del gregge virtuale si abbandoni alle offerte di soddisfazione. Per incitarlo, basta l'offerta di guardare, che in teoria può essere declinata o accettata («in teoria», poiché i bambini sono in realtà spesso posti quasi di forza davanti al televisore dai genitori per tenerli tranquilli). Se accetta questa offerta, quasi obbligata, a guardare, il membro del gregge verrà «catturato» poiché guarderà pensando di guardare liberamente la televisione. Proprio allora entra in gioco una delle peculiarità della pulsione scopica: l'inversione del senso dello sguardo grazie al quale non è tanto lo spettatore che guarda la televisione ma, di fatto, la televisione che guarda lo spettatore. Ovviamente, tale ribaltamento deve essere quanto possibile indolore. Tutto parte da un contratto ingannevole secondo cui lo spettatore crede di poter guardare senza essere visto. Di qui nasce il sentimento di onnipotenza egoistico che raggiunge chi crede di «fare ciò che vuole» guardando ciò che desidera guardare. La prova ultima è che può cambiare canale come meglio crede. In realtà, lo spettatore non è onnipotente, tutt'altro: è guardato e addirittura spiato sicuramente più di quanto non guardi. Non dimentichiamo che nessun'altra attività sociale è misurata tanto quanto quella che ha a che fare con la pratica televisiva. Lo stesso fenomeno vale per ognuno di questi nuovi insiemi ego-gregari. In effetti, così come in Internet molti programmi-spia registrano localmente o a distanza lo sguardo dell'internauta attraverso i click del suo mouse, al fine di farne un ritratto automatico che permette di osservarne tutti gli aspetti, numerose scatole nere registrano le minime reazioni del telespettatore. In tal modo, mentre egli guarda viene anche guardato. La televisione è un occhio aperto su ogni membro o gruppo di membri del gregge. Il consueto «Vado a rilassarmi un momento guardando la televisione» è dunque illusorio. Infatti, è l'Altro che vi guarda; ma non solo voi, poiché allo stesso tempo esso guarda tutti i membri del gregge. E ovviamente tutti questi occhi accecati della televisione, diretti verso i membri del gregge virtuale, sono interconnessi. Ciò compone una rete immensa in cui ciascuno è costantemente esposto e guardato da ciò che egli guarda. E direttamente condotto verso le sorgenti in cui l'Altro vuole che egli vada a nutrirsi e dissetarsi con i suoi simili (e sappiamo che, per il presidente-direttore generale della principale rete televisiva francese, che fu considerato il «miglior offerente culturale», si tratta preferibilmente di sorgenti di Coca-Cola). La televisione funziona come una sorta di panopticon di Bentham al contrario. In esso, come ha mostrato Foucault, «[ognuno] è osservato, ma non osserva», in modo da «indurre nel detenuto uno stato cosciente e permanente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere». Qui c'è un'ulteriore perfezionamento (tale è il progresso): nessuno è visto, ma tutti sono guardati da questo grande Altro cieco che essi guardano. In effetti, non si tratta più di osservare ogni membro da un solo punto di vista centrale, ma di indurre ognuno a guardare in certe direzioni precise, quelle che promettono la felicità attraverso la soddisfazione generalizzata e automatica dei bisogni, ovviamente catalogata con cura e... prevedibile.


di Dany-Robert Dufour

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