... Se
fossimo in grado di sottrarci ai desideri, ci sotrarremmo nel
contempo al destino; superiori agli esseri, alle cose e a noi stessi,
restii ad amalgamarci di più con il mondo, attraverso il sacrificio
della nostra identità accederemmo all'anonimato e alla rinuncia. «
Io non sono nessuno,
ho vinto il mio nome! » esclama colui che, non volendo più
abbassarsi a lasciare traccia di sé, cerca di conformarsi
all'ingiunzione di Epicuro: « Nascondi la tua vita ». Gli antichi:
sempre a loro torniamo quando si tratta dell'arte di vivere, della
quale duemila anni di sovranatura e di carità convulsa ci hanno
fatto perdere il segreto. Ritorniamo a loro, alla loro ponderazione e
alla loro amabilità, non appena accenni a scemare quella frenesia
che il cristianesimo ci ha inculcato; la curiosità che essi destano
in noi corrisponde a una diminuzione della nostra febbre, a un
arretramento verso la salute. E ritorniamo ancora a loro perché,
separati dall'universo da un intervallo più ampio dell'universo
stesso, essi ci propongono una forma di distacco che cercheremmo
inutilmente nei santi.
Facendo
di noi dei frenetici, il cristianesimo ci preparava suo malgrado a
generare una civiltà di cui ora è vittima: non ha forse creato in
noi troppi bisogni, troppe esigenze? Queste esigenze, questi bisogni,
inizialmente interiori, erano destinati col tempo a degradarsi e a
dirigersi verso l'esterno; e allo stesso modo il fervore da cui
promanavano tante preghiere sospese bruscamente, non potendo svanire
né rimanere inutilizzato, doveva mettersi al servizio di dèi di
ricambio e forgiare simboli a misura della loro nullità. Eccoci in
balia di contraffazioni d'infinito, di un assoluto senza dimensione
metafisica, immersi nella velocità, non potendo esserlo nell'estasi.
Questa ferraglia ansimante, replica della nostra smania di movimento,
e questi spettri che la manovrano, questo corteo di automi, questa
processione di allucinati! Dove vanno? Che cosa cercano? Quale vena
di demenza li trascina? Ogni volta che propendo per assolverli, che
concepisco dei dubbi sulla legittimità dell'avversione o del terrore
che mi ispirano, mi basta pensare alle strade di campagna, la
domenica, perché l'immagine di quella marmaglia mi rafforzi nei miei
disgusti o nei miei raccapricci. Essendo stato abolito l'uso delle
gambe, il camminatore, in mezzo a quei paralitici al volante, ha
un'aria da eccentrico o da proscritto; presto farà la figura del
mostro. Non c'è più contatto con il suolo: tutto ciò che in esso
affonda ci è divenuto estraneo e incomprensibile. Strappati da ogni
radice, inadatti per di più ad avere dimestichezza con la polvere o
con il fango, siamo riusciti nell'impresa di rompere non soltanto con
l'intimità delle cose, ma con la loro superficie stessa. La civiltà,
a questo stadio, apparirebbe come un patto col diavolo, se l'uomo
avesse ancora un'anima da vendere.
E'
davvero per « guadagnare tempo » che furono inventati questi
arnesi? Più sguarnito, più diseredato del troglodita, il
civilizzato non ha un momento per sé, i suoi svaghi stessi sono
febbrili e opprimenti: un forzato in ferie, che soccombe all'uggia
dell'inattività e all'incubo delle spiagge. Quando si sono
frequentati luoghi dove l'ozio era di rigore, dove tutti vi
eccellevano, ci si adatta male a un mondo dove nessuno lo conosce e lo
sa godere, dove nessuno respira. L'essere, infeudato alle ore, è
ancora un essere umano? E ha il diritti di chiamarsi libero,
quando sappiamo che si è scrollato di dosso tutte le schiavitù
tranne quella essenziale? ...
Da
LA CADUTA NEL TEMPO di E.M.Cioran
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