12/04/09

IL CROLLO DELLA NOSTRA ONNIPOTENZA


Di fronte a tragedie come quella dell’Aquila provo un sentimento di profonda vergogna. Per la mia impotenza. Per la mia inutilità. Penso che se uno non può far nulla di utile farebbe meglio a girare la testa da un’altra parte. E invece guarda la tv. E c’è qualcosa di molto ambiguo, oltre che di morboso, in questo voyeurismo del dolore e della sofferenza altrui. "La sofferenza degli altri fa bene. Questa è la dura sentenza" scrive Nietzsche con la sua spietata lucidità. È un sentimento inconscio, naturalmente, che non esclude affatto una commozione sincera ma la accompagna. È come quando si va ai funerali di un amico. Da una parte c’è un dolore autentico, dall’altra l’inconfessata e inconfessabile soddisfazione, per contrasto, di essere ancora vivi. Eppoi c’è l’ambiguità di un mezzo come quello televisivo. Che per sua natura, trasforma inevitabilmente in spettacolo tutto ciò che tocca e quindi anche il dolore e la sofferenza. E ci specula. Il Tg1, alla fine di un telegiornale pieno di immagini di morte e distruzione, è arrivato a vantarsi, snocciolando compiaciuto, fasce orarie, picchi d’ascolto, degli share ottenuti con le trasmissioni sul terremoto, superiori a quelli della concorrenza. Non so chi abbia potuto suggerire al direttore uscente di quel Telegiornale una tale esibizione, che definire di cattivissimo gusto è poco. Finisce, momentaneamente, la rappresentazione della tragedia e inizia la pubblicità, il mondo virtuale da cui sofferenza e dolore sono esclusi e esistono solo felicità, benessere, le "opportunities", le digestioni facili. Questo mondo virtuale, falso, è già irritante in situazioni normali ma accostato alla realtà della tragedia diventa semplicemente indecente. Io credo che per rispetto dei morti, e soprattutto dei vivi, nel caso di tragedie di questa portata bisognerebbe sospendere la pubblicità per qualche giorno piuttosto che dichiarare "lutti nazionali" che non si è mai capito bene in che cosa consistano. Poi ci sono i rappresentanti delle Istituzioni. Probabilmente è giusto che facciano sentire, anche con la loro presenza fisica, la vicinanza dello Stato, ma pur se animati delle migliori intenzioni è inevitabile che si facciano pubblicità, per quanto involontaria, a spese dei morti. E ci sono gli uomini politici. Dario Franceschini è andato in Abruzzo senza avvertire nessuno, in veste anonima, "per non essere seguito dalle Tv e dalle radio e farsi pubblicità". Ma poi l’ha raccontato in televisione. Un terremoto, in quanto tale, non ammette discussioni. Però penso che la gente farebbe bene a fidarsi di più del proprio istinto e meno della tecnica e dei suoi guru. La gente d’Abruzzo aveva sentito, intuito, che in quei "flussi sismici", dichiarati nella norma, c’era qualcosa che non andava tanto che in un paesino, il giorno prima della scossa avevano fatto una processione per chiedere a Nostro Signore di non far arrivare il terremoto (ciò che è successo dopo la dice lunga su quanto tenga conto delle nostre preghiere). Ma la stragrande maggioranza ha finito per fidarsi dei tecnici. Tranne alcuni, che si sono salvati. Mi ricorda la vicenda del cieco e del suo cane il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. L’ordine, nei grattacieli in fiamme, era di stare calmi, di non muoversi, che sarebbero presto arrivati i pompieri e i mezzi a risolvere tutto. Ma il cane non sapeva né leggere né scrivere e, tantomeno, aveva orecchie per ascoltare. Fece ciò che l’istinto gli dettava; si precipitò giù dalle scale trascinandosi dietro il cieco, salvandosi e salvando il suo padrone. Anche noi siamo degli animali e dovremmo recuperare almeno un po’ di questa nostra natura oggi troppo sacrificata alla razionalità della tecnica. Infine se la tragedia dell’Aquila ha un senso è di ricordarci la nostra fragilità, di limare la nostra ubris, il delirio di onnipotenza che ci fa credere di poter controllare tutto. Esiste il Caso, che i Greci chiamavano Fato al quale anche gli dei dovevano sottomettersi. Siamo, tutti, sospesi a un filo. E non dovremmo aspettare tragedie come quelle dell’Aquila per ricordarcene.

Massimo Fini

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