04/02/09

ENERGIA PER L'ASTRONAVE TERRA


Quando si producono merci o servizi è come se si facesse un buco nella crosta terrestre per prendere le risorse necessarie, generando poi un mucchio di rifiuti. Ogni azione dell’uomo nella “tecnosfera” si lascia quindi alle spalle una natura più o meno impoverita e contaminata. All’aumentare delle attività umane cresce il timore che le risorse necessarie alla vita e al benessere dell’umanità siano compromesse in modo irreversibile (come nel caso dell’aria che respiriamo) o giungano a esaurimento (come nel caso dei combustibili fossili).
Ogni barile di petrolio bruciato oggi significa, per le generazioni future, un barile di petrolio in meno e 300 kg di anidride carbonica in più nell’atmosfera. Il problema del consumo delle risorse e dell’accumulo dei rifiuti non riguarda perciò soltanto gli odierni abitanti della Terra, ma ancor più i nostri pronipoti.
LO SVILUPPO (IN)SOSTENIBILE
Negli ultimi decenni si è fatta strada l’idea che è necessario prendere coscienza dei limiti fisici dello sviluppo, o meglio perseguire uno “sviluppo sostenibile”. Questo è definito in prima approssimazione come uno sviluppo “che soddisfa le necessità del presente senza compromettere la possibilità che le generazioni future possano soddisfare le proprie”. Ancora oggi però lo sviluppo è inteso come aumento della produzione di merci e di servizi, il che non può avvenire lasciando un’equivalente quantità e qualità di risorse alle generazioni future. Questo sviluppo non è dunque sostenibile: proseguendo su questa strada, il massimo che possiamo perseguire è uno sviluppo “meno insostenibile”.
Per raggiungere questo obiettivo ridotto occorre valutare le attività umane in base al loro costo energetico, al loro costo in materie prime e anche al loro impatto ambientale. Si devono preferire, a parità di utilità economica, le merci e i servizi che richiedono meno materie prime e meno energia, che durano più a lungo, che producono meno scorie, che comportano minore inquinamento e minore consumo delle risorse naturali.
IL PIEDONE AMERICANO
Per quantificare e discutere i problemi della sostenibilità si usano vari tipi di parametri. Il più noto fra questi è l’impronta ecologica, definita come l’area di superficie terrestre capace di fornire le risorse necessarie al consumo quotidiano di una persona e di smaltirne i rifiuti.
Secondo una stima generalmente accettata la Terra oggi è in grado di sopportare un’impronta ecologica media di 1,8 ettari per abitante (1 ettaro = 10.000 m²). Le più recenti stime mostrano che in media un cittadino statunitense ha un’impronta ecologica di 9,6 ettari. L’impronta in ettari vale 7,6 per un canadese, 4,5 per un tedesco, 4,2 per un italiano, 1,3 per un colombiano, 0,8 per un indiano, 0,7 per un eritreo, 0,1 per un afgano.
Le persone quindi non hanno lo stesso peso sulla Terra. Ci sono popolazioni che sfruttano “fette di Terra” molto più grandi di quelle che loro spetterebbero, mentre altre ne utilizzano parti piccolissime.
Si stima che ogni cittadino statunitense che nasce oggi vivrà in media 82 anni e userà nella propria vita circa 4 milioni di kWh di energia elettrica, 200 milioni di litri d’acqua e 300.000 litri di carburante, producendo 1.600 tonnellate di CO².
Se ciascuno dei 6,7 miliardi di abitanti della Terra avesse un’impronta ecologica uguale dello statunitense medio, avremmo già oggi bisogno di circa quattro Terre. Questi dati suggeriscono che gli abitanti del pianeta non potranno mai vivere tutti “all’americana”; anzi, si avvicina il giorno in cui non lo potranno fare neppure gli stessi nordamericani.
Viene naturale pensare che il buon esempio, per ridurre l’insostenibilità dello sviluppo attuale, lo dovrebbero dare i Paesi ricchi. In realtà questo non avviene perché ogni richiamo a consumare di meno, particolarmente nel settore energetico, contrasta con l’idea sostenuta da molti economisti, e fatta propria dalla maggior parte dei politici, secondo cui è necessario che – anche nelle nostre nazioni ricche – il prodotto interno lordo (PIL) aumenti del 2–3% all’anno. ne conseguono pressanti inviti a consumare di più e incentivi alla rottamazione.
Un aumento del PIL nei Paesi sviluppati potrà forse continuare per qualche anno o qualche decennio, causando però nel frattempo gravi danni dei quali dovranno farsi carico le nuove generazioni.
PIÙ SI CONSUMA, PIÙ SI È FELICI?
Produrre di più, consumare di più, far crescere il PIL. È davvero questa la ricetta della felicità? Siamo sicuri che sia più felice un moderno imprenditore agricolo che, spinto a produrre di più e sempre più in fretta, arriva a compromettere la fertilità del suo campo, rispetto a un vecchio contadino che piantava una piccola quercia sapendo che sarebbero stati i suoi nipoti a godersene l’ombra.
Ormai si può constatare che crescita economica e benessere si vanno divaricando. Quindi per misurare il benessere si incominciano a utilizzare indici che, accanto alla produzione economica, tengono conto anche della sostenibilità sociale e di quella ambientale. Per esempio il GPI (Genuine Progress Indicator ossia indice del vero, effettivo progresso) è una metrica che ha l’obiettivo di misurare l’aumento della qualità della vita di una nazione. Perciò è calcolato distinguendo tra spese positive (che aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti stradali).
Il GPI si propone come alternativa al PIL, che considera invece tutte le spese come positive e non include tutte quelle attività che, pur non registrando flussi monetari, contribuiscono ad accrescere il benessere di una società, come il lavoro delle casalinghe o il volontariato. Si vede allora che, nei Paesi sviluppati, mentre il PIL continua a crescere, il benessere diminuisce.
Un discorso simile vale, in particolare, per il consumo di energia. Siamo portati a pensare che la qualità della vita aumenti sempre all’aumentare del consumo di energia; ma questo è vero solo per i Paesi più poveri, dove il consumo energetico pro capite è molto basso. Quando infatti questo parametro raggiunge il valore di circa 2.600 kgep l’anno (110 GJ, meno della metà dell’attuale consumo medio occidentale) un ulteriore aumento nei consumi non porta ad alcun apprezzabile miglioramento della qualità della vita.
Per esempio la mortalità infantile è leggermente più bassa in Italia che negli Stati Uniti, anche se in questi ultimi il consumo energetico a persona è oltre il doppio che in Italia. Numerosi altri indici confermano che nei Paesi sviluppati la qualità della vita non aumenta all’aumentare del consumo di energia. Analisi rigorose mostrano che questi Paesi potrebbero ridurre i loro consumi energetici del 30% senza sacrifici, anzi traendone vantaggio, poiché l’obesità energetica fa molto male.
Suddividendo l’offerta globale di energia primaria attuale (quasi 11 Gtep, 400 EJ) per il numero degli abitanti del pianeta (6,7 miliardi) si ottiene un valore di circa 60 GJ pro capite, all’incirca pari alla quantità di energia che consumava in media un cittadino dell’Europa occidentale negli anni Sessanta, oppure un cittadino dei Paesi balcanici oggi.
In altre parole oggi consumiamo globalmente una quantità di energia che permetterebbe a tutti gli abitanti del pianeta di godere uno standard di vita più che dignitoso. Purtroppo la realtà è ben diversa: oggi gli europei consumano il triplo di quanto consumavano negli anni Sessanta (180 GJ/anno), mentre canadesi e statunitensi dovrebbero tagliare i propri consumi dell’80% per arrivare alla soglia di equità dei 60 GJ a testa.
Certo non è possibile imporre con la forza ai Paesi ricchi un ritorno ai consumi di quarant’anni fa. Però i numeri citati sopra dovrebbero almeno suscitare alcune riflessioni. Per esempio: la vita dei Paesi ricchi negli anni Sessanta era davvero così grama da rendere necessario triplicare i consumi energetici? (…)

Nicola Armaroli (ricercatore presso il CNR di Bologna) / Vincenzo Balzani (professore di chimica all’Università di Bologna)

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