17/03/08

A COME APICOLTURA, C COME CATTIVI MAESTRI


S’è tenuta ieri a Tesero l’assemblea annuale dell’Associazione Apicoltori Fiemme e Fassa. Noi di quel sodalizio non facciamo più parte. Troppa l’incompatibilità, troppi i punti di vista inconciliabili. Come recentemente pubblicato su questo blog l’apicoltura mondiale sta vivendo una situazione drammatica, forse la più difficile della sua millenaria storia, e la colpa non la si può certo addebitare ai laboriosi imenotteri. Per i non addetti ai lavori e per non addentrarci troppo in questioni tecniche diciamo che, sostanzialmente, le cose sono cominciate a degenerare a partire dalla fine degli Anni 80. Fu allora che il nuovo nemico dell’ape europea (Apis mellifera) l’acaro varroa (Varroa destructor), che nella variante varroa jacobsoni era parassita simbionte dell’ape asiatica (Apis cerana), partendo dall’estrema Asia orientale (Giappone e Filippine), in cui la nostra ape europea (non in grado di convivere con quel parassita) era stata importata per cercare di sostituire, a fini economici, la meno produttiva ape cerana, approdò anche da noi. Fu proprio il sottoscritto a segnalare il primo avvistamento del parassita in Fiemme nel lontano 1988. La “scoperta” nell’ambito apistico locale fece un certo scalpore tanto che ad essa il quotidiano Alto Adige dedicò in cronaca locale addirittura un articoletto. Ma gli apicoltori locali dell’epoca confidando, come spesso accade, nelle magnifiche sorti e progressive della ricerca, naturalmente non si stracciarono le vesti per l’inquietante segnalazione. Di quel parassita però la stampa specializzata nazionale già parlava da qualche anno. Le prime infestazioni si erano infatti già verificate in Friuli nel 1993/94 da dove il parassita era pervenuto dalla Slovenia e non a caso i primi studi italiani sulla varroa furono fatti da ricercatori dell’Università di Udine. Sul campo già si stavano sperimentando possibili rimedi. Ricordo che allora si testarono rimedi naturali come la polvere del rizoma essiccato della felce maschio… Venne poi l’epoca della chimica: il primo presidio immesso sul mercato fu l’Apistan (prodotto ancora in uso). Si spiegò però che la chimica, se non fosse stata usata con cautela e precisione, oltre che inquinare i prodotti dell’alveare, avrebbe potuto provocare la cosiddetta farmaco-resistenza: in pratica una sorta di immunità al prodotto da parte del parassita. Le raccomandazioni, ripetute da allora in poi in occasione di ogni nuova assemblea, caddero nel vuoto sommerse dal cicaleccio degli astanti troppo intenti a parlare di produzioni iperboliche e commerci di miele. Il tempo passò, tra pressappochismi e voglie di gloria imprenditoriale che si propagarono tra gli apicoltori dilettanti locali. Invalse via via sempre più frequentemente non solo la prassi del nomadismo di alta montagna ma anche quello di pianura (pratica questa appannaggio esclusivo, sino allora, di quei pochi semiprofessionisti presenti in valle). Ad ogni annuale ritrovo dei soci anziché magnificare la bellezza, la poesia, la potenza dell’apicoltura stanziale nostrana promuovendola e, per esempio, impegnandosi a tutelarne la flora locale minacciata dalle nuove tecniche di concimazione, la direzione dell’A.A.F.F. (sempre - per così dire - sotto tutela dei semiprofessionisti già citati) cercava – nei fatti – di soffocare e sopire quel sentire, emarginando chi esso proponeva. Probabilmente solo la fortunata coincidenza dell’assenza di covata invernale, che si verifica a determinate altitudini e a particolari condizioni climatiche (fattore questo che permette alle famiglie d’api di beneficiare di una tregua nella proliferazione del parassita) non compromise con anticipo l’apicoltura fiemmese. Erano anni in cui con la varroasi si poteva convivere pur non adempiendo in modo ortodosso alle prescrizioni di profilassi. Ma la diffusione, appunto, della pratica del nomadismo, l’importazione sempre più frequente di famiglie da allevamenti di pianura, gli inverni sempre più bizzarri con sbalzi termici repentini, l’arbitrio nella scelta dei farmaci antiparassitari, il pressappochismo e la mancanza di un severo controllo nei trattamenti con i medesimi, hanno sfiancato anche l’apicoltura di montagna. Mai come in questo momento appare profetico il comandamento da tempo inutilmente ripetuto dal noto apicoltore stanziale di Tesero Ernesto Doliana: Primo, non nuocere! Noi, che con Ernesto condividiamo la stessa filosofia (appresa oltre trent’anni fa dal nostro compianto maestro d’apicoltura Costantino Zanon) di una conduzione degli apiari il più possibile naturale e rispettosa, proprio per il disastro che si sta palesando vieppiù clamoroso nei numeri, non possiamo trattenerci dal criticare invece ciò che a questa nostra visione fa da contraltare. Da quanto abbiamo appreso, l’assemblea di ieri ha confermato le nostre tesi e messo in discussione i comportamenti individuali che noi da vent’anni stiamo inutilmente stigmatizzando. Noi ribadiamo la necessità del rispetto assoluto di questi cinque precetti: contemporaneità nelle operazioni di profilassi, omogeneità dei presidi sanitari, no all’importazione di "pacchi d’api" o famiglie da allevamenti di pianura, no al nomadismo verso la pianura, controlli mirati sugli apiari. Speriamo sia la volta buona e che i cattivi maestri si ravvedano e propugnino finalmente un’apicoltura più attenta e rispettosa dei nostri preziosi imenotteri.


euro

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