11/09/10

PROSTITUTE


Povera Carla Bruni. Il passaggio da fotomodella coccodè a first lady si poteva anche accettare, del resto da un personaggio tutta immagine-niente sostanza come Sarkozy ci si può aspettare simili scelte in materia di donne. Ma che queste ex veline, non appena conoscono i fasti della celebrità politica, si ergano anche a paladine dei diritti delle donne e passino dal trombare al tromboneggiare è veramente un’abitudine insopportabile. E se una Carfagna fino ad oggi l’ha passata liscia, Carla Bruni (per questo, appunto, “povera”) pare sia stata pesantemente attaccata da un quotidiano iraniano per il suo appello contro la lapidazione dell’adultera Sakineh.

Se volessi fare il “politically correct” dovrei subito precisare che, per carità, noi non siamo favorevoli alla lapidazione e neppure alla condanna delle adultere, che i diritti delle donne vanno rispettati, che la discriminazione nei loro confronti è odiosa e bla bla bla.

Mi/vi risparmio questi preamboli perché, sinceramente, di Sakineh non me ne frega niente, come non frega niente a Carla Bruni e a tutti gli altri milioni di ipocriti o idioti che hanno sostenuto l’appello contro la sua lapidazione. Non può esistere un reale interesse o un vero dolore nei confronti di una persona che non si conosce minimamente, lontana migliaia di chilometri e goccia nel mare delle infinite morti e ingiustizie che affliggono il nostro pianeta.

La battaglia e l’interesse, tuttalpiù, sarebbero contro la pena di morte o la difesa dei diritti delle donne e la firma di un appello, preferibilmente su Facebook, il modo migliore e più facile per sentirsi autore di una buona azione. Poi magari il proprio vicino di casa picchia la moglie a sangue tutti i giorni ma non ce ne frega niente.

E, allora, se il nocciolo della questione non è la persona Sakineh ma quello che rappresenta, possiamo tranquillamente affermare che la presunta (perché sappiamo tutti l’attendibilità di certe traduzioni) accusa di “prostituta” rivolta a Carla Bruni da parte del giornale iraniano è da criticare solo perché pecca in difetto: prostituta (intellettualmente, il che è infinitamente peggio che fisicamente) non è solo Carla Bruni ma anche ciascuno di coloro (e sono decine di migliaia, potenzialmente milioni) che sostengono questa battaglia per salvare la giovane iraniana.

E’ infatti evidente che si tratta dell’ennesimo, penoso e vergognoso pretesto per attaccare l’Iran e preparare il terreno mediatico a quell’attacco militare che USA e Israele pianificano da anni. Lo spauracchio nucleare, la demonizzazione in chiave nazista di Ahmadinejad, le inverosimili accuse di brogli in occasione delle elezioni di quest’ultimo e il conseguente ipocrita sdegno per l’ingigantita repressione degli oppositori al “regime” evidentemente non sono bastate, ci voleva anche il pietoso caso umano dell’innocente da salvare dai barbari. E gli appelli per tutte le adultere condannate alla lapidazione in Arabia Saudita? Ah già, non si possono salvare tutti, meglio lasciar stare gli amici dell’Occidente. Qualcuno obietterà: non tutti i sostenitori dell’appello per Sakineh sono prostitute intellettuali, la maggior parte sono persone in buonafede ingannate dalla propaganda di regime (quello vero, il nostro). Probabile, ma non li giustifico. Invece di scrivere stronzate su face book usino internet per informarsi. Oppure tornino ai propri affari, se sono donne magari spendano il loro tempo a tradire i mariti. In Iran, possibilmente.


Andrea Marcon

09/09/10

CANCRO SPA: LEGGERE ATTENTAMENTE LE AVVERTENZE


Luigi De Marchi, psicologo clinico e sociale, autore di numerosi saggi conosciuti a livello internazionale, parlando con un amico anatomo-patologo del Veneto sui dubbi dell’utilità delle diagnosi e delle terapie anti-tumorali, si sentì rispondere: «Sì, anch’io ho molti dubbi. Sapessi quante volte, nelle autopsie sui cadaveri di vecchi contadini delle nostre valli più sperdute ho trovato tumori regrediti e neutralizzati naturalmente dall’organismo: era tutta gente che era guarita da sola del suo tumore ed era poi morta per altre cause, del tutto indipendenti dalla patologia tumorale»[1]. «Se la tanto conclamata diffusione delle patologie cancerose negli ultimi decenni - si chiese Luigi De Marchi - in tutto l’Occidente avanzato fosse solo un’illusione ottica, prodotta dalla diffusione delle diagnosi precoci di tumori che un tempo passavano inosservati e regredivano naturalmente? E se il tanto conclamato incremento della mortalità da cancro fosse solo il risultato sia dell’angoscia di morte prodotta dalle diagnosi precoci e dal clima terrorizzante degli ospedali, sia della debilitazione e intossicazione del paziente prodotte dalle terapie invasive, traumatizzanti e tossiche della Medicina ufficiale. Insomma, se fosse il risultato del blocco che l’angoscia della diagnosi e i danni delle terapie impongono ai processi naturali di regressione e guarigione dei tumori?”.[2] Con quanto detto da Luigi De Marchi - confermato anche da autopsie eseguite in Svizzera su cadaveri di persone morte non per malattia - si arriva alla sconvolgente conclusione che moltissime persone hanno (o avevano) uno o più tumori, ma non sanno (o sapevano) di averli. In questa specifica indagine autoptica (autopsie) fatta in Svizzera, ed eseguita su migliaia di persone morte in incidenti stradali (quindi non per malattia), è risultato qualcosa di sconvolgente:
- Il 38% delle donne (tra i 40 e 50 anni) presentavano un tumore (in situ) al seno; - Il 48% degli uomini sopra i 50 anni presentavano un tumore (in situ) alla prostata; - Il 100% delle donne e uomini sopra i 50 anni presentavano un tumore (in situ) alla tiroide.
[3] Con tumore in situ s’intende un tumore chiuso, chiuso nella sua capsula, non invasivo che può rimanere in questo stadio per molto tempo e anche regredire. Nel corso della vita è infatti "normale" sviluppare tumori, e non a caso la stessa Medicina sa bene che sono migliaia le cellule tumorali prodotte ogni giorno dall’organismo.Queste, poi, vengono distrutte e/o fagocitate dal Sistema Immunitario, se l’organismo funziona correttamente. Molti tumori regrediscono o rimangono incistati per lungo tempo quando la Vis Medicratix Naturae (la forza risanatrice che ogni essere vivente possiede) è libera di agire. Secondo la Medicina Omeopatica , la “Legge di Guarigione descrive il modo con cui tale forza vitale di ogni organismo reagisce alla malattia e ripristina la salute”.[4] Cosa succede alla Legge di Guarigione, al meccanismo vitale di autoguarigione, se dopo una diagnosi di cancro la vita viene letteralmente sconvolta dalla notizia del male? E cosa succede all’organismo (e al Sistema Immunitario) quando viene fortemente debilitato dai farmaci?
Ulteriori dati poco conosciuti
Poco nota al grande pubblico è la vasta ricerca condotta per 23 anni dal prof. Hardin B. Jones, fisiologo dell’Università della California, e presentata nel 1975 al Congresso di cancerologia presso l’Università di Berkeley. Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, egli prova che i malati di tumore che NON si sottopongono alle tre terapie canoniche (chemio, radio e chirurgia) sopravvivono più a lungo o almeno quanto coloro che ricevono queste terapie.
[5] Il prof. Jones dimostra che le donne malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie convenzionali mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da coloro che si sono invece sottoposte alle cure complete.[6] Un'altra ricerca pubblicata su The Lancet del 13/12/1975 (che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi), dimostra che la vita media di quelli trattati con chemioterapia è stata di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 120 giorni.[7] Se queste ricerche sono veritiere, una persona malata di tumore ha statisticamente una percentuale maggiore di sopravvivenza se non segue i protocolli terapeutici ufficiali. Con questo non si vuole assolutamente spingere le persone a non farsi gli esami, gli screening e i trattamenti oncologici ufficiali, ma si vogliono fornire semplicemente, delle informazioni che normalmente vengono oscurate, censurate e che possono, proprio per questo, aiutare la scelta terapeutica di una persona. Ma ricordo che la scelta è sempre e solo individuale: ogni persona sana o malata che sia, deve assumersi la propria responsabilità, deve prendere in mano la propria vita. Dobbiamo smetterla di delegare il medico, lo specialista, il mago, il santone che sia, per questo o quel problema. Dobbiamo essere gli unici artefici della nostra salute e nessun altro deve poter decidere al posto nostro. Possiamo accettare dei consigli, quelli sì, ma niente più.
I pericoli della chemioterapia Il principio terapeutico della chemioterapia è semplice: si usano sostanze chimiche altamente tossiche per uccidere le cellule cancerose. Il concetto che sta alla base di questo ragionamento limitato e assolutamente materialista è che alcune cellule, a causa di fattori ambientali, genetici o virali, impazziscono iniziando a riprodursi caoticamente creando delle masse (neoplasie). La Medicina perciò tenta di annientare queste cellule con farmaci citotossici (cioè tossici per le cellule). Tuttavia, questa feroce azione mortale, non essendo in grado di distinguere le cellule sane da quelle neoplastiche (impazzite), cioè i tessuti tumorali da quelli sani, colpisce e distrugge l’intero organismo vivente. Ci hanno sempre insegnato che l’unica cura efficace per i tumori è proprio la chemioterapia, ma si sono dimenticati di dirci che queste sostanze di sintesi sono dei veri e propri veleni. Solo chi ha provato sulla propria pelle le famose iniezioni sa cosa voglio dire. «Il fluido altamente tossico veniva iniettato nelle mie vene. L’infermiera che svolgeva tale mansione indossava guanti protettivi perché se soltanto una gocciolina del liquido fosse venuta a contatto con la sua pelle l’avrebbe bruciata. Non potei fare a meno di chiedermi: ‘Se precauzioni di questo genere sono richieste all’esterno, che diamine sta avvenendo nel mio organismo?’. Dalle 19 di quella sera vomitai alla grande per due giorni e mezzo. Durante la cura persi manciate di capelli, l’appetito, la colorazione della pelle, il gusto per la vita. Ero una morta che camminava». [ Testimonianza di una malata di cancro al seno ] Un malato di tumore viene certamente avvertito che la chemio gli provocherà (forse) nausea, (forse) vomito, che cadranno i capelli, ecc. Ma siccome è l’unica cura ufficiale riconosciuta, si devono stringere i denti e firmare il consenso informato, cioè si sgrava l’Azienda Ospedaliera o la Clinica Privata da qualsiasi problema e responsabilità. Le precauzioni del personale infermieristico che manipolano le sostanze chemioterapiche appena lette nella testimonianza, non sono una invenzione. L’Istituto Superiore di Sanità italiano ha fatto stampare un fascicolo dal titolo “Esposizione professionale a chemioterapici antiblastici” per tutti gli addetti ai lavori, cioè per coloro che maneggiano fisicamente le fiale per la chemio (di solito infermieri professionali e/o medici). Fiale che andranno poi iniettate ai malati. Alla voce Antraciclinici (uno dei chemioterapici usati) c’è scritto che dopo la sua assunzione può causare: “Stomatite, alopecia e disturbi gastrointestinali sono comuni ma reversibili. La cardiomiopatia, un effetto collaterale caratteristico di questa classe di chemioterapici, può essere acuta (raramente grave) o cronica (mortalità del 50% dei casi). Tutti gli antraciclinici sono potenzialmente mutageni e cancerogeni”.
[8] Alla voce Procarbazina (un altro dei chemioterapici usati) c’è scritto che dopo la sua assunzione può causare: “E’ cancerogena, mutagena e teratogena (malformazione nei feti) e il suo impiego è associato a un rischio del 5-10% di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati anche con terapia radiante”. In un altro documento, sempre del Ministero della Sanità (Dipartimento della Prevenzione – Commissione Oncologica Nazionale) dal titolo “Linee-guida per la sicurezza e la salute dei lavoratori esposti a chemioterapici antiblastici in ambiente sanitario” (documento pubblicato dalle Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano) c’è scritto: “Uno dei rischi rilevati nel settore sanitario è quello derivante dall’esposizione ai chemioterapici antiblastici. Tale rischio è riferibile sia agli operatori sanitari, che ai pazienti”. Qui si parla espressamente dei rischi per operatori e pazienti. Il documento continua dicendo: “Nonostante numerosi chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla IARC (International Agency for Research on Cancer) e da altre autorevoli Agenzie internazionali come sostanze sicuramente cancerogene o probabilmente cancerogene per l’uomo, a queste sostanze non si applicano le norme del Titolo VII del D.lgs n. 626/94 ‘Protezione da agenti cancerogeni’. Infatti, trattandosi di farmaci, non sono sottoposti alle disposizioni previste dalla Direttiva 67/548/CEE e quindi non è loro attribuibile la menzione di R45 ‘Può provocare il cancro’ o la menzione R49 ‘Può provocare il cancro per inalazione’”. Quindi queste sostanze, nonostante provochino il cancro, non possono essere etichettate come cancerogene (R45 e R49) semplicemente perché sono considerate “farmaci”. Questa informazione è molto interessante. Andiamo avanti: “Nella tabella 1 [vedi sotto, ndA] è riportato un elenco, non esaustivo, dei chemioterapici antiblastici che sono stati classificati dalla IARC nel gruppo ‘cancerogeni certi per l’uomo’ e nel gruppo ‘cancerogeni probabili per l’uomo’. L’Agenzia è arrivata a queste definizioni prevalentemente attraverso la valutazione del rischio ‘secondo tumore’ che nei pazienti trattati con chemioterapici antiblastici può aumentare con l’aumento della sopravvivenza. Infatti, nei pazienti trattati per neoplasia è stato documentato lo sviluppo di tumori secondari non correlati con la patologia primitiva”. Tabella 1 Cancerogeni per l’uomo: Butanediolo dimetansulfonato (Myleran) - Ciclofosfamide - Clorambucil - 1(2-Cloretil)-3(4-metilcicloesil)-1-nitrosurea (Metil-CCNU) - Melphalan - MOPP (ed altre miscele contenenti alchilanti) - N,N-Bis-(2-cloroetil)-2-naftilamina (Clornafazina) - Tris(1-aziridinil)fosfinsolfuro (Tiotepa) Probabilmente cancerogeni per l’uomo: Adriamicina - Aracitidina - 1(2-Cloroetil)-3-cicloesil-1nitrosurea (CCNU) - Mostarde azotate - Procarbarzina Certamente si tratta di un elenco incompleto perché, sfogliando una trentina di bugiardini di chemioterapici, mancano diverse molecole cancerogene per ammissione stessa dei produttori. In conclusione, il documento sulle “linee guida” riporta alla voce “Smaltimento”: “Tutti i materiali residui dalle operazioni di manipolazione dei chemioterapici antiblastici (mezzi protettivi, telini assorbenti, bacinelle, garze, cotone, fiale, flaconi, siringhe, deflussori, raccordi) devono essere considerati rifiuti speciali ospedalieri. Quasi tutti i chemioterapici antiblastici sono sensibili al processo di termossidazione (incenerimento), per temperature intorno ai 1000-c La termossidazione, pur distruggendo la molecola principale della sostanza, può comunque dare origine a derivati di combustione che conservano attività mutagena. È pertanto preferibile effettuare un trattamento di inattivazione chimica (ipoclorito di sodio) prima di inviare il prodotto ad incenerimento. Le urine dei pazienti sottoposti ad instillazioni endovescicali dovrebbero essere inattivate prima dello smaltimento, in quanto contengono elevate concentrazioni di principio attivo”. Queste sostanze, che vengono sistematicamente iniettate nei malati, anche se incenerite a 1000°C “conservano attività mutagena”. Ma che razza di sostanze chimiche sono mai queste? La spiegazione tra poche righe. L’amara conclusione, che si evince dall’Istituto Superiore di Sanità, è che l’oncologia moderna per curare il cancro utilizza delle sostanze chimiche che sono cancerogene (provocano il cancro), mutagene (provocano mutazioni genetiche) e teratogene (provocano malformazioni nei discendenti). C’è qualcosa che non torna: perché ad una persona sofferente dal punto di vista fisico, psichico e morale, debilitata e sconvolta dalla malattia, vengono iniettate sostanze così tossiche? Questo apparente controsenso - se non si abbraccia l’idea che qualcuno ci sta coscientemente avvelenando - si spiega nella visione riduzionista e totalmente materialista che ha la Medicina , ma questo è un argomento che affronteremo più avanti. In Appendice sono stati pubblicati alcuni degli effetti collaterali (scritti nei bugiardini dalle lobby chimico-farmaceutiche che li producono) di circa trenta farmaci chemioterapici. Uno per tutti: l’antineoplastico denominato Alkeran® (50 mg/10 ml: polvere e solvente per soluzione iniettabile che contiene come eccipiente: “acido cloridrico”) della GlaxoSmithKline. “Un alchilante analogo alla mostarda azotata”. Alchilante è un farmaco capace di combinarsi con gli elementi costitutivi della cellula provocandone la sua alterazione.[9] Dal bugiardino si evince che questa sostanza chimica (usata nei malati tumorali), oltre a provocare la leucemia acuta (“è leucemogeno nell’uomo”), causa difetti congeniti nella prole dei pazienti trattati. Alla voce “Eliminazione”, viene confermato quanto riportato sopra: “L’eliminazione di oggetti taglienti, quali aghi, siringhe, set di somministrazione e flaconi deve avvenire in contenitori rigidi etichettati con sigilli appropriati per il rischio. Il personale coinvolto nell’eliminazione (dell’Alkeran) deve adottare le precauzioni necessarie ed il materiale deve essere distrutto, se necessario, mediante incenerimento”. Incenerimento, come abbiamo letto prima, alla temperatura di 1000-1200 gradi! La spiegazione è che queste sostanze sono analoghe alle “mostarde azotate”. Il sito del Ministero della Salute italiano, alla voce “Emergenze Sanitarie”, si esprime così: “Le mostarde azotate furono prodotte per la prima volta negli anni ’20 e ’30 come potenziali armi chimiche. Si tratta di agenti vescicatori simili alle mostarde solforate che si presentano in diverse forme e possono emanare un odore di pesce, sapone o frutta. Sono note anche con la rispettiva designazione militare HN-1, HN-2 e HN-3. Le mostarde azotate sono fortemente irritanti per pelle, occhi e apparato respiratorio. Sono in grado di penetrare nelle cellule in modo molto rapido e di causare danni al sistema immunitario e al midollo osseo (…) che si manifestano già dopo 3-5 giorni dall’esposizione, che causano anche anemia, emorragie e un maggiore rischio di infezioni. Quando questi effetti si presentano in forma grave, possono condurre alla morte”.[10] Per “curare” il tumore oggi vengono utilizzati degli ‘agenti vescicanti’: prodotti militari usati nelle guerre chimiche. Anche se la ”guerra al cancro” viene portata avanti con ogni mezzo dall’establishment, ritengo che ci sia un limite a tutto.
Mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale. [Giuramento di Ippocrate]

[1]Medicina kaput col mito del placebo?, Luigi De Marchi www.luigidemarchi.it/innovazioni/educazione/articoli/01_medicinakaput.html[2] Idem[3] Conferenza “Medicalizzazione della vita e comunicazione sanitaria” del Dottor Gianfranco Domenighetti - già Direttore sanitario del Canton Ticino - tenuta il 22 novembre 2008 al VIII° Congresso nazionale di medicina omeopatica di Verona.[4] “Approccio metodologico all’omeopatia”, Dottor Roberto Gava, farmacologo e tossicologo, ed. Salus Infirmorum, Padova[5] “Il tradimento della medicina”, Alberto Mondini[6] Idem[7] Idem[8] Per mutageno si intende ogni agente chimico o fisico che agisce sui cromosomi alterandone l’informazione genetica. Per cancerogeno si intende ogni sostanza capace di produrre il cancro.[9] Gli alchilanti agiscono direttamente sul DNA di qualsiasi tipo di cellula senza specificità. Possono intervenire sulle basi del DNA oppure rompendo l'intera molecola di DNA o ancora bloccando la trascrizione o la duplicazione. L'azione principale di un alchilante consiste però nel formare un legame trasversale tra due eliche complementari di DNA che porta alla rottura della catena polinucleotidica. Quindi, il DNA viene danneggiato e non è più in grado di duplicarsi e completare la sintesi proteica.[10] “Mostarde azotate”, “Emergenze”, tratto dal sito del Ministero della Salute http://uc6.asimantova.it/index.php?option=com_content&task=view&id=312&Itemid=54

08/09/10

NEMO PROPHETA IN PATRIA


A settant’anni dalla scomparsa, la figura del compositore teserano Achille Delmarco è ormai pressoché dimenticata in paese. A ben vedere, è strano che un borgo depositario di una tradizione musicale dai più considerata esemplare, se non proprio impareggiabile dopo i profluvi coral-bandistici degli ultimi anni, non si curi della memoria di un musicista di tutto rispetto, un artigiano di sicuro mestiere, che occupò un posto di un certo rilievo nel contesto musicale trentino di inizio secolo.
La condizione di oblio a cui è relegato il Nostro appare tanto più ingiustificata se la si paragona al costante interesse che, nella vicina Moena, è riservato al compositore dilettante Ermanno Zanoner, in arte (e che arte!) Luigi Canori, le cui opere copiose non mancano di essere eseguite per la gioia e la soddisfazione di non pochi ed entusiasti musicofili.
Nella speranza di risvegliare un po’ di interesse, si riportano le informazioni relative alla vita e alla produzione del Delmarco contenute nel Dizionario dei musicisti trentini, che, pur nella loro stringatezza, permettono di cogliere l’irrequietezza di un personaggio in perenne movimento, in grado di cimentarsi con disinvoltura in generi musicali diversi, dalla musica per banda all’operetta, dalla musica sacra a quella da camera.


Delmarco Achille, figlio di Stefano (Tesero 17.10.1877 - Cavalese 18.10.1940). Maestro di banda e compositore. Si accostò alla musica giovanissimo, cantando nel coro e suonando nella banda. Tra il 1901 ed il 1903 studiò a Trento con Cesare Rossi, dirigendo contemporaneamente la Banda di Vigolo Vattaro. Nel 1903 entrava nel Liceo musicale di Trieste, prima nella classe del maestro Roberto Satolla e quindi in quella di Gustavo Wieselberger. A questi anni risale una delle sue prime composizioni , la marcia per banda Da Vigolo Vattaro a Trieste. Gli studi venivano poi completati nel 1908 al Liceo di Pesaro, dove si era trasferito dal 1905, nelle classi di Antonio Cicognani ed Amilcare Zanella. Già nel 1908, neodiplomato, veniva assunto quale maestro della banda di Levico; lì conosceva Giulio Ricordi, ospite della località termale, che gli pubblicava il suo primo lavoro: Sulle Alpi, marcia per banda. Altre composizioni sinfoniche (Andante e Scherzo) venivano apprezzate dalla critica in occasione di un concerto alla Società Filarmonica di Trento l’11 dicembre 1909. Scioltasi la Banda di Levico nel 1914 allo scoppio della prima Guerra Mondiale, Achille Delmarco si trasferiva a Roma per lavorare nell’orchestra dell’Augusteo. Nel 1919 riprese il suo posto a Levico, rimanendovi fino al 1931 (con una breve parentesi negli anni 1920-23 passati alla guida della Banda di Rovereto). Dopo Levico fu per cinque anni maestro della Banda di Brunico (dal novembre 1931 al 1935), di Merano (1935) e quindi di Cavalese, dove alla Banda, allora inserita nell’Opera Nazionale Dopolavoro, affiancava nel 1939 una fanfara della Gioventù Italiana Littorio. La sua produzione (conservata in parte a Tesero presso il maestro Carlo Deflorian e in parte donata dal figlio nel 1987 alla Biblioteca Comunale di Trento e negli archivi delle bande di Levico e Rovereto), comprende un consistente numero di trascrizioni per complessi bandistici, pagine bandistiche originali, brani per orchestra e diversa musica cameristica, riconducibili spesso, in questi due ultimi casi, ad esercitazioni scolastiche. Scrisse anche un’operetta per ragazzi dal titola La Tana ed il Nido (tre atti per due soprani e orchestra) su testo di Giuseppe Fanciulli, rappresentata a Levico prima del 1930, e diverse partiture sacre. Agli anni del soggiorno romano (più precisamente al 1915, con prima esecuzione nella basilica di S. Giovanni in Laterano nel 1917) risale la pubblicazione della sua prima Messa a tre voci miste ed organo presso la casa editrice “Musica sacra”, espressione di quanti aderivano ai principi riformistici del movimento ceciliano. Altre pagine simile si aggiunsero negli anni seguenti, sino alla Messa in onore della B.V. Immacolata che, con le sue armonie delicate, gli abili giochi imitativi spesso alternati a passaggi accordali, la varietà dei tempi e la continua alternanza fra voci soliste e tutti, rappresenta forse il lavoro più significativo. Lo stile di tutte queste pagine sacre, scrive Clemente Lunelli, si muove “fra la semplice melodia sentimentale di Perosi e un certo gusto alla stringatezza contrappuntistica di Ravanello”.

Effevi

07/09/10

GUAGIOLA: C’È DI MEGLIO


All'attenzione del signor Vedovato e dei lettori.
Un compromesso. Ecco cos'é dunque Guagiola! Un compromesso. Ottimo per la visibilità del cielo e per la accessibilità dei luoghi. Il migliore, per quanto riguarda la seconda “prestazione”!
Fattore questo che sembra quindi essere dominante nelle ragioni che hanno spinto l'Associazione prima e l'Amministrazione poi nella scelta di quel sito. Anzi, quella che io pensavo essere la coppia di elementi limitativi per la osservazione del firmamento quali l'ampiezza dell'orizzonte o piena visibilità e la luminosità al suolo, sembra non lo sia proprio.
Sarebbe fin troppo facile elencare una lunga lista di siti concorrenti che avrebbero potuto mettere in ombra le qualità di Guagiola sotto ambedue quegli aspetti, sia a Tesero che in Valle. Ma di questo ne accennerò più avanti.
Mi preme ora cercar di dare un senso alle parole scritte e ai sentimenti esternati da Ario nella sua nota del 24 agosto. Da essa traspare in modo chiaro un lamento, un grido a stento soffocato, per un atto che rappresenta per lui (ma non solo) la ferita di un colpo inaspettato, avuto da una Associazione ritenuta fino a ieri amica. Che sembra non essersi preoccupata, con quel suo gesto, di intaccare la storia di un luogo e con esso i sentimenti che tanta gente di Tesero ha costruito nel tempo e che non riesce, ma soprattutto non vuole veder intaccati da una scelta che non comprende. Sì, che semplicemente non comprende.
Per quanta buona volontà, essa ci voglia mettere!
Questo è il non marginale aspetto della questione che ritengo non sia stato sufficientemente capito né da Ezio e nemmeno da Lei quando ha sorvolato sulla domanda postasi/le da Ario circa la sua provenienza o il luogo ove vivesse.
Quando si intacca il territorio si toccano le radici e la sensibilità storica delle persone.
Questo è successo recentemente per il Centro del fondo di Lago, per la RSA delle Valene e per tutte quelle scelte (es. fontane abbattute) che intervengono violentemente sui ricordi e sul vissuto delle persone. Quindi anche per il semplice abbattimento di alberi, magari secolari.
Questo è ciò che, per Ario (e in parte anche per me), sta succedendo con il Vostro Osservatorio. Sono tutti interventi che a ben guardare non sembrano strettamente indispensabili nemmeno per l'aumento della qualità della vita e del benessere delle persone.
L'interesse e la passione per l'osservazione del cielo stellato non è venuta meno in tutti questi anni di intensa attività a causa della mancanza di un Osservatorio stabile. Indubbiamente l'avere una struttura specifica faciliterà, ora, l'intercambio di esperienze e di metodi di approccio alle problematiche connesse. E soprattutto stimolerà vicendevoli trasferte di astrofili e simpatizzanti.

Riprendendo quanto sopra accennato e poi lasciato in sospeso, aggiungo.

Visto che la luminosità appare come essere una questione non primaria, sembra opportuno soffermarsi sull'aspetto dell'accessibilità; indirettamente definita la migliore.
Le questioni poste da Ario: distanza dai luoghi, qualità della strada, parcheggio, sgombero neve, (fognature?), creazione di precedente per la futura compromissione dei luoghi, ecc. sembrano per lei, trovare in quella localizzazione a Guagiola il fattore di minima incidenza.
Tesero, ma anche altri paesi della bassa valle quali Varena, Daiano, Carano e pure Cavalese, su pendii con la stessa esposizione e forse con meno ostacoli visivi tutt'intorno, potrebbero presentare ciascuno una serie di luoghi per il posizionamento di strutture di quel tipo, con possibilità di accesso ampiamente più comode sia come distanze dal centro principale che come qualità della viabilità, in tanti casi fatta di strade già asfaltate e variamente attrezzate.
A Tesero potrebbe essere interessata la zona pascoliva a ridosso del Maso Zanon, e continuando verso ovest le aree simili ma limitrofe al paese di Varena, poi quelle di Daiano alla Colonia-Campo sportivo, e più in là Le Ganzaie, i Piani de Sedèl, e perfino al Calvèl se non addirittura ai margini del perimetro abitativo de La Veronza: balcone sul firmamento. Qui forse qualche misurazione della luminescenza diffusa andrebbe fatta! Tutti luoghi debolmente antropizzati in modo pressoché stabile tutto l'anno e che tra le altre cose fornirebbero facilitazioni in merito ad alloggi di foresteria, servizi di ristorazione e servizi igienici, pulizia delle strade, parcheggi e tutto ciò che a suo dire sarebbe indispensabile e di supporto ai visitatori dell'Osservatorio. In aggiunta si avrebbe una facilitazione non di poco conto per quanto riguarda l'aspetto della sorveglianza dell'immobile da atti di vandalismi, maggiormente possibili su strutture ubicate in luoghi di scarso transito e che potrebbero, per loro natura, destare curiosità particolari a passanti occasionali o a malintenzionati.

Da ultimo le sequenze dei fatti: un suo coinvolgimento nella estensione della normativa PAT sul contenimento dell'inquinamento luminoso; il riservare per Guagiola dei parametri di salvaguardia più restrittivi; l'avere una progettazione per l'Osservatorio già in stadio avanzato e riferibile allo studio-associato vicino al sindaco; il sentirla partecipe nel sostenere le ragioni e le difese di quella scelta; appaiono come una sequenza di fatti non proprio casuali o scollegati.

Infine, siccome questa vostra scelta mi è apparsa carente di una discussione preventiva allargata anche ai non addetti ai lavori, sono sicuro che saprà leggere queste mie ulteriori considerazioni come un contributo costruttivo sincero, anche se magari tardivo.

Un cordiale saluto. Marzio.

PASSAPAROLA - 06/09/2010

05/09/10

GUAGIOLA: NESSUN DUBBIO


Leggo il nuovo intervento. Mi pregio inviare alcune risposte ai quesiti di cui trattasi, con preghiera di pubblicazione in pari evidenza. Al solito non riesco a postare commenti lunghi. Per altri punti risponderà direttamente il presidente del Gruppo Mario Vinante. Io mi limito a commenti puramente tecnici.

1) E' veramente quello il posto più indicato per la localizzazione della cupola-osservatorio? Guagiola offre un ottimo compromesso tra cielo visibile e accessibilità. Altri siti potrebbero essere migliori in termini di cielo visibile ma senza le stesse "prestazioni" in termini di accessibilità, fattore di cui evidentemente bisogna tener conto. Va detto che non è necessaria la piena visibilità come spiegherò più avanti.
2) Il Cornaccio che gli si para a est, quanto limita l'orizzonte in quella direzione?Lo limita in funzione della sua conformazione, ossia per un'altezza di 10-15° circa. Non è male. Essendo zona di montagna non si può pretendere un orizzonte marino a meno di non mettersi in cima a una montagna cozzando però col problema dell'accessibilità discusso nel punto 1 (a parte la non necessità della piena visibilità del cielo).
3) La sua luminosità (fenomeno di riflessione notturna intrinseca,) in quanto roccia dolomitica, quanto condiziona l'efficacia degli strumenti di osservazione?No, non la condiziona. Per capirlo poniamoci nella condizione "peggiore": una notte di Luna piena; anche ipotizzando un'albedo della montagna del 15-20% la luce riflessa è trascurabile: bisogna tener conto che la Luna piena illumina il suolo con 0,25 lux (una strada illuminata da lampioni è sui 15-20 lux). Nelle notti di Luna piena l'osservazione del "cielo profondo" è compromessa direttamente dalla luce lunare diffusa dall'atmosfera, non dalla (pochissima) luce riflessa. Un fattore condizionante è invece dettato dall'illuminazione artificiale come si discuterà nel punto successivo.
4) La luminosità che sale dai paesi di fondovalle nel residuo cono di visibilità a sud e a ovest, quanto consente una efficace lettura dei fenomeni celesti con la strumentazione in possesso all'Associazione Astrofili?Per quanto attiene l'inquinamento luminoso, questo è un problema generale. Non per niente i professionisti vanno sui telescopi ubicati (per esempio) in Cile nel deserto di Atacama a 4000 metri slm. Ora in Trentino esiste una legge sull'inquinamento luminoso, con regolamento d'attuazione che consentirà di limitare il problema. Chi scrive ha partecipato al suo varo. La PAT ha definito delle fasce speciali di protezione dalla luce per la zona di Guagiola. Va inoltre detto, dal mero punto di vista osservativo, che esistono dei filtri "speciali" che, inseriti nel telescopio, consentono -per così dire- di tagliare ulteriormente l'inquinamento luminoso. Anche in località per più inquinate dalla luce artificiale con telescopi amatoriali si riescono a raggiungere, con sensori CCD, magnitudini elevatissime. In visuale le cose sono diverse ma da noi la Via Lattea è ancora visibile con facilità.
5) La barriera naturale a nord dovuta alla Pala Santa e a Cucal, quanto chiude l'orizzonte in quella direzione?Lo chiude sempre in funzione del profilo delle montagne. L'ordine di grandezza del problema è quello del punto 1. La chiusura a Nord non è un particolare problema. Le direzioni prevalenti di osservazione sono lo zenit e la parte meridionale del cielo (per esempio, i pianeti, che seguono più o meno l'eclittica, non sono mai visibili verso Nord!). Eventuali osservazioni a Nord di oggetti bassi e nascosti dalle montagne sarebbero comunque compromesse dalla loro scarsa altezza sull'orizzonte (dove le immagini sono molto degradate dal maggiore spessore atmosferico). Quest'ultimo problema vale per tutte le direzioni di osservazione per cui i telescopi non saranno mai puntati poco sopra l'orizzonte, dove le immagini sono sempre molto scadenti; viceversa saranno puntati tipicamente nell'intorno dello zenit dove il degrado atmosferico è ovviamente nettamente inferiore.
6) E' sufficiente avere un limitato cono di visibilità solo attorno alla verticale, oppure sono necessari i 180° tutt'intorno; per cui la cima della montagna sarebbe l'unica soluzione proponibile? E la vasta area del Lagorai?A questo punto è chiaro che il "cono" a nostra disposizione è più che sufficiente. Non è obbligatorio avere la completa visibilità!
7) altre risposte in ordine sparso ad altri quesiti.- Il bosco essendo molto scuro, con una bassa albedo, favorirà, riflettendo poca luce artificiale, la "scurezza" del cielo (affetto vantaggioso).- D'inverno il manto nevoso (albedo del 90% circa) incrementerà la luce riflessa con un aumento, in teoria, di inquinamento luminoso. D'altra parte d'inverno da noi l'aria è molto secca per cui la luce riflessa sarà scarsamente diffusa dall'atmosfera con un incremento di inquinamento luminoso assai modesto. L'aria umida sarebbe deleteria ma fortunatamente, come detto, ne siamo normalmente esenti**.

Marco Vedovato

INCANTO NOTTURNO

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LE OCHE E I CHIERICHETTI

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TESERO 1929

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PASSATO

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ANCORA ROSA

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VIA STAVA ANNI '30

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TESERO DI BIANCO VESTITO

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LA BAMBOLA SABINA

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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

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MINU

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