02/11/08

IL RITORNO DEL PRINCIPE


Lo stato democratico di diritto è una sofisticatissima creazione delle culture della modernità – illuminismo e liberalismo – e la sua sopravvivenza è legata alla vitalità di queste culture. Si tratta di culture che in Italia sono sempre state di vita grama e a continuo rischio perché sono state importate dall’estero solo negli ultimi tre secoli e sono rimaste appannaggio di ristrette élite, di coloro che hanno potuto apprenderle – a volte assimilandole malamente – sui banchi delle scuole superiori. Si tratta di fragili creature artificiali che non sono mai divenute culture di massa. Le nostre culture autoctone, millenarie, quelle che non si apprendono sui banchi di scuola, ma si succhiano con il latte fin dai primi giorni e che costituiscono la vera legge della terra del nostro popolo sono state altre. Quali? In primo luogo la cultura cattolica nella sua versione controriformista, antirisorgimentale, antiliberale e anticonciliare, i cui frutti sono stati l’obbedienza acritica ai superiori (perinde ac cadaver, obbedire sino alla morte, era il motto dei Gesuiti), il conformismo culturale, la doppia morale dei vizi privati e delle pubbliche virtù, l’appiattimento dell’etica solo sulla morale sessuale, il relativismo etico che consente a ciascuno – vittime e carnefici, dittatori e oppressori, mafiosi e antimafiosi – di avere il proprio Dio senza sentirsi in contraddizione con i precetti evangelici, la surrogazione della cultura dei diritti con quella dell’elemosina e infine il machiavellismo. Il machiavellismo dunque non è una creatura della cultura laica? L’etica del risultato – il fine che giustifica i mezzi – , contrapposta all’etica della responsabilità propria dell’epoca moderna, è una teorizzazione della cultura laica, ma fin dai tempi dell’imperatore Costantino è sempre stata segretamente praticata da una certa cultura cattolica. Nessun fine è infatti superiore a quello della salvezza dell’anima e della chiesa. Per conseguire tale fine assoluto e superiore, tutti i mezzi sono stati ritenuti giustificabili: dalle guerre sante, ai roghi dell’inquisizione, alle scomuniche, all’alleanza, se necessaria, con dittatori sanguinari.
Del resto non è forse un caso che Cesare Borgia fosse figlio del papa Alessandro VI. Questo protomachiavellismo non ha risparmiato neanche la cultura di sinistra. Il togliattismo è stata una variante del machiavellismo che giunge sino ai nostri giorni. Con il suo carico pesante, in politica, della teoria del “doppio binario”. Per secoli, fino a tutto il Novecento questa declinazione della cultura cattolica è stata per milioni di italiani, soprattutto quelli dei ceti più poveri, l’unica cultura possibile, l’unica chiave di lettura del mondo, l’unica gerarchia di valori. Questa stessa cultura ha formato gran parte della classe dirigente italiana. Ancora fino agli inizi del Novecento la chiesa cattolica aveva una posizione di quasi monopolio nella scuola pubblica e sino agli anni Sessanta le scuole cattoliche sono state scuole di formazione politica per tanti. La controriforma poi non è stata solo un movimento religioso, ma uno straordinario evento politico culturale che ha anticipato in parte l’unità nazionale sotto il profilo culturale. Quando nel 1860 si forma lo Stato nazionale, gli italiani erano già fatti, nel senso che dal Nord al Sud, tranne poche eccezioni, la cultura cattolica controriformista costituiva il loro comune denominatore e collante culturale. Non vorrei essere equivocato. Ho un grande rispetto per la chiesa cattolica e per le sue millenarie tradizioni culturali. Ma condivido l’opinione di quanti ritengono che dopo l’imperatore Diocleziano, che perseguitava i cristiani, il peggior nemico del cristianesimo fu l’imperatore Costantino, che trasformò la religione in un affare di stato e in un instrumentum regni.
Lo scrittore inglese cattolico Chersterton ha scritto che da allora il Dio che stava finalmente sollevandosi dalla Terra verso il cielo fu catturato a mezza via e cacciato dentro un mucchio di istituzioni e simboli del potere: dalle spade dei conquistatori alle cappe dei re alle mitre dei vescovi. Mi pare innegabile, poi, che dopo la chiusura della parentesi del Concilio Vaticano II e dopo che sono state messe a tacere tutte le cattedre della teologia progressista – dalla teologia della liberazione a quella femminile – il pensiero cattolico democratico progressista stia attraversando una grave crisi. Quali sono le altre culture autoctone di massa? La cultura del familismo amorale, della famiglia come unica patria, come unica sede della morale. Oltre questo angusto orizzonte personale esistono le colonne d’Ercole di un collettivo superindividuale che viene vissuto come terra di nessuno o, peggio, come mondo straniero di cui diffidare o con il quale intessere rapporti di mero scambio all’insegna dell’opportunismo e del tornaconto personale. In un suo romanzo Sciascia fa dire a uno dei suoi personaggi che non rubare alla collettività equivale a rubare alla propria famiglia. È di questo che stiamo parlando? Si tratta di una sintesi straordinaria dell’immoralità pubblica di una certa morale familistica. Riecheggiano nelle orecchie le giustificazioni dei tanti che, colti con le mani nel sacco, sono soliti giustificarsi con frasi del tipo: “non l’ho fatto per me ma per la mia famiglia, per la mia corrente, per il mio partito, per la mia azienda, eccetera”. La cultura familistico-tribale si è declinata in Italia dal piccolo al grande in tutte le possibili varianti: quella partitica, quella correntizia, quella aziendale, quella lobbistica, quella piduista, quella mafiosa e quella territoriale sino alle più recenti manifestazioni di un federalismo non solidale all’insegna della rivendicazione di una superiore razza celtica-padana. Basti considerare che in Italia, per attribuire valore a una qualsiasi collettività lavorativa anche di un ufficio pubblico, si suol dire: “Siamo come una grande famiglia”. Non si riesce neppure a immaginare un criterio di valore alternativo o superiore a quello familistico. In questo i mafiosi sono cittadini modello. Fra le carte di Salvatore Lo Piccolo, al momento dell’arresto, c’è una lettera di un mafioso che scrive a un altro: “Cerca di tenerti pulito… perché non c’è nulla di più bello che tornare a casa e farsi ballare sulla pancia dai propri figli…” Nella mia esperienza lavorativa ho potuto constatare che i mafiosi quanto a morale e fedeltà familiare sono dei campioni nazionali. Mariti fedeli, padri affettuosissimi, straordinari parenti. Ma oltre il clan esiste solo un mondo e un’umanità privi di valore. Per attribuire valore all’estraneo devi assimilarlo alla famiglia mediante cerimonie di comparaggio e riti di affiliazione. Se per un attimo immaginiamo la scala dei valori come una scala cromatica che dal nero assoluto dell’estremizzazione mafiosa giunge sino al bianco della normale affettività familiare stemperandosi lungo tutti i toni grigi intermedi, potremmo dire che, tranne poche eccezioni, la maggior parte degli italiani può collocarsi in un punto di questa scala cromatica. Una minoranza si muove nel nero assoluto, una buona parte si muove nella scala dei grigi con il pericolo di sconfinare nel nero, e un’altra parte si muove nel bianco.
Proseguendo nell’inventario delle culture autoctone, inserirei il machiavellismo deteriore, non riscattato cioè neanche da fini superiori di interesse collettivo, ma finalizzato solo al conseguimento del proprio particolare elevato a fine assoluto. Certamente mi sfuggono altre culture autoctone; lascio ai lettori che dovessero condividere questa mia opinione di completarne l’inventario.
Quel che mi preme invece sottoporre a riflessione è che, a mio parere, il fascismo fu fenomeno di massa perché costituì una sintesi micidiale di questi e altri ingrediente culturali, attribuendo, veste politica a una preesistente dimensione prepolitica.
Certi intellettuali ebbero enormi responsabilità anche nel giudizio sul fascismo.
Benedetto Croce definì il fascismo come una parentesi nella storia nazionale. Uno “smarrimento della coscienza”, “una malattia morale” conseguente alla Grande guerra, che determinò una deviazione aberrante del continuum del processo storico iniziato con l’Unità d’Italia.
Il “prima” e il “dopo” invece – secondo questa impostazione – rifletterebbero e custodirebbero la vera “normale” identità culturale nazionale. Identità della quale il Risorgimento prima, la Resistenza e la Costituzione del 1948 poi, sarebbero invece il distillato più autentico e maturo. Anche alla luce dei fatti più recenti, prende invece sempre più corpo l’ipotesi che probabilmente le cose stiano esattamente al contrario. (...)

Saverio Lodato – Roberto Scarpinato

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