17/01/09

IL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI


Marco Travaglio ha appena scritto un commento su Gaza, diramato dalla sua casa editrice Chiarelettere, che inizia così: “Israele non sta attaccando i civili palestinesi. Israele sta combattendo un’organizzazione terroristica come Hamas che, essa sì, attacca civili israeliani”. Bene. Il compianto Edward Said, palestinese e docente di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York, scrisse anni fa un saggio intitolato “The Treason of the Intellectuals” (il tradimento degli intellettuali). Si riferiva alla vergognosa ritirata delle migliori menti progressiste d’America di fronte al tabù Israele. Ovvero come costoro si tramutassero nelle proverbiali tre scimmiette - che non vedono, non sentono, non parlano - al cospetto dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra che il Sionismo e Israele Stato avevano commesso e ancora commettono in Palestina, contro un popolo fra i più straziati dell’era contemporanea. E di tradimento si tratta, senza ombra di dubbio, e cioè tradimento della propria coscienza, delle proprie facoltà intellettive, e del proprio mestiere. Gli intellettuali infatti hanno a disposizione, al contrario delle persone comuni, ogni mezzo per sapere, per approfondire. Ma nel caso dei 60 anni di conflitto israelo-palestinese, con la mole schiacciate e autorevole di documenti, di prove e di testimonianze che inchiodano lo Stato ebraico, non sapere e non pronunciarsi può essere solo disonestà e vigliaccheria. Poiché in quella tragedia la sproporzione fra i rispettivi torti è così colossale che non riconoscere nel Sionismo e in Israele un “torto marcio”, una colpa grottescamente e atrocemente superiore a qualsiasi cosa la parte araba abbia mai fatto o stia oggi facendo, è ignobile. E’ un tradimento della più elementare pietas, del cuore stesso dei Diritti dell’Uomo e della legalità moderna. E’ complicità, sì, com-pli-ci-tà nei crimini ebraici in Palestina. Leggete più sotto. I traditori nostrani abbondano, particolarmente nelle fila dell’ala ‘progressista’. Marco Travaglio guida oggi il drappello, che vede Furio Colombo, Gad Lerner, Umberto Eco, Adriano Sofri, Gustavo Zagrebelsky, Walter Veltroni, Davide Bidussa e altri, affiancati dell’instancabile lavoro di falsificazione della cronaca di tutti i corrispondenti a Tel Aviv delle maggiori testate italiane. E ci si chiede: perché lo fanno? Personalmente non mi interessa la risposta, e non voglio neppure addentrarmi in ipotesi contorte del tipo ‘il potere della lobby ebraica’, la carriera, o simili. Ciò che conta è il danno che costoro causano, che è, si badi bene, superiore a quello delle armi, delle torture, delle pulizie etniche, del terrorismo. Molto superiore. Perché una cosa sia chiara a tutti: l’unica speranza di porre fine alla barbarie in Palestina sta nella presa di posizione decisa dell’opinione pubblica occidentale, nella sua ribellione alla narrativa mendace che da 60 anni permette a Israele di torturare un intero popolo innocente e prigioniero nell’indifferenza del mondo che conta, quando non con la sua attiva partecipazione. Ma se gli intellettuali non fanno il loro dovere di denuncia della verità, se cioè non sono disposti a riconoscere ciò che l’evidenza della Storia gli sbatte in faccia da decenni, e se non hanno il coraggio di chiamarla pubblicamente col suo nome, che è: Pulizia Etnica dei palestinesi, mai si arriverà alla pace laggiù. E l’orrore continua. Essi, di quegli orrori, hanno una piena e primaria corresponsabilità. L’evidenza della Storia di cui parlo è in primo luogo: che il progetto sionista di una ‘casa nazionale’ ebraica in Palestina nacque alla fine del XIX secolo con la precisa intenzione di cancellare dalla ‘Grande Israele’ biblica la presenza araba, attraverso l’uso di qualsiasi mezzo, dall’inganno alla strage, dalla spoliazione violenta alla guerra diretta, fino al terrorismo senza freni. I palestinesi erano condannati a priori nel progetto sionista, e lo furono 40 anni prima dell’Olocausto. Quel progetto è oggi il medesimo, i metodi sono ancor più sadici e rivoltanti, e Israele tenterà di non fermarsi di fronte a nulla e a nessuno nella sua opera di Pulizia Etnica della Palestina. Questo accadde, sta accadendo e accadrà. Questo va detto, illustrato con la sua mole schiacciante di prove autorevoli, va gridato con urgenza, affinché il pubblico apra finalmente gli occhi e possa agire per fermare la barbarie. In secondo luogo: che la violenza araba-palestinese, per quanto assassina e ingiustificabile (ma non incomprensibile), è una reazione, REAZIONE, disperata e convulsa, a oltre un secolo di progetto sionista come sopra descritto, in particolare a 60 anni di orrori inflitti dallo Stato d’Israele ai civili palestinesi, atrocità talmente scioccanti dall’aver costretto la Commissione dell’ONU per i Diritti Umani a chiamare per ben tre volte le condotte di Israele “un insulto all’Umanità” (1977, 1985, 2000). La differenza è cruciale: REAGIRE con violenza a violenze immensamente superiori e durate decenni, non è AGIRE violenza. E’ immorale oltre ogni immaginazione invertire i ruoli di vittima e carnefice nel conflitto israelo-palestinese, ed è quello che sempre accade. E’ immorale condannare il “terrorismo alla spicciolata” di Hamas e ignorare del tutto il Grande terrorismo israeliano. Le prove. Non posso ricopiare qui migliaia di documenti, citazioni, libri, atti ufficiali e governativi, rapporti di intelligence americana e inglese, dell’ONU, delle maggiori organizzazioni per i Diritti Umani del mondo, di intellettuali e politici e testimoni ebrei, e tanto altro, che dimostrano oltre ogni dubbio quanto da me scritto. Quelle prove sono però facilmente consultabili poiché raccolte per voi e rigorosamente referenziate in libri come “ La Pulizia Etnica della Palestina”, di Ilan Pappe, Fazi ed., o “Pity The Nation”, di Robert Fisk, Oxford University Press, e “Perché ci Odiano”, Paolo Barnard, Rizzoli BUR, fra i tantissimi. O consultabili nei siti http://www.btselem.org/index.asp, http://www.jewishvoiceforpeace.org, http://zope.gush-shalom.org/index_en.html, http://www.kibush.co.il, http://rhr.israel.net, http://otherisrael.home.igc.org. O ancora leggendo gli archivi di Amnesty International o Human Rights Watch, o ne “ La Questione Palestinese” della libreria delle Nazioni Unite a New York. E torno al “tradimento degli intellettuali” nostrani. Vi sono aspetti di quel fenomeno che sono fin disperanti. Il primo è l’ignoranza in materia di conflitto israelo-palestinese di alcuni di quei personaggi, Marco Travaglio per primo; un’ignoranza non scusabile, per le ragioni dette sopra, ma anche ‘sospetta’ in diversi casi. Un secondo aspetto è l’ipocrisia: l’evidenza di cui sopra è soverchiante nel descrivere Israele come uno Stato innanzi tutto razzista, poi criminale di guerra, poi terrorista, poi Canaglia, poi persino neonazista nelle sue condotte come potere occupante. Ricordo il 17 novembre 1948, quando Aharon Cizling, allora ministro dell’agricoltura della neonata Israele, sorta sui massacri dei palestinesi innocenti, disse: “Adesso anche gli ebrei si sono comportati come nazisti, e tutta la mia anima ne è scossa”. Ricordo Albert Einstein, che sul New York Times del dicembre 1948 definì l’emergere delle forze di Menachem Begin (futuro premier d’Israele) in Palestina come “un partito fascista per il quale il terrorismo e la menzogna sono gli strumenti”. Ricordo Ephrahim Katzir, futuro presidente di Israele, che nel 1948 mise a punto un veleno chimico per accecare i palestinesi, e ne raccomandò l’uso nel giugno di quell’anno. Ricordo Ariel Sharon, che sarà premier, e che nel 1953 fu condannato per terrorismo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 101, dopo che ebbe rinchiuso intere famiglie palestinesi nelle loro abitazioni facendole esplodere. Ricordo l’ambasciatore israeliano all’ONU, Abba Eban, che nel 1981 disse a Menachem Begin: “Il quadro che emerge è di un Israele che selvaggiamente infligge ogni possibile orrore di morte e di angoscia alle popolazioni civili, in una atmosfera che ci ricorda regimi che né io né il signor Begin oseremmo citare per nome”. Ricordo la risoluzione ONU A/RES/37/123, che nel dicembre del 1982 definì il massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila sotto la “personale responsabilità di Ariel Sharon” un “atto di genocidio”. Ricordo le parole dello Special Rapporteur dell’ONU per i Diritti Umani, il sudafricano John Dugard, che nel febbraio del 2007 scrisse che l’occupazione israeliana era Apartheid razzista sui palestinesi, e che Israele doveva essere processata dalla Corte di Giustizia dell’Aja. Ricordo le parole dell'intellettuale ebreo Norman G. Finkelstein, i cui genitori furono vittime dell’Olocausto: “Ma se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti.” Ricordo che esistono prove soverchianti che Israele usa bambini come scudi umani; che lascia morire gli ammalati ai posti di blocco; che manda i soldati a distruggere i macchinari medici nei derelitti ospedali palestinesi; che viola dal 1967 tutte le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga; che ammazza i sospettati senza processo e con loro centinai di innocenti; che punisce collettivamente un milione e mezzo di civili esattamente come Saddam Hussein fece con le sue minoranze shiite; che massacra 19.000 o 1.000 civili a piacimento in Libano (1982, 2006) e poi reclama lo status di vittima del ‘terrorismo’. Ricordo che il Piano di Spartizione della Palestina del 1947 fu rigettato da Ben Gurion prima ancora che l'ONU lo adottasse, e che esso privava i palestinesi di ogni risorsa importante (dai Diari di Ben Gurion). Ricordo che la guerra arabo-israeliana del 1948 fu una farsa dove mai l’esercito ebraico fu in pericolo di sconfitta, tanto è vero che Ben Gurion diresse in quei mesi i suoi soldati migliori alla pulizia etnica dei palestinesi (sempre dai Diari di Ben Gurion); che la guerra dei Sei Giorni nel 1967 fu un’altra menzogna, dove ancora Israele sapeva in aticipo di vincere facilmente “in 7 giorni”, come disse il capo del Mossad Meir Amit a McNamara a Washington prima delle ostilità, e mentre l’egiziano Nasser tentava disperatamente di mediare una pace (dagli archivi desecretati della Johnson Library, USA); che gli incontri di Camp David nel 2000 furono un inganno per distruggere Arafat, come ho dimostrato in “Perché ci Odiano” intervistando i mediatori di Clinton; che i governi di Israele hanno redatto 4 piani in sei anni per la distruzione dell'Autorità Palestinese sancita dagli accordi di Oslo mentre fingevano di volere la pace (nomi: Fields of Thorns, Dagan, The Destruction of the PA, ed Eitam); che la tregua con Hamas che ha preceduto l’aggressione a Gaza fu rotta da Israele per prima il 4 novembre del 2008 (The Guardian, 5/11/08 – Ha’aretz, 30/12/08), con l’assassino di 6 palestinesi. E queste sono solo briciole della mole di menzogne che ci hanno raccontato da sempre sulla 'epopea' sionista. Ricordo infine Ben Gurion, il padre di Israele, che lasciò scritto: “Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba”. E ancora: “C’è bisogno di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti”. Quell'uomo pronunciò quelle agghiaccianti parole 20 anni prima della nascita dell’OLP, più di 30 anni prima della nascita di Hamas, 50 anni prima dell’esplosione del primo razzo Qassam su Sderot in Israele. Ricordo ai nostri ‘intellettuali’ di andarle a leggere queste cose, che sono in libreria accessibili a tutti, prima di emettere sentenze. E l’ipocrisia sta nel fatto che questi negazionisti di tali orrori storici possono scrivere le enormità che scrivono sulla tragedia di Gaza, sulla Pulizia Etnica dei palestinesi, e possono dichiararsi filo-israeliani “appassionati” (Travaglio) senza essere ricoperti di vergogna dal mondo della cultura, dai giornalisti e dai politici come lo sarebbe chiunque negasse in pubblico l’orrore patito per decenni dalle vittime dell’Apartheid sudafricana, o i massacri di pulizia etnica di Srebrenica e in tutta la ex Jugoslavia. Il mio appello a questi colti mistificatori è: continuare a seppellire sotto un oceano di menzogne, di ipocrisia, sotto l’indifferenza allo strazio infinito di un popolo, sotto la vostra paura o la vostra convenienza, la grottesca sproporzione fra il torto di Israele e quello palestinese, causa e causerà ancora morti, agonie, inferno in terra per esseri umani come noi, palestinesi e israeliani. Sono più di cento anni che il nostro mondo li sta umiliando, tradendo, derubando, straziando, con Israele come suo sicario. Sono 60 anni che chiamiamo quelle vittime “terroristi” e i terroristi “vittime”. Questo è orribile, contorce le coscienze. Non ci meravigliamo poi se i palestinesi e i loro sostenitori nel mondo islamico finiscono per odiarci. Dio sa quanta ragione hanno, cari 'intellettuali'.


Paolo Barnard - Gennaio 2009

14/01/09

QUI RIPOSA IL CAPITALISMO (1667? - 2009)


A proposito della crisi economico-sistemica in atto un lettore ci trasmette il suo parere. Lo ringraziamo per il contributo.

Tutti ce lo dipingono così il “nostro” capitalismo: come un uomo sul letto di morte, in attesa che giunga la signora con mantello nero e falce a portarselo via. Alcuni incitano addirittura a staccare la spina. Ma in attesa che l’eutanasia diventi legale anche da noi, è meglio prendersi qualche momento di pausa per riflettere, perché magari c’è la possibilità di salvarlo il beneamato sistema; ciò però non va fatto semplicemente rimettendolo in piedi come era prima, magari imbottendolo di farmaci in modo da farlo “tirare avanti” ancora per un po’… Il capitalismo, o meglio questo capitalismo, va migliorato, corretto, insomma guarito completamente prima di venire dimesso; e la cura è a portata di mano, più di quanto lo si possa immaginare. Può anche essere che la crisi in corso, come tanti insinuano (o meglio sperano), sia solo una fase di recessione che, come affermava Schumpeter, è intrinseca in questo sistema economico e rappresenta soltanto un periodo di transizione, prologo di una successiva fase di innovazione tecnologica dei prodotti e del mercato; ma perché non approfittare dell’occasione per meditare sui difetti dell’attuale regime economico e sull’opportunità di renderlo migliore? Per riuscire nell’intento però sarebbe necessario fare esercizio di riflessione e di forte autocritica, pratica che purtroppo sembra essere caduta in disuso tra i più. Ed è così che la colpa della crisi ricade sul sistema in sé e non tanto sui suoi interpreti: tutti criticano aspramente lo stato delle cose in cui hanno creduto fino a ieri (peraltro senza proporre alcuna miglioria), salvo poi essere i primi a rigettarvisi nel momento in cui le acque si saranno calmate. Il dato di fatto è che il capitalismo, nella sua odierna interpretazione, non può funzionare; ci si può illudere che lo faccia per un periodo più o meno lungo, ma si è costretti a ricredersi nel momento in cui i suoi difetti emergono inesorabilmente. Tante sue lacune potrebbero esser menzionate, ma ci si può limitare ad alcuni esempi. Il primo fondamentale problema riguarda l’eccessiva centralità dell’individuo: infatti, per quanto possa sembrare contraddittorio, pur avendo portato alla globalizzazione dei mercati (che è in sé stessa criticabile) l’attuale sistema stimola uno sfrenato individualismo che conduce l’uomo a badare solo alla propria felicità (sistematicamente associata al possesso di denaro), tutt’al più prestando attenzione anche a quella di una cerchia ristretta di amici e/o famigliari. Ecco quindi che l’idea di collettività è completamente scomparsa, annullando il valore del prossimo e del diverso; se aggiungiamo anche la perdita di valori etici, il quadro da questo punto di vista diviene completo. In secondo luogo il capitalismo moderno non è più fondato sul lavoro e sulle capacità personali, ma solo sulla furbizia e la disonestà; lo scopo non è più il creare ricchezza per sé fornendo un servizio utile alla comunità (citando von Mises, “essendo in sé stessi fine e mezzo”), ma è ormai piuttosto l’arraffare quanto più denaro possibile imbrogliando e raggirando persone ed istituzioni; di questo se ne saranno certamente accorti anche gli imprenditori onesti, che tuttora interpretano nel giusto modo i principi del sistema. Se non bastasse, le aziende possedute da Tizio (il cui scopo è unicamente contare il denaro guadagnato alla fine dell’anno) sono amministrate da Caio (e questo è il caso dei manager indicati come i principali colpevoli della crisi), il quale cercherà soltanto di ottenere il massimo remunero per l’azienda (e possibilmente e preferibilmente anche per sé) senza curarsi del modo in cui tale guadagno è ottenuto. Queste prime due peculiarità portano inevitabilmente ad un’eccessiva e crescente disuguaglianza sociale. I Paesi occidentali poi, che dovrebbero essere paladini di libertà e democrazia, hanno sempre (ripeto, sempre) attuato una strategia volta a limitare la realizzazione di tali principi in giro per il mondo più che ad espandere la presenza dei principi stessi negli altri Paesi, dapprima con il colonialismo propriamente detto, sfrontato e spietato, poi con la politica della guerra, più subdola e meschina. E tutto questo per quale motivo? Non di certo per “donare” democrazia e libertà a popoli che ne sono privi, ma solo per mantenere lo status quo. Ultimo esempio in merito è l’escalation a Gaza, con l’aggiunta del fatto che in questo caso l’opinione pubblica occidentale, pur vivendo nei Paesi che sono tra i maggiori responsabili del conflitto, vede la guerra come se fosse una scaramuccia tra fazioni, liberandosi totalmente dal peso morale che invece su di essa dovrebbe gravare. Ed allora è il caso di essere sinceri e coscienti e chiederci: ma se questo è il prezzo che gli altri devono pagare, vale davvero la pena mantenere vivo il nostro sistema? Infine bisogna considerare che finora si è trattato l’ambiente che ci circonda come un bene senza prezzo, anche se a spese di esso si è creata molta ricchezza: insomma l’uomo ha sempre goduto di un capitale inestimabile chiamato Natura, pur senza assegnarvi il giusto valore; lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente conseguente al regime consumistico che si è instaurato ha portato ad un’insostenibilità profonda e a degli eccessi di cui ora ci si comincia a rendere conto. I segnali che l’ambiente ci manda possono diventare un’opportunità per correggere il tiro e riuscire a trovare la cura per questo moribondo, anche se purtroppo (e duole dirlo) sarà difficile invertire la rotta senza la promessa di un riscontro economico. Ecco allora che si rende necessario un profondo rinnovamento culturale, morale e sociale, nonché una nuova adozione di profondi valori etici, se si vuole che l’economia di mercato possa continuare ad esistere mantenendo ciò che in essa vi è di buono; ma probabilmente questa è pura illusione, ed allora è meglio sperare che questa crisi sia più aspra delle previsioni, aspettando che le condizioni del degente peggiorino e preparandone le esequie ...

Un non-economista di professione

12/01/09

CARO AMICO TI SCRIVO


Ciao Bruno è un po’ che non ti sento e visto che siamo già oltre capodanno ho deciso di rifarmi vivo. Durante questa tua latitanza ho spesso meditato su quanto mi scrivevi nell’ultima lettera. Probabilmente hai ragione: qualcosa, tra non molto, accadrà, deve accadere. Lo si capisce drizzando le antenne. A guardare soltanto non riesci a percepirlo. C’è un’inerzia imbarazzante, come in un mezzogiorno estivo di calura afosa, che il paesaggio sembra dipinto. Un blocco culturale irremovibile. Io sopravvalutavo le capacità di rottura, convinto che ci fosse un qualche grimaldello per rompere quell’inerzia, per smuovere quel blocco. Ma mi sbagliavo. Mi illudevo che la scuola, la formazione superiore ormai generalizzata, corrispondessero anche a un’emancipazione, a un’apertura critica alle cose. Una capacità di ragionamento un po’ al di sopra dell’insufficienza. Almeno una voglia di ragionamento. E invece niente. Forse c’è attesa, forse c’è paura, non so spiegarmi esattamente. Sta di fatto che non c’è reazione. Tutto è immoto. Ogniqualvolta credi si sia rotto un tabù, che qualcuno sia pronto a tagliare con la soggezione a questo stile, devi ricrederti. Nessun taglio. Era solo un’esitazione, una momentanea titubanza. “Pensavo fosse amore e invece era un calesse” e più o meno, la similitudine calza. Cambiano le facce, cambia a volte il contesto, ma tutto rimane al suo posto. La successione delle cose scorre entro un alveo certo e rassicurante, tracciato da percorsi comportamentali perfettamente assimilati. Il lavoro del Gruppo di Discussione critica, di cui mi chiedevi conto (e che come temevo non verrà pubblicato), lo ha ben messo in evidenza. Cercherò di procurartene una copia. Insomma ci troviamo al cospetto di un monolito inscalfibile. L’autoreferenzialità è circolare, perfetta. Se non stai dentro quel “cerchio” il tuo dire è niente, non hai ascolto. Il Grande tessitore oggi è un abile professionista del consenso. È un padrino potente. Anzi un burattinaio che ha saputo approfittare della dabbenaggine della nostra comunità creando una rete che pare incredibile sia così estesa e onnicomprensiva. La colpa naturalmente sta nella pochezza culturale della base. Qui basta poco. Il consenso e, spesso, l’acquiescenza sociale vengono scambiati con misere regalie: un viaggio a Roma in gran pompa, una presidenza di una delle tante associazioni (non a caso tante), la gloria di una effimera ribalta. Insomma l’ignavia la si baratta con un semplice e temporaneo posto al sole. Da decenni il nostro venerabile determina ciò che qui si fa e ciò che qui non s’ha da fare. Il suo pacchetto di voti garantito è in grado di condizionare pesantemente i vertici amministrativi, anzi, più esattamente, di determinarli. Possiamo spingerci a parlare di mafia? Io credo di sì, anche se parrebbe un’esagerazione. Ti consiglio di leggere “Il ritorno del Principe” e sono sicuro che coglierai immediatamente il fatto che anche qui sostanzialmente siamo immersi in un contesto mafioso. Come ben ricordi, qualche tempo fa, due anni fa circa, forse tre, il Difensore Civico provinciale, a proposito, aveva dichiarato che le amministrazioni comunali in Trentino non erano affatto dei campioni di trasparenza, e in confidenza, che proprio la nostra era una delle più opache. “Narcotizzati come siamo dalla vulgata mediatica secondo cui la mafia è solo una truculenta vicenda criminale intessuta di lupare e squagliamenti di cadaveri, dimentichiamo che la definizione legale dell’associazione mafiosa è la seguente: L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasioni di consultazioni elettorali.” Ricevuto? Cogli la vicinanza? Sì, capisco che potresti obiettare che il Nostro trent’anni fa non c’era e anche in quei tempi non sospetti, in Comune i tentativi di cambiare cavallo, sono sempre falliti. Però adesso è diverso, l’immobilità granitica è garantita, per così dire, scientificamente. E nel mentre la popolazione si crogiola nelle regalie di cui sopra accennavo, la speculazione immobiliare, nel nostro paese, lungi dall’essere impedita dalla enfatizzata “legge Gilmozzi”, imperversa tranquillamente senza che alcun amministratore apra bocca. Considerato quindi che allo stato risulta impossibile produrre un cambiamento endogeno, la speranza è che le cose riescano ad auto-riformarsi per ragioni esogene, prima o poi. Saranno fatti esterni a provocare la rottura. Anche se – ce lo siamo detto e scritto altre volte – questa economia da paese dei balocchi, che ha forgiato generazioni di epicurei, farà resistenza e impedirà che il processo auto-riformatore sia rapido. Mediamente, l’obiettivo che questa schiera generazionale persegue è uno solo. Quello di approfittare di alcune (apparentemente inesauribili) contingenze rilanciando continuamente. Senza pensare, appunto, che trattandosi di contingenze non dureranno in eterno e che il rilancio infinito è impossibile. E colposamente fregandosene dell’interesse superiore. È un discorso che conosci perfettamente… Comunque, come realisticamente osservava anche il nostro buon Vittorio, le capacità di tenuta del sistema non si possono sottovalutare perché adesso i “lucignoli” sono anche "studiati”. D’altronde la comunità per perpetuarsi deve emanciparsi. Ed emancipata ora lo è, ma soltanto in apparenza. S’è emancipata soprattutto sulle etichette dei campanelli, perché è lì che ci si distingue. Davanti ai cognomi locali sono sempre più numerosi infatti i titoli accademici che fanno bella mostra di sé. Tra non molto, di questo passo, dal dottor Arduini al dottor Zorzi, passando per quasi tutte le lettere dell’alfabeto, ogni nuovo campanello di ogni nuovo appartamento potrà fregiarsi di un “Dr.”. Sarà un profluvio di sapienza? Ne beneficerà il paese? Improbabile. “Sotto il vestito niente”? Probabile. La “produzione seriale” di cultura, serve a poco. Nella maggior parte dei casi non c’è voglia di conoscenza, non c’è passione, non c’è dis-interesse. C’è soltanto valutazione di opportunità sulla base di un tornaconto economico che quel titolo potrà garantire e, non di meno, desiderio di apparire. A monte di quelle lauree, tutto è stato programmato, come nei lager di allevamento intensivo. Puoi immaginare perfettamente l’ambiente d’incubazione: un ampio soggiorno, arredato con tappeti e quadri dai soggetti bucolici e scene di caccia d’altri tempi, durante un pranzo velocemente approntato in un microonde, dove tra un marito arrivato e che conta e una moglie alla moda sempre di corsa, pensando a quei pargoli che già scalpitano e pretendono la “P” sul lunotto posteriore del fuoristrada di papà, si parla di carriere e di percorsi formativi ad hoc. Di lauree che garantiscano più opportunità di lavoro, di denaro e di prestigio sociale: commercialista piuttosto che avvocato, ingegnere piuttosto che medico, eccetera. Più raramente letterato o musicista. Semplicemente: money, money, money
Questo è il contesto in via di disfacimento. Non ci resta che piangere? Certo che no. Confidiamo nella Provvidenza e nel tuo intuito: qualcosa tra non molto accadrà. Forse. Attendo una tua nuova e ti saluto. Alla prossima e, con un po’ di ritardo, buon anno.

Ario


INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

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LA BAMBOLA SABINA

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LA VAL DEL SALIME

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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

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