31/12/09

TESERO, I RETI E IL CENÈSTRO DI SAN SILVESTRO




Non è facile. Il rischio di cadere nella trita banalità è altissimo. Si chiudono stasera gli anni Zero del terzo millennio. Vale la pena di salutare il passato con un tocco di unicità. Questa fine d’anno non la si può liquidare con un semplice lenticchie e cotechino. Per molti, scongiuri o non scongiuri, potrebbe essere l’ultima occasione per festeggiare qualcosa e sarebbe un peccato sprecarla con un menù clonato e riproposto su milioni di tavole. Un’occasione, quand’è irripetibile - dio ‘sto aggettivo, non riusciamo più a liberarcene - deve corrispondere nella sostanza par pari all’eccezionalità dell’evento.
Che fare? Che suggerire? Volevamo qualcosa che fosse al contempo vicino alla nostra gente e lontano nella storia. Pensa che ti ripensa… storia, nostra gente… nostra sente… nošša ŝente… Eureka! Ma certo che sì: Tarcio Rasu! Chi altri? Ecco l’uomo che di sicuro avrebbe trovato quel che cercavamo. E difatti…
Innanzitutto però, per soddisfare una curiosità che ci stuzzicava da un po’, volevamo capire bene l’origine storica di questa strana usanza della gozzoviglia di fine anno. Con la sua solita grande disponibilità, in modo semplice ed esaustivo, il famoso tuttologo teserano (ma di origini rom) grande esperto di usanze e tradizioni, ci ha spiegato che tale consuetudine origina addirittura dalla preistoria: all’epoca dei Reti, che proprio a Tesero (Tesero, sempre Tesero, è incredibile ma tutto sembra sia partito da questo paese!) nella località di Sottopedonda si insediarono nel V secolo avanti Cristo… Spiega Rasu: “Quelle nostre antenate popolazioni, in particolari ricorrenze del ciclo temporale, usavano offrire simbolicamente alle loro divinità i frutti della terra. Ma – precisa – la tradizione della venerazione di divinità antropomorfe è addirittura precedente (VI secolo a.C.). Possiamo supporre che presso i Reti esistessero dei santuari dedicati alla natura. E, a quanto ne so, a Sottopedonda venne praticato soprattutto il culto della fertilità: veniva offerto del grano, in boccali e in tazze, che avevano anche iscrizioni votive e riportavano il nome dell’offerente, esprimendo un nuovo tipo di rapporto con il divino, cioè il desiderio di essere in contatto con la divinità in modo personale e permanente. Le offerte erano bruciate, alternativamente, su cumuli di pietre con pozzo centrale, su piattaforme o su piani argillosi. In quel lontano tempo, il calendario retico, molto simile a quello etrusco, non prevedeva naturalmente la corrispondenza tra i giorni dell’anno e il genetliaco delle divinità, caratteristica introdotta oltre duemila anni dopo da papa Gregorio XIII con la famosa bolla «Inter Gravissimas» del 24 febbraio 1582. Il conta-giorni retico legava soltanto particolari date alle più importanti divinità di quel popolo. L’ultimo giorno del calendario retico era dedicato non a un’unica divinità, bensì a tre: il dio Silvino, il dio Silvone e il dio Silvestro (quest’ultimo poi recuperato nella tradizione cristiana). In quel giorno a quei tre dei, protettori della terra e dei suoi frutti, si dedicavano riti propiziatori che culminavano con libazioni notturne collettive all’aperto, dei veri sabba ante litteram con fuochi, canti, ubriacature ed orge. Soltanto un secolo dopo i Reti aggiunsero alle libazioni l’usanza del pasto serale. E qui – chiarisce Rasu – c’è un errore clamoroso nell’abbinamento onomastico della cena di fine anno. Infatti si crede che al dio Silvestro (poi come detto trasformato dalla tradizione cristiana in san Silvestro n.d.r.) sia abbinato il famoso cenone. In verità a quel dio si legava il cenèstro. E, correttamente, oggi si dovrebbe dire il cenèstro di San Silvestro…”
E gli altri due che fine han fatto? Chiediamo a Tarcio Rasu. “Beh, gli altri due, Silvino e Silvone, hanno avuto destini diversi. Silvino è stato ripescato e trasformato in san Silvino e si festeggia il 12 settembre mentre Silvone con quel suo grossolano accrescitivo è stato definitivamente accantonato. Nella tradizione popolare teserana il 31 dicembre però tutte e tre le divinità retiche vengono ancora festeggiate, con tre distinte sfumature che corrispondono esattamente ai suffissi dei rispettivi nomi. Perciò, predisponendo un menù più consono ai tempi grami di questo 2009 che sta per chiudersi, si parlerà del cenino di san Silvino, diversamente, infischiandosene e grandassando, come faranno comunque alcuni, si parlerà del cenone di san Silvone. Il cenèstro, stando nel mezzo, corrisponde nient’altro che a una semplice cena.” Dopo questo dotto excursus (prei)storico, sbalorditi per l’impressionante sapienza del nostro esimio compaesano, salutiamo Tarcio Rasu e proseguiamo il nostro viaggio nella tradizione locale dell’ultimo dell’anno.
Dunque, arrivando all’attualità, in pochi forse sanno (neppure noi lo sapevamo, e anche di questo dobbiamo ringraziare Rasu) che, a seguito dei ritrovamenti archeologici di Sottopedonda del 23 settembre 1987 il Comune, accortamente, con delibera giuntale del 20 aprile 1988, istituì un gabinetto parascientifico per "lo studio e la trasposizione mediante travaso della tradizione retico-sottopedondica in quella teserana" (così testualmente è scritto nella delibera). Con voto unanime la Giunta comunale decise di affidarsi a un triumvirato di saggi, con mandato a vita, composto per l’appunto da Tarcio Rasu per la consulenza storica, da Mario Fanìn per la consulenza agro-pasto-alimentare e dal compianto Matteo Baèsta per la delicata e fondamentale consulenza spirituale. Dopo un lungo e approfondito studio dei reperti storici rinvenuti, durato più di sei anni, questo comitato di saggi elaborò e predispose il cosiddetto Protocollo Ufficiale R/Sottopedonda. Il documento, custodito presso l’ufficio Storia e Costume del municipio, tra l’altro definisce esattamente le tre cene di derivazione retica che possono venire preparate a Tesero la sera del 31 dicembre. Grazie al protocollo anzidetto, Tesero si è garantito una sorta di D.O.P. (denominazione di origine protetta) che tutela il consumatore forestiero da ogni eventuale imitazione truffaldina portando ulteriore rinomanza al paese. La procedenza non è affatto complicata: scelta la divinità, ovvero il santo cui dedicare il pasto serale dell’ultimo dell’anno e la corrispettiva ampiezza del menù, non rimane che mettersi ai fornelli. Per il cenino gli ingredienti sono basilari: farina de méo e acqua. Lo chef ci ha spiegato che con queste due sostanze, per quanta buona volontà ci si possa mettere, il risultato è uno e soltanto uno, panada essenziale. Sempreché sia disponibile del fuoco per trasformare la farina in pane dessavì e il pane dessavì poi in panada dessavida, altrimenti si regredisce ancora oltre e si potrà ottenere semplicemente farina de méo smöada in acqua fredda. Non è un granché, però, stando almeno a quanto ci dice il noto chef locale Toni Nisi, la farina smöada dieteticamente è indicata per gli smilzi e per gli obesi, indifferentemente… Per il cenèstro vengono aggiunti altri ingredienti che aumentano il tasso proteico del basto. Oltre a quelli base, già inclusi nel cenino, in questa variante si aggiungono sale, brama di capra e ravi. E qui il cuoco può davvero liberare la fantasia. Con farina de méo, sale, acqua, brama di capra e ravi le combinazioni gustative si ampliano esponenzialmente. Elenchiamo i principali abbinamenti studiati e inseriti in una postilla del Protocollo (Ricettario retico) dal consulente Fanìn: peta de ravi con brama crüa, peta de ravi con brama cotta, strudel salà de ravi con brama rostìa, brama crüa con brama rostìa, pan e ravi cotti, pan e ravi crüi, farina de meo e acqua, farina de meo e pan, pan e pan. Infine il Cenone, per la verità non molto in voga nel nostro paese (la semplicità da sempre è la nostra caratteristica), comprende tra gli ingredienti, come ci ricorda sempre il consulente agro-pasto-alimentare, la poìna. È l’unico aggiuntivo previsto nel Protocollo. Poìna di capra, non vaccina - i
Reti allevavano soltanto capre -. La poìna, quantunque un adagio locale dica che “pü che še n’ magna manco še camina”, fa bene ed è buona anche da sola, ma si può combinare con le precedenti pietanze del cenino e del cenestro. Con essa gli accostamenti sono infiniti ma per ragioni di spazio qui evitiamo di elencarli. Comunque, in caso di urgenti necessità, dato che in questi giorni gli uffici comunali sono chiusi, copia completa del Ricettario retico è disponibile anche presso l’abitazione del saggio agro-pasto-alimentare Mario Fanìn, in via Fia 9, al quale potete rivolgervi senz’altro con fiducia.
Insomma, cari lettori, certi di aver colmato una piccola ma importante lacuna storica e di avervi dato una inaspettata dritta per concludere come si deve l’ultimo giorno del decimo anno del primo decennio del terzo millennio, non ci resta che invitarvi a sbizzarrirvi con tutto questo retico ben di dio. Abbiate fiducia e non abbiate fretta. Cucinate con cura. Stupirete amici e parenti facendo un figurone. Inoltre, cosa non secondaria, il basto vi costerà poco, non farete indigestione (forse) e in ogni modo, in questi tempi di memoria corta, ve lo ricorderete per un gran pezzo. Almànco sin a la marèna del primo de l’an.
Evviva!

Ario Dannati

1 commento:

  1. Ti apprezzo comunque e sempre, anche quando non ne condivido appieno i presupposti, le tesi o le conclusioni, ma quanto con la abilità epistolare che ti appartiene ci sostieni e ci guidi con leggerezza nell'aeree dei nostri possibili sogni ti trovo un maestro degno (come pochi) di questo titolo.
    F.to: mzr r1254 nvn r147l (pseudonimo acquistato in tempi di magra all'IKEA, al reparto fai da te. Montatelo!

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