15/09/08

11/9 E WARFARE: IL CAPOLAVORO DI BUSH

Possiamo ora valutare in tutta la sua portata l’11 settembre, una scelta difficile per l’amministrazione USA. Bisognava fronteggiare una grave recessione iniziata sei mesi prima, a marzo del 2001 (fu resa nota ufficialmente solo a novembre). Grave al punto che l’Economist scriveva che “i profitti sono al livello più basso da mezzo secolo a questa parte, e la capacità produttiva è per il 25% inutilizzata come negli anni ’30”. Dopo il crollo del Nasdaq, Greenspan aveva tagliato più volte i tassi di interesse ma l’economia non si era ripresa. Rivelatosi inefficace ogni altro intervento, Morgan Stanley scriveva alle 8,00 dell’11 settembre che “solo un atto di guerra” poteva salvare il dollaro e l’economia. Alle 9,00 crollavano le Torri: cominciava così la gestione militare del ciclo economico, questa volta nelle mani dello staff dei Bush, che avrebbe condotto il capitalismo USA rapidamente fuori dalla crisi confermando, ancora una volta, la sua efficacia.
Prima di tutto perché l’annuncio della guerra e dell’enorme spesa militare ha bloccato il precipitare della Borsa che stava per crollare, ridando vigore alla domanda e riavviando la ripresa. Poi perché si è ottenuto questo risultato non con una guerra mondiale dopo un decennio di rovinosa depressione, come era avvenuto dopo il ’29, ma con un numero di morti trascurabile se paragonato a quello delle guerre mondiali, e dopo solo sei mesi di recessione.
Insomma l’11 settembre, rimossa la retorica della versione ufficiale si rivela in realtà come il capolavoro dei Bush.
Peccato però che non possano vantarsene.
Perché è inconfessabile non solo l’operazione in sé, è inconfessabile l’instabilità del capitalismo, inconfessabili sono le interne contraddizioni di un modo di produzione irrazionale che tende costantemente alla depressione, che può ridurre sul lastrico milioni di persone. È inconfessabile dunque che il vero nemico che rode dall’interno l’impero sia la crisi economica.
Per questo è necessario che le crisi siano addebitate non a cause endogene, ma alle minacce di nemici esterni. I media e i politici hanno perciò ripetuto per anni che l’11 settembre era stato la causa della crisi economica.
Mentre in realtà ne era il rimedio. Naturalmente gli addetti ai lavori sapevano come stavano le cose. Per esempio l’Economist del 20 ottobre 2001 scriveva che la crisi “non deriva dal terrorismo, ma dagli squilibri economici e finanziari dei tardi anni Novanta”. E Lester Thurow dichiarava sul Il Sole 24 ore del 24 ottobre 2001 che il “99,9% dell’attuale crisi economica era già in corso, anche se ora tutti danno la colpa al terrorismo”.
La crisi economica dunque è sempre stata e continua ad essere il vero inconfessabile nemico. Ma per valutare appieno l’efficacia e l’importanza che ha avuto l’11 settembre per il capitalismo USA, bisogna compararlo con i modi in cui venivano affrontate in precedenza queste crisi.
Nell’800 le crisi i sovrapproduzione erano devastanti ed estese. Venivano superate quando i fallimenti una buona parte dei capitali, permettendo ai capitali superstiti di ritrovare un mercato. Ma perché, invece di attendere la distruzione dei propri, non andare a distruggere i capitali degli altri, prendendo loro i mercati, le colonie, le risorse? È quello che avvenne con la prima guerra mondiale. “Il ciclo economico,” ha scritto Paul Mattick “era diventato un ciclo di guerre mondiali.” Ma non si può fare una guerra mondiale tutte le volte che torna la crisi e nel ’29 non fu possibile. Tuttavia negli anni ’30 si sperimentò un rimedio già noto nell’800. Rosa Luxemburg aveva dato la prima formulazione teoricamente compiuta della funzione economica del militarismo. In un saggio del 1898, con preveggente chiarezza, la descriveva come una forza “impulsiva, propria, meccanica, destinata a rapida crescita”. In polemica con Bernstein dimostrava che le spese militari erano indispensabili al capitalismo, perché costituivano un mercato addizionale per assicurare alla produzione una nuova domanda più regolare, con un ritmo di sviluppo costante. Spese che erano promosse dagli stessi capitalisti tramite l’apparato parlamentare e la manipolazione operata dalla stampa. Un tema ripreso da Gramsci che nel ’17 denunciava “le trame dei seminatori di panico stipendiati dall’industria bellica che dalla guerra ci guadagna”. Oggi lo chiamerebbero complottiamo: si trattava invece di una lucida analisi del militarismo che ha dominato il ’900, keynesismo militare prima che lord Keynes concedesse questo nome.
Lo stato insomma impedisce la distruzione di capitali indebitandosi col settore privato, ne assorbe la sovrapproduzione. Negli anni ’30, dopo qualche esperienza di spesa pubblica in Svezia, furono in particolare le spese militari a favorire la ripresa in Gran Bretagna ma soprattutto nella Germania nazista, quando nel 1934 lo stato emise le cambiali Mefo, che finanziarono il riarmo e rilanciarono in poco tempo l’economia: scadevano nel ’39, ma nel ’39 Hitler entrò in guerra.
Gli USA invece privilegiarono la spesa pubblica civile che si rivelò meno efficace di quella militare. Infatti non riuscirono a superare la depressione fin quando la spesa militare per la seconda guerra mondiale rilanciò l’economia già nei primi mesi di guerra. E questa fu un’esperienza che ha segnato profondamente la successiva gestione dell’economia: entrati in guerra nel 1941, tra guerre calde e fredde non ne sono più usciti. Gli USA insomma sperimentarono che la ripresa avviene già con la spesa pubblica militare, cioè prima della vittoria, prima di aver distrutto i capitali degli altri, prima di aver sottratto loro i mercati.
Per questo, per fronteggiare una sovrapproduzione permanente, gli Stati Uniti hanno organizzato la guerra permanente, per giustificare un flusso di spese militari permanente. Che assicura un ulteriore importante vantaggio, perché le armi così prodotte consentono di dominare i mercati, le risorse, i campi di investimento.
Questa capacità militare senza precedenti crea tuttavia non pochi problemi ai media, costantemente impegnati a costruire nemici dalle capacità apocalittiche, perché la guerra permanente, cela va sans dire, deve durare e quindi non deve essere vinta.
La Guerra Fredda è durata quarant’anni e quando è finita il russo Arbatov ha osservato che “l’atto più ostile contro gli USA è stato sottrargli il nemico”. Ma “qualcuno dovrà pur fare il nemico” ha avvertito Henry Kissinger. Si annuncia così la “guerra globale al terrore” che secondo il Pentagono dovrà durare venticinque anni. “L’anticomunismo ci era piaciuto? L’antislamismo vi entusiasmerà” ha concluso su Le Monde diplomatique Ignacio Ramonet.

Enzo Modugno tratto da “ZERO – perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso

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