09/04/07

INTERVISTA A ERMANNO OLMI


Cammina a fatica, piegato dalla malattia. Evita la folla, gli appuntamenti mondani, i salotti della cultura. Preferisce la pace della casa di Asiago, fra le montagne che ama, tra i suoi ricordi contadini di una civiltà che non c'è più, quella che ha cantato attraverso la cinepresa in film come l'«Albero degli zoccoli». Ma all'ospite che lo va a trovare, seduto attorno al tavolo come un tempo ci si sedeva attorno al focolare e si faceva famiglia, apre lo sguardo sul mistero dell'uomo, sul legame vitale che ha unito generazioni alla natura e che oggi s'è interrotto, sul «fardello di inutilità di cui ci siamo caricati nell'illusione che tutto questo ci portasse felicità e sicurezza, e invece ha svuotato la nostra vita». Le parole cadono lente come la pioggia d'autunno penetra nel terreno. Gli occhi, carichi di una luce intensa, toccano il profondo dell'animo. «Abbiamo perduto il nostro rapporto personale con quello stupore che ogni mistero porta con sé e sollecita l'uomo a pensare», sospira Ermanno Olmi, il grande maestro del cinema, che in questi giorni ha portato nelle sale cinematografiche «Centochiodi», il suo ultimo film, ultimo nel senso che non ce ne saranno proprio altri, come lui stesso ha dichiarato. «Se non troviamo un rapporto con ciò che è vivo attorno a noi, non saremo mai uomini di fede, perché perdiamo il legame col mistero. La nostra sarà solo adesione passiva ad una proposta - filosofica, politica, religiosa - ma non sarà la fede. Sarà ideologia dei valori, ma non valori vissuti». Maestro, perché il benessere economico ha cancellato i valori profondi dell'anima di popolo? «Quando l'uomo dipendeva totalmente dalla natura, la natura imponeva regole di rispetto: di sè, degli altri, del proprio lavoro». «Se non trattavi bene il campicello, non campavi; se non ti armonizzavi alle leggi naturali, sbagliavi raccolto. Era una dipendenza non di sottomissione ma di armonizzazione con la natura. Nel momento in cui si è innestato il virus che permette di sostituirci alla natura, ci siamo come infettati. È diventato possibile produrre ricchezza come surrogato dei valori affettivi e morali. E quindi è subentrata in noi la presunzione di eludere le regole naturali e di produrne di nuove artificiali a seconda delle nostre convenienze ed egoismi. La devastazione è davanti ai nostri occhi». La ricchezza è diventata misura di tutto. «Proprio così. Non importa più essere onesti, capaci, rispettosi. Ciò che conta è la ricchezza che diventa anche la misura della capacità di una persona, anche del politico. Pure l'innamoramento, unica via d'uscita dalla solitudine inaccettabile alle nostre esistenze, si propone attraverso la ricchezza. Un tempo l'innamorato poteva contare solo su se stesso da proporre all'altra. Oggi arriva armato di mille supporti - i soldi, il successo, l'estetica - che diventano il motivo preliminare e fondamentale. Quando vengono meno quelli, viene meno anche la ragione di stare insieme. Ecco perché la coppia è in crisi». Come mai i poveri di ieri hanno dimenticato cosa vuol dire solidarietà e tolleranza? «La prima cosa che fa il ricco che è stato povero, è dividersi dai poveri. Alza barriere per difendere il benessere finalmente raggiunto. Il povero, l'immigrato, il diverso dà fastidio perché contamina la ricchezza che abbiamo accumulato, la mette in discussione. Essergli fratello, come ci richiama il Vangelo, vorrebbe dire riconoscere che il nostro benessere materiale, ciò per cui abbiamo sacrificato la nostra vita, non conta nulla. Perché ciò che conta è qualcuno che ti siede accanto, mentre tu sei gravemente malato o morente, e ti tenga la mano. Solo la malattia, la sofferenza, la morte, ci può scrollare da questa devastazione. La malattia ci libera dai vincoli della ricchezza». Il benessere fa dimenticare anche Dio? «I poveri si aggrappavano a Dio, perché sapevano che tutto dipende da Dio. Oggi l'uomo crede di non averne più bisogno, anche se magari lo frequenta nell'ufficialità delle cerimonie, più per folklore che altro. All'uomo che si è costruito il suo benessere sostituendosi alla natura, che importa di Dio? Pensa di essere lui più bravo di Dio». Lei è uomo di fede. A fianco della sua sedia da regista, c'è sempre la Bibbia. Crede che la fede può essere la bussola all'uomo per ritrovare se stesso? «Certo, ma una fede vissuta che consente di ritrovare lo stupore del mistero, di un rapporto con ciò che è vivo perché è vivo. Dobbiamo recuperare la contemplazione, atto d'amore e presupposto della creatività. E ciò implica un rapporto diverso con le realtà che ci circondano, e quindi anche con l'assoluto». Olmi, come mai la cultura oggi non aiuta l'uomo in questo compito di ritrovare se stesso? «La mia sensazione è che oggi la cultura, e chi la pratica per attività professionali, sia diventata una merce. Può in altri termini essere usata non per armonizzarci alla natura e all'uomo, ma per ottenere profitti. È preoccupata di servire il potere in tutti i suoi aspetti, compreso il successo come conquista vanitosa di potere. Di questa cultura io non so che farmene. A me dà pace solo il pensiero di quelle antiche generazioni che avevano intuito, attraverso una relazione stretta col creato, i riferimenti autentici che sono stella polare della vita e dell'uomo».
p.giovanetti@ladige.it

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