Giovedì
18 settembre, ore 17,45 circa. Il pomeriggio volge al termine. Dopo
una giornata trascorsa in gran parte col sarchio in mano e con la
schiena che reclama uno stop decido di caricare casse e attrezzi sul
motocarro. Quest'anno i lavori in campagna tra un piovasco e una
sbalconata di sole si fanno necessariamente a strüfi
e bütoni.
Oggi l'acqua ha dato tregua e ne ho approfittato, domani va' a
sapere... Sto caricando l’ultimo cestarèl di patate sull’ape
quando sento alle mie spalle il sopraggiungere di un’auto. Mi giro
e vedo un imponente fuoristrada grigio che sta sistemandosi dietro la
masiera
lontana venti metri dal baito
de Šaltojo.
Ne scende un uomo che sulle prime non riconosco. Apre il portellone posteriore dell’auto ed estrae l'armamentario. A quel punto l’interrogativo iniziale sul chi sia mi si disvela compiutamente. Tranne la barba nera, il resto è un tripudio di verde marcio: berretto, giacca, pantaloni, astuccio del fucile, binocolo, refòn. C’è però qualcosa di inusuale e stonato nel suo vestiario. Chissà perché non calza i classici scarponi ma un paio di stivali di gomma, anch’essi verdi. Il carico è pesante ma l'uomo non s'affatica molto. Percorre soltanto i venti metri che separano l’auto dalla baita e vi entra. Ben immaginando il seguito, la rabbia comincia a impadronirsi di me. E quando qualche istante dopo vedo spuntare dal sottotetto del piccolo rifugio di campagna lo schioppo ancorato ad un treppiede, esplode in tutta la sua virulenza.
Accendo l’ape, salgo attraverso la strada interpoderale in direzione del puntamento dell’arma clacsonando all’impazzata. L'intenzione è quella di spaventare quanto più possibile le eventuali ignare vittime che di li a poco, per ragioni vitali, sarebbero potute uscire dal bosco allo scoperto. Smonto poi dal motocarro e comincio a far baccano spostandomi a piedi avanti e indietro sul fronte di tiro, mentre il tapino immagino stia osservando dal baito la scena col binocolo. Mi rendo ben conto che l'azione sortirà minimi e soltanto temporanei effetti, ma non riesco a subire inerte quell'atto vandalico e proditorio in fieri. Dopo un po’ rimonto sull'ape e ridiscendo la strada intenzionato ad affrontare direttamente l’ “animale” armato. Vedo il suo fucile da vicino, una carabina con cannocchiale montato sulla canna. Riconosco l’uomo, un tipo sui trent’anni o poco più, con una faccia da tagliagole dell’Isis, col quale in vita mia mai avevo scambiato parola. Lo provoco dicendogli che nel baito con l’arma carica non avrebbe potuto entrarci. Annuendo ed evitando il mio sguardo risponde laconico: “’nformete!” Lo osservo e sebbene la tensione tra me e lui sia al parossismo non dà alcun segno apparente d’emozione: uno sgherro fatto e finito. Gli dico ancora: “…e ti te saries ‘n amante de la natura?” “Mi no!” replica secco. Nonostante io continui a punzecchiarlo, sperando di spazientirlo e farlo andar via lui sembra non sentire neppure le mie parole e imperterrito continua a sbinocolare l’orizzonte. Azzardo ancora un: “varda, varda, ampò non gh’è pü niente”. Ma non riesco a cavargli più una parola di bocca. Lo hanno ammaestrato per bene, penso. Ma che razza di educazione avrà ricevuto in casa un gaglioffo del genere… La sera sta avanzando, ma non abbastanza velocemente per garantire la sopravvivenza sino all’indomani degli inermi abitatori del bosco. Passa l’ultimo trattore dei Petoli carico di balle di fieno bagnato. Si ferma, scambio due parole con l’Elio che non s’accorge della presenza dell’intruso all’interno del rifugio. Lo saluto e se ne va. Poi, siccome l’impasse mi sta fregando e l’unica idea che comincia a turbinarmi in mente, se messa in pratica, mi manderebbe all’ergastolo, approfitto di quel fugace calo di tensione, rimonto sull’ape e me ne vado anch'io. Dopo cena, ancora bollente di rabbia, chiedo informazioni sull’uomo. Dall’identikit che sottopongo ad amici lo sgherro risulta essere tale F.P. di Tesero. Noto nell’ambiente venatorio locale per precedenti azioni di bracconaggio. Allora intuisco il perché di quel suo inutile mimetismo, dato che a 400 metri di distanza, nascosto nella baita, le sue vittime non lo avrebbero notato neanche se si fosse vestito da arlecchino. No, l’abbigliamento mimetico serviva soltanto per sfuggire all’osservazione di eventuali guardacaccia appostati in zona durante le necessarie operazioni di recupero. Ecco, sì. Dev'essere questa la ragione. Bastardo!
Ne scende un uomo che sulle prime non riconosco. Apre il portellone posteriore dell’auto ed estrae l'armamentario. A quel punto l’interrogativo iniziale sul chi sia mi si disvela compiutamente. Tranne la barba nera, il resto è un tripudio di verde marcio: berretto, giacca, pantaloni, astuccio del fucile, binocolo, refòn. C’è però qualcosa di inusuale e stonato nel suo vestiario. Chissà perché non calza i classici scarponi ma un paio di stivali di gomma, anch’essi verdi. Il carico è pesante ma l'uomo non s'affatica molto. Percorre soltanto i venti metri che separano l’auto dalla baita e vi entra. Ben immaginando il seguito, la rabbia comincia a impadronirsi di me. E quando qualche istante dopo vedo spuntare dal sottotetto del piccolo rifugio di campagna lo schioppo ancorato ad un treppiede, esplode in tutta la sua virulenza.
Accendo l’ape, salgo attraverso la strada interpoderale in direzione del puntamento dell’arma clacsonando all’impazzata. L'intenzione è quella di spaventare quanto più possibile le eventuali ignare vittime che di li a poco, per ragioni vitali, sarebbero potute uscire dal bosco allo scoperto. Smonto poi dal motocarro e comincio a far baccano spostandomi a piedi avanti e indietro sul fronte di tiro, mentre il tapino immagino stia osservando dal baito la scena col binocolo. Mi rendo ben conto che l'azione sortirà minimi e soltanto temporanei effetti, ma non riesco a subire inerte quell'atto vandalico e proditorio in fieri. Dopo un po’ rimonto sull'ape e ridiscendo la strada intenzionato ad affrontare direttamente l’ “animale” armato. Vedo il suo fucile da vicino, una carabina con cannocchiale montato sulla canna. Riconosco l’uomo, un tipo sui trent’anni o poco più, con una faccia da tagliagole dell’Isis, col quale in vita mia mai avevo scambiato parola. Lo provoco dicendogli che nel baito con l’arma carica non avrebbe potuto entrarci. Annuendo ed evitando il mio sguardo risponde laconico: “’nformete!” Lo osservo e sebbene la tensione tra me e lui sia al parossismo non dà alcun segno apparente d’emozione: uno sgherro fatto e finito. Gli dico ancora: “…e ti te saries ‘n amante de la natura?” “Mi no!” replica secco. Nonostante io continui a punzecchiarlo, sperando di spazientirlo e farlo andar via lui sembra non sentire neppure le mie parole e imperterrito continua a sbinocolare l’orizzonte. Azzardo ancora un: “varda, varda, ampò non gh’è pü niente”. Ma non riesco a cavargli più una parola di bocca. Lo hanno ammaestrato per bene, penso. Ma che razza di educazione avrà ricevuto in casa un gaglioffo del genere… La sera sta avanzando, ma non abbastanza velocemente per garantire la sopravvivenza sino all’indomani degli inermi abitatori del bosco. Passa l’ultimo trattore dei Petoli carico di balle di fieno bagnato. Si ferma, scambio due parole con l’Elio che non s’accorge della presenza dell’intruso all’interno del rifugio. Lo saluto e se ne va. Poi, siccome l’impasse mi sta fregando e l’unica idea che comincia a turbinarmi in mente, se messa in pratica, mi manderebbe all’ergastolo, approfitto di quel fugace calo di tensione, rimonto sull’ape e me ne vado anch'io. Dopo cena, ancora bollente di rabbia, chiedo informazioni sull’uomo. Dall’identikit che sottopongo ad amici lo sgherro risulta essere tale F.P. di Tesero. Noto nell’ambiente venatorio locale per precedenti azioni di bracconaggio. Allora intuisco il perché di quel suo inutile mimetismo, dato che a 400 metri di distanza, nascosto nella baita, le sue vittime non lo avrebbero notato neanche se si fosse vestito da arlecchino. No, l’abbigliamento mimetico serviva soltanto per sfuggire all’osservazione di eventuali guardacaccia appostati in zona durante le necessarie operazioni di recupero. Ecco, sì. Dev'essere questa la ragione. Bastardo!
E allora, se
i signori guardacaccia e signori forestali fossero davvero preposti
alla tutela del rispetto della fauna la domanda da porre loro
sarebbe: perché a questa gentaglia famelica, insensibile, vigliacca
ed arrogante dopo la prima flagranza di reato non le si toglie
definitivamente il porto
d’armi? Per attendere
l’inevitabile puntuale recidiva? Purtroppo la verità è che i controllori
non sono affatto al
servizio della fauna bensì dei suoi annientatori. Così
le continue barbarie commesse da questi ribaldi non vengono troncate
definitivamente alla prima infrazione del regolamento con la
radiazione, ma sanate con una semplice sanzione amministrativa. Se
giustizia ci fosse davvero, considerato che l’animale-cacciatore
nell’esercizio del suo barbaro diletto “si pone in competizione”
con l’animale selvatico, la punizione, se dovuta, andrebbe
comminata con lo stesso metro usato nella recente vicenda dell’orsa.
Ma, considerata
l’aggravante della premeditazione, della ferocia e della assoluta
inutilità della predazione, al bracconiere andrebbe somministrata
una dose doppia dell’ “anestetizzante” usato su Daniza.
A.D.