15/05/08

DOBBIAMO ROMPERE L'ASSEDIO DELLA BRUTTEZZA E DELLA STUPIDITA'


Due grandi pericoli minacciano l'armonia e la saggezza della nostra vita, e sono entrambi figli diretti della modernità: bruttezza e stupidità. L'uno attenta al nostro senso del bello, l'altro al nostro desiderio del vero; e dalla loro azione congiunta ne va anche del nostro senso di ciò che è buono, perché la distorsione estetica e quella gnoseologica sfociano inevitabilmente nella distorsione morale. Quando si innamorano delle cose brutte e si lasciano irretire da stupidi maestri, gli uomini finiscono per diventare anche cattivi, perché bellezza, verità e bontà sono il trinomio fondamentale che sempre procede unito. L'attentato al nostro senso estetico si manifesta, fondamentalmente, come scomparsa dei luoghi. Una tale affermazione, a prima vista, potrebbe suonare come paradossale: ma come, non vediamo forse ogni giorno che vengono aperte nuove banche, nuovi supermercati, nuovi centri commerciali, nuove agenzie di viaggi, nuove superstrade, rotatorie e circonvallazioni di scorrimento veloce? Certo: solo che questi non sono affatto luoghi: sono tristi non-luoghi della modernità. Nella piazza del nostro paese, fino a pochi anni fa, c'erano parecchi negozi, vetrine da guardare, movimento di persone, di famiglie con bambini che, il sabato e la domenica, passeggiavano, guardavano, chiacchieravano. Ora ci sono soltanto banche; nessuna vetrina da guardare; nessun passeggio di persone; e, il sabato e la domenica, la piazza si popola in gran parte di immigrati stranieri che sostano sulle panchine pubbliche, formano dei gruppetti presso i telefoni pubblici; è come se dicessero: se voi del luogo abbandonate questi spazi, se vi rinchiudete nelle vostre confortevoli villette con giardino, allora ce ne impadroniamo noi. E quel che è accaduto nella piazza del nostro paese, sta accadendo in mille e mille piazze d'Italia, in mille quartieri, in mille borgate. Banche, aeroporti, supermercati, centri commerciali, sopraelevate stradali e raccordi anulari extra-urbani non sono luoghi, ma spazi anonimi e intercambiabili: potrebbero appartenere a qualsiasi paese o continente, potrebbero essere a Tokyo come a Rio de Janeiro. Qualcuno potrebbe domandare cosa ci sia di terribile in questo fatto, specialmente considerando che il mondo sembra andare nella direzione di una globalizzazione che mette sempre più in relazione milioni d'individui e favorisce la loro conoscenza reciproca. Il fatto è che nessuna conoscenza reciproca reale viene favorita dal non-luogo: in esso è possibile non un incontro, che è un qualcosa che avviene sempre sulla base della propria identità specifica, ma uno sfiorarsi frettoloso e indifferente, un toccarsi, quasi, senza nulla sapere e senza nulla comprendere dell'altro. Come avviene, appunto, in un grattacielo ove vivono migliaia di persone che s'incrociano ogni giorno in ascensore, ma che non sanno nulla le une delle altre; al punto che, se un anziano muore nel suo appartamento, può accadere (ed è accaduto, e accade) che passino addirittura dei mesi prima che qualche coinquilino se ne accorga: magari per quel certo odore, assai poco gradevole, che filtra dalla porta chiusa. Solo allora ci si chiede dove sia finita quella tale persona: si chiama il fabbro e si apre quella porta che mai nessuno, prima, aveva varcato suonando il campanello. Formuliamo pertanto una specie di legge sociologica: solo in un luogo, ossia in uno spazio che possiede un'anima, è possibile la vera socializzazione, quindi solo in un luogo è possibile la ricchezza dell'incontro fra l'io e il tu, fra il mio progetto di vita e il tuo, fra la mia ricerca di senso e la tua. E pazienza se, accanto ai luoghi, crescessero in misura esponenziale solo i non-luoghi; no: essi sono affiancati da un numero crescente di anti-luoghi. Una discoteca, ad esempio, è un anti-luogo: la sua funzione è quella di far sì che gli individui, abbrutendosi dal punto di vista fisico ed emozionale e azzerando scientemente la propria dimensione razionale e affettiva (le due facoltà centrali dell'anima), regrediscano nelle zone più buie e fangose del sub-conscio, e il tutto con l'illusione dell'incontro, della compagnia, del divertimento; mentre regna incontrastata, di fatto la più solipsistica solitudine. "Gli antropologi danno una definizione molto precisa di luogo: si tratta di «uno spazio simbolizzato in cui le identità personale e collettiva prendono forma esprimendosi in attività tipiche di una certa cultura» scrive l'antropologo Marc Augé nel suo volume Non-lieux (1990): Il luogo non ha soltanto una dimensione fisica, esso attribuisce ruoli, identità e senso storico." Il contrario di luogo è il non-luogo, privo di questa significatività. Un non-luogo è uno spazio fisico ma non «un luogo storico carico di significati»; esso è anche uno spazio in cui gli individui perdono temporaneamente la loro identità e ne acquistano una provvisoria: a seconda del contesto si può essere viaggiatore, cliente ma non il signor Tal dei Tali. Nel non-luogo - che può essere una stazione, un aeroporto, un supermercato e qualche volta anche una scuola - si è di passaggio, ci si sente omologati e spersonalizzati. Ci si sente più numero che persona. I luoghi invece li sentiamo nostri, ci soggiorniamo, ci danno identità." (Anna Oliverio Ferraris, - Albertina Oliverio, Il mondo delle scienze sociali, Bologna, Zanichelli, 2000, p. 221). Il non-luogo, pertanto, è l'esteriorizzazione di una situazione di radicale inautenticità in cui si è ridotto a vivere l'uomo moderno: e così come il suo spazio fisico si è degradato a non-luogo, la lingua che egli parla è diventata una non-lingua (ad es., l'italiano della pubblicità televisiva); i giocattoli con cui giocano i nostri bambini sono diventati non-giocattoli (oggetti tecnologici o, comunque, standardizzati che annullano la funzione creativa di chi li adopera), le nostre parole sono diventate non-parole (si parla di tutto ma, in realtà, di nulla: e la televisione dà il cattivo esempio), i nostri pensieri sono diventati non-pensieri (si ripetono formulette e si crede di aver fatto un ragionamento: e qui il cattivo esempio vien proprio dalla scuola), i nostri sentimenti sono diventati non-sentimenti (ci si "sente" innamorati o si "sente" di detestare qualcuno, ma in realtà si è sfiorati da emozioni epidermiche e passeggere, tutto come in quel non-luogo per eccellenza che è la "casa" del Grande Fratello). Infine, horribile dictu ma inesorabile conseguenza di quanto abbiamo fin qui sostenuto, le persone regrediscono allo stato di fantocci: oh, fantocci gradevoli, abbronzati e palestrati, sempre giovani, senza rughe e con tanti capelli in testa (indovina di chi stiamo parlando); ma irrimediabilmente fantocci, senza possibilità di redenzione, perché inconsapevoli di essere fantocci, e anzi convintissimi di essere il non-plus-ultra dell'autenticità. Il pericolo è proprio questo: che tutto il nostro senso del giudizio venga sovvertito; che noi, ad esempio, finiamo per trovare bella la bruttezza del non luogo; interessante la chiacchiera della non-parola; profonda la banalità del non-pensiero. Forse qualcuno ricorderà quella pubblicità televisiva in cui si vedeva un ometto che, spaventato dall'aggressività del mondo "esterno", si rifugiava in un rassicurante supermercato, da cui decideva di non uscire mai più (una versione moderna del Barone rampante?), si sposava, metteva al mondo dei figli, li cresceva e li aiutava a fare i compiti, il tutto sempre entro le pareti rassicuranti del supermercato. Demenziale metafora di quel ritorno all'utero materno che, nel clima impazzito della modernità consumista, svolge la funzione di surrogato di quel senso di sicurezza, di accoglienza e di benessere da cui siamo stati espropriati proprio dalla pianificazione politica del non-luogo ormai dilagante. Allo stesso modo, quei genitori che scoraggiano l'uso del dialetto da parte dei propri figli e si rallegrano di vederli parlare solo e unicamente in buon italiano, per ragioni di prestigio sociale, non si rendono conto di essere portatori di un disvalore che si traduce nella partecipazione a un vero e proprio genocidio culturale. È stato calcolato che, dei 7.000 idiomi attualmente parlati nel mondo, metà sono ormai in via di estinzione (dati di National Geographic): il che significa che ogni due settimane una lingua scompare dalla faccia della terra. Una lingua, cioè una cosa viva e vera: la più viva e la più vera che l'essere umano sia in grado di esprimere. E ciò avviene col sorriso sulle labbra, in quanto siamo portati a interpretare l'uniformità linguistica - come ogni altro genere di uniformità - come una specie di benedizione del Cielo, un passo avanti sulla via del "progresso" e della "modernità". Certo, forse qualche lacrimuccia di coccodrillo siamo anche disposti a versarla per questa ecatombe; ma, si sa, sono i costi della modernità: come era fatale che scomparissero maniscalchi e calderai, arrotini ed ombrellai. Che volete farci, è il prezzo del progresso: chi si ferma è perduto, bisogna sempre andare avanti. Non importa verso dove; riflettere sui fini esorbita dagli orizzonti concettuali (invero microcefali) di questo sedicente sviluppo; alla ragione strumentale basta aver chiaro il rapporto tra mezzi e fini, basta sapere che la linea più breve che unisce due punti è una retta. E qui arriviamo al secondo aspetto che intendiamo discutere: il dilagare, nella società odierna, di una incontenibile, straripante ondata di stupidità. Non si tratta di una impressione puramente epidermica, né di uno sfogo generico, ma di una dimensione antropologica i cui meccanismi sono stati lucidamente analizzati, più di mezzo secolo fa, da un filosofo del peso di José Ortega y Gasset nel suo ormai classico La rebelión de las masas. A suo parere, già nell'ultimo decennio del XIX secolo si era affermata, in Occidente, l'egemonia culturale di una nuova classe di intellettuali, gli "scienziati mediocri": esperti di un campo sempre più limitato del sapere, ma che, dall'alto (o dal basso) della loro suprema ignoranza di tutto il resto - per non parlare della loro assoluta incapacità di riflettere sulle basi teoriche della loro stessa disciplina - s'impancano a giudici infallibili di ogni ramo dello scibile umano e trinciano giudizi perentori a destra e a manca, con la stessa arrogante sicumera che deriva loro dalla forma mentis dello specialista, ci si perdoni il bisticcio linguistico, super-specializzato. E sottolineava, giustamente, che questa figura di scienziato "mediocre" era una assoluta novità nella storia; o, meglio, che era un'assoluta novità il peso sociale e culturale che una tale figura, sempre esistita e anche utile nel suo ristretto ambito di competenza, aveva strappato e usurpato nella società moderna."Un tipo di scienziato senza esempio nella storia: un uomo che, di tutto ciò che occorre sapere per essere una persona intelligente, conosce soltanto una scienza determinata, e anche di questa conosce bene solo la piccola parte di cui è investigatore attivo. Egli arriva a proclamare virtù questa sua carenza d'informazione per quanto rimane fuori dall'angusto paesaggio che coltiva specificamente. "Ortega y Gasset aveva individuato nell'ipertrofia e nella sopravvalutazione dello specialismo la radice di questa barbarie e parlava, appunto, di "barbarie dello specialismo". Un biologo molecolare che s'impanchi a predicatore di verità nel campo della mitologia e della religione, della storia e della paleontologia, della teologia e della filosofia, è un barbaro che agisce da barbaro e che imbarbarisce la cultura: specialmente se trova un pubblico che lo stia ad ascoltare e, magari, dei microfoni televisivi che amplifichino oltre misura le madornali sciocchezze che snocciola senz'ombra di rossore, anzi applaudito e riverito. Maurizio Blondet, in un recente intervento dal titolo significativo Il cretinismo scientifico, ha illustrato con mordace acutezza quanto il male sia, oggi, diffuso; e, anche se - personalmente - non condividiamo l'asprezza dei toni da lui usati in chiave di polemica personale, non possiamo non dargli pienamente ragione per quanto riguarda la descrizione di un fenomeno socio-culturale che si va allargando a macchia d'olio e che bisogna essere assai miopi o in cattiva fede per non vedere, anzi per non sentirsene gravemente angustiati e doverosamente preoccupati. Che la modernità del terzo millennio sia destinata al trionfo del cretinismo scientifico? Vi sono segnali inquietanti che le cose stiano procedendo proprio in questa direzione, per cui urge correre ai ripari finché siamo in tempo, e reagire a una situazione che rischia di sfuggirci completamente di mano. Il mondo non può e non deve essere governato dai mediocri, dagli stupidi, dai cretini; la figura del tecnico è necessaria, ma deve stare nell'ambito che le compete, ossia di esecutore di una progettualità che non è certo lui a stabilire, ma la parte pensante della società. Ora, pensare significa interrogarsi sui fini e non valutare le strategie per ottimizzare il risultato; mentre è quest'ultima cosa che sta accadendo oggi: si scambia l'ottimizzazione del rapporto mezzi-fini per la l'esercizio della razionalità tout-court. Guai a noi, se non sapremo elaborare una progettualità complessiva che ci consenta di rimettere scienza e tecnica al servizio dell'uomo; se non torneremo alla saggezza di Platone e Aristotele, che vedevano nel Logos strumentale una delle dimensioni del pensiero umano, ma non certo l'unica né la più alta; se non ci ricorderemo che l'affettività, nel senso più ampio del termine, è alla radice della nostra aspirazione a un rapporto armonioso con noi stessi e con l'altro. Guai a noi se venderemo per un piatto di lenticchie (cioè per un apparente benessere puramente materiale) la felice intuizione che solo valorizzando tutte le più nobili facoltà umane avremo un reale progresso e che, pertanto, dobbiamo consentire ad esse di esprimersi liberamente, a cominciare dalla creatività. E cominciamo, se possibile, col lasciare che i nostri bambini giochino in maniera semplice e immediata, senza falsi giocattoli che "fanno tutto da sé"; ricordandoci, piuttosto, di raccontar loro una bella fiaba, prima del bacio della buonanotte! Guai a noi se, come effetto della bruttezza e della stupidità del non-luogo, della non-lingua, della non-parola, dei non-pensieri e perfino dei non-sentimenti (vero e proprio Paese di Alice allo specchio), cominceremo a innamorarci di una forma di vita totalmente inautentica, totalmente adulterata: come i cibi estrogenati e colorati che quotidianamente ingurgitiamo, come la chiacchiera insulsa e logorroica con la quale ci stordiamo ogni giorno, forse per non udire il grido di disperazione che sale dal fondo della nostra anima.

Francesco Lamendola

Nessun commento:

Posta un commento

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

MINU
Foto di Sabina

Archivio blog