08/12/09

LA ‘CULTURA’ MODERNA: OVVERO COME RENDERE LA CULTURA UN BENE DI CONSUMO


L’ossessione, moderna ma molto recente temporalmente, dell’ ‘istruzione’, del ‘titolo’ universitario, del ‘diventare qualcuno’, è diventata quasi un leit-motiv dei nostri giorni. A parte l’incremento parossistico delle iscrizioni alle facoltà universitarie, che rivela nel contempo la fallacia della scuola post-sessantotto, divenuta più un ‘diplomificio’ che una fucina di leader o quantomeno di ‘capitani’ del mondo del lavoro del domani, ciò di cui parliamo lo si può vedere chiaramente dall’atteggiamento dei genitori, che farebbero ogni sacrificio per vedere il figlio con il prezioso titolo, senza il quale si suppone egli non ricoprirà mai, in società, una ‘posizione’, e non avrà mai una vita, non solo professionale, veramente appagante. L’ironia del tutto è che, nella maggior parte dei casi, la tanto decantata ‘istruzione’, la tanto celebrata ‘cultura’ universitaria, che già dal nome rimanda ad un complesso, ad una conoscenza complessiva del reale e del mondo, si riduce ad un vuoto e spurio nozionismo, ad una conoscenza di elementi slegati e disarticolati, autoreferenziali e inutili per una superiore conoscenza della realtà e della vita, che sola potrebbe garantire la formazione di veri leader. A parte la disgustosa logica da ‘ipermercato’ che si respira nelle strutture formative, dove la qualità non conta quasi nulla ma si osanna e si santifica la quantità; dove nessuno può delinearsi per predisposizioni o sensibilità particolari, perché il sistema è congeniato per mantenere un'ingiusta e livellatrice ‘uguaglianza’, figlia del delirante progetto social-egualitario del ‘mandare avanti tutti’; dove si preferisce insistere sui programmi ‘taglia unica’ ministeriali, piuttosto che affrontare davvero tematiche apicali, capaci di orientare formativamente la formazione e la mentalità dell’allievo, quello che più colpisce è la volontà, non si sa quanto cosciente o quanto figlia dei tempi, di ‘formare’ persone che padroneggino un ‘sapere’ settoriale e meramente tecnico, slegato da una visione della realtà complessiva e unificatrice. Mentre quello che servirebbe per creare degli ‘aristocratici’ del sapere, sarebbe proprio quello di fornire una universitas del pensiero, dello scibile (e forse anche del meno scibile), del sapere e anche, perché no, dei valori caratterizzanti la nostra tradizione. Ma quello che si preferisce fare è creare degli ‘specialisti’, leggesi anche degli inarticolati, che sappiano molte nozioni tecniche, ma che difficilmente sappiano articolarle e riunirle nelle varie facce della realtà, al fine di dominarla e padroneggiarla. Del resto la ‘democrazia’ ha paura di uomini simili, perché sono uomini che difficilmente hanno bisogno degli altri. Perché la ‘democrazia’ conta che il numero assorba e annulli le qualità che rendono gli uomini diversi e diseguali tra loro. Perché la democrazia ha paura per antonomasia delle figure carismatiche, e gli preferisce di gran lunga il ‘governo dei mediocri’, degli ‘specialisti’ non integrati, degli ‘esperti’ del nulla. Non a caso in una società che crea sempre nuovi bisogni e nuovi ‘saperi’ che in realtà sono spesso falsi bisogni e falsi saperi, come sarebbe possibile per un solo uomo, se non eccezionalmente integrato e consapevole di sè e della propria natura ontologica, ‘stare al passo’ di una conoscenza che, in tutti i campi, tende a modificarsi e cambiare continuamente? La natura disarticolata del sapere e della ‘cultura’ moderni e attuali è dunque figlia e portato necessario di un mondo che si basa sul mutamento e vorticoso aggiornamento di tutto, dalla tecnologia al sapere, dalle relazioni interpersonali agli ‘status symbol’ e ai desideri. Ma quindi la domanda è: che fare? E qui necessariamente la nostra risposta andrà contro corrente, andrà a ricercare un’idea di ‘istruzione’ di ben altra caratura e tipologia. In un'epoca in cui le iscrizioni alle università decuplicano non sarebbe auspicabile ridurre il numero degli studenti, non in funzione di mere possibilità economiche delle famiglie, ma di potenzialità e meriti effettivi che vengano considerati già dall’inizio? In un'epoca in cui l’ ‘istruzione’ è considerata un diritto, si ribadisce che non esiste un diritto al sapere: esso va, come tutto guadagnato, meritato. In un'epoca in cui tutti vogliono, e credono in una certa misura, di poter essere, qualsiasi cosa e di avere qualunque posizione, non è auspicabile la visione delle cose come è sempre stata, che nella società ognuno ha il suo posto? Questo lungi dall’essere una posizione data unicamente dal denaro e dalla ‘robba’, dovrebbe essere data da ciò che si fa, non meno da ciò che si rappresenta per la propria comunità: di conseguenza l’università non può e non deve essere quello che è ora, una ‘fabbrica’ di inutili titoli e di inutili ‘saperi’, che illudono chiunque di poter divenire, con il semplice esercizio mnemonico di concetti, una guida e un essere realizzato.


Fabio Mazza

3 commenti:

  1. Più volte mi è capitato di leggere o sentire pareri simili. Dunque la soluzione sarebbe una non-democrazia, soprattutto dello scibile. Condivido in particolar modo la critica allo studio universitario. Alcuni dubbi però restano:
    1 - L'autore crede veramente che, in una società il cui motore primo è il denaro, un'ipotetica elite della cultura potrebbe divenirne la classe dirigente? L'occupazione di certe posizioni è spesso, senza voler fare di tutta l'erba un fascio, riservata a chi possiede ambizione e fame di potere più che da chi incarna questo vasto sapere. La mia risposta è che un'educazione solida potrebbe risolvere il problema in maniera più efficace. La sua realizzazione, ad ogni modo, resta utopia.
    2 - Come riuscirebbe l'autore a valutare i meriti in modo giusto fin dall'inizio? In primo luogo perché alcuni studenti effettivamente riescono a fare un significativo salto di qualità durante gli studi. In secondo luogo perché, almeno secondo la mia esperienza, i semplici risultati accademici non garantiscono che lo studente sia meritevole quanto altri che vengono considerati più mediocri.
    3 - Il vero problema, a mio modo di vedere, si trova prima dell'università. L'educazione dovrebbe garantire che al termine degli studi obbligatori lo studente sia effettivamente un cittadino fatto e finito, in grado di essere critico e di mente aperta. Secondo me questo raramente avviene.

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  2. Caro Lorenzo, condivido le tue opinioni, anche se non capisco bene il punto 1. Se chi ricopre le posizioni dirigenziali lo fa per ambizione e fame di potere, direi che vale altrettanto l'accostamento che chi studia, ricerca e si tiene informato (o "educato"?) lo fa per fame di sapere. Proprio l'altro giorno parlavo con un collega iraniano del tema del post. Secondo lui, e io condivido, basterebbe abolire gli esami e l'educazione sasrebbe sicuramente migliore. Spiego. La meritocrazia é fondamentale, ma davvero la si raggiunge con gli esami, le prove, i test? No, tanto più che il tuo punto 2 é verissimo. Sono stato per anni uno strenuo sostenitore dei test d'ingresso all'università. Ma ammetto che l'argomento 2 é "simply true"; ci sono persone che scoprono la propria via tardi, dopo, o proprio perché hanno avuto la possibilità di provare. D'altro canto entri nelle nostre università e trovi gente svogliata, che scalda il banco, non sa fare 2+2, peggio, disinteressata! Allora la proposta potrebbe essere: facciamo un test non sulle conoscenze, facciamolo sul "talento" e sulla motivazione del singolo. Facciamo scrivere ad ogni candidato una lettera motivazionale, se non dargli la possibilità di un colloquio. Se una cosa ti piace, ti brillano gli occhi e ardi per averla. Perché dovrebbe essere diverso con la conoscenza e lo studio?
    Appunto. E poi eliminiamo gli esami, o meglio trasformiamo l'esame universitario (ma anche nelle scuole) nell'opportunità di essere creativi, proporre, criticare, discutere, fare. Non prima di aver insegnato alle giovani leve i metodi e gli strumenti per farlo. Solo così si può "tirare fuori" chi veramente ha passione e talento per ciò che fa, da chi no. Se fare qualcosa ti pesa, evidentemente, non é la tua strada.

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  3. Caro Evgeny, è sempre bello ricevere del sensato e puntuale "feed-back".
    Il punto che volevo evidenziare è che normalmente, a mio parere, l'affamato di sapere non lo è altrettanto di potere. Di conseguenza, l'elite che l'autore vorrebbe fosse creata non finirebbe al comando della società e nulla cambierebbe. (Tra l'altro, per varie ragioni, penso sia logico e giusto che tale elite non sia al potere, ma su questo si potrebbe discutere per ore...). Ad ogni modo insisto sul fatto che un'educazione che si propone di creare cittadini, dando le minime basi ad ognuno sarebbe la soluzione al problema introdotto da Mazza. Mi rendo anche conto di quanto sia difficile realizzare tale soluzione; la mia intenzione era solo quella di evidenziare quello che è, secondo me, uno dei punti deboli dell'analisi del post.
    Condivido la proposta rivoluzionaria di abolizione degli esami, che non devono essere necessari per stimolare a studiare (peraltro aggiungo che nemmeno il ritorno economico, quello non direttamente collegato al potere, dovrebbe esserlo; ma qui, ancora, si dovrebbe aprire una troppo lunga discussione sul sistema in generale...).

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