12/01/09

CARO AMICO TI SCRIVO


Ciao Bruno è un po’ che non ti sento e visto che siamo già oltre capodanno ho deciso di rifarmi vivo. Durante questa tua latitanza ho spesso meditato su quanto mi scrivevi nell’ultima lettera. Probabilmente hai ragione: qualcosa, tra non molto, accadrà, deve accadere. Lo si capisce drizzando le antenne. A guardare soltanto non riesci a percepirlo. C’è un’inerzia imbarazzante, come in un mezzogiorno estivo di calura afosa, che il paesaggio sembra dipinto. Un blocco culturale irremovibile. Io sopravvalutavo le capacità di rottura, convinto che ci fosse un qualche grimaldello per rompere quell’inerzia, per smuovere quel blocco. Ma mi sbagliavo. Mi illudevo che la scuola, la formazione superiore ormai generalizzata, corrispondessero anche a un’emancipazione, a un’apertura critica alle cose. Una capacità di ragionamento un po’ al di sopra dell’insufficienza. Almeno una voglia di ragionamento. E invece niente. Forse c’è attesa, forse c’è paura, non so spiegarmi esattamente. Sta di fatto che non c’è reazione. Tutto è immoto. Ogniqualvolta credi si sia rotto un tabù, che qualcuno sia pronto a tagliare con la soggezione a questo stile, devi ricrederti. Nessun taglio. Era solo un’esitazione, una momentanea titubanza. “Pensavo fosse amore e invece era un calesse” e più o meno, la similitudine calza. Cambiano le facce, cambia a volte il contesto, ma tutto rimane al suo posto. La successione delle cose scorre entro un alveo certo e rassicurante, tracciato da percorsi comportamentali perfettamente assimilati. Il lavoro del Gruppo di Discussione critica, di cui mi chiedevi conto (e che come temevo non verrà pubblicato), lo ha ben messo in evidenza. Cercherò di procurartene una copia. Insomma ci troviamo al cospetto di un monolito inscalfibile. L’autoreferenzialità è circolare, perfetta. Se non stai dentro quel “cerchio” il tuo dire è niente, non hai ascolto. Il Grande tessitore oggi è un abile professionista del consenso. È un padrino potente. Anzi un burattinaio che ha saputo approfittare della dabbenaggine della nostra comunità creando una rete che pare incredibile sia così estesa e onnicomprensiva. La colpa naturalmente sta nella pochezza culturale della base. Qui basta poco. Il consenso e, spesso, l’acquiescenza sociale vengono scambiati con misere regalie: un viaggio a Roma in gran pompa, una presidenza di una delle tante associazioni (non a caso tante), la gloria di una effimera ribalta. Insomma l’ignavia la si baratta con un semplice e temporaneo posto al sole. Da decenni il nostro venerabile determina ciò che qui si fa e ciò che qui non s’ha da fare. Il suo pacchetto di voti garantito è in grado di condizionare pesantemente i vertici amministrativi, anzi, più esattamente, di determinarli. Possiamo spingerci a parlare di mafia? Io credo di sì, anche se parrebbe un’esagerazione. Ti consiglio di leggere “Il ritorno del Principe” e sono sicuro che coglierai immediatamente il fatto che anche qui sostanzialmente siamo immersi in un contesto mafioso. Come ben ricordi, qualche tempo fa, due anni fa circa, forse tre, il Difensore Civico provinciale, a proposito, aveva dichiarato che le amministrazioni comunali in Trentino non erano affatto dei campioni di trasparenza, e in confidenza, che proprio la nostra era una delle più opache. “Narcotizzati come siamo dalla vulgata mediatica secondo cui la mafia è solo una truculenta vicenda criminale intessuta di lupare e squagliamenti di cadaveri, dimentichiamo che la definizione legale dell’associazione mafiosa è la seguente: L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasioni di consultazioni elettorali.” Ricevuto? Cogli la vicinanza? Sì, capisco che potresti obiettare che il Nostro trent’anni fa non c’era e anche in quei tempi non sospetti, in Comune i tentativi di cambiare cavallo, sono sempre falliti. Però adesso è diverso, l’immobilità granitica è garantita, per così dire, scientificamente. E nel mentre la popolazione si crogiola nelle regalie di cui sopra accennavo, la speculazione immobiliare, nel nostro paese, lungi dall’essere impedita dalla enfatizzata “legge Gilmozzi”, imperversa tranquillamente senza che alcun amministratore apra bocca. Considerato quindi che allo stato risulta impossibile produrre un cambiamento endogeno, la speranza è che le cose riescano ad auto-riformarsi per ragioni esogene, prima o poi. Saranno fatti esterni a provocare la rottura. Anche se – ce lo siamo detto e scritto altre volte – questa economia da paese dei balocchi, che ha forgiato generazioni di epicurei, farà resistenza e impedirà che il processo auto-riformatore sia rapido. Mediamente, l’obiettivo che questa schiera generazionale persegue è uno solo. Quello di approfittare di alcune (apparentemente inesauribili) contingenze rilanciando continuamente. Senza pensare, appunto, che trattandosi di contingenze non dureranno in eterno e che il rilancio infinito è impossibile. E colposamente fregandosene dell’interesse superiore. È un discorso che conosci perfettamente… Comunque, come realisticamente osservava anche il nostro buon Vittorio, le capacità di tenuta del sistema non si possono sottovalutare perché adesso i “lucignoli” sono anche "studiati”. D’altronde la comunità per perpetuarsi deve emanciparsi. Ed emancipata ora lo è, ma soltanto in apparenza. S’è emancipata soprattutto sulle etichette dei campanelli, perché è lì che ci si distingue. Davanti ai cognomi locali sono sempre più numerosi infatti i titoli accademici che fanno bella mostra di sé. Tra non molto, di questo passo, dal dottor Arduini al dottor Zorzi, passando per quasi tutte le lettere dell’alfabeto, ogni nuovo campanello di ogni nuovo appartamento potrà fregiarsi di un “Dr.”. Sarà un profluvio di sapienza? Ne beneficerà il paese? Improbabile. “Sotto il vestito niente”? Probabile. La “produzione seriale” di cultura, serve a poco. Nella maggior parte dei casi non c’è voglia di conoscenza, non c’è passione, non c’è dis-interesse. C’è soltanto valutazione di opportunità sulla base di un tornaconto economico che quel titolo potrà garantire e, non di meno, desiderio di apparire. A monte di quelle lauree, tutto è stato programmato, come nei lager di allevamento intensivo. Puoi immaginare perfettamente l’ambiente d’incubazione: un ampio soggiorno, arredato con tappeti e quadri dai soggetti bucolici e scene di caccia d’altri tempi, durante un pranzo velocemente approntato in un microonde, dove tra un marito arrivato e che conta e una moglie alla moda sempre di corsa, pensando a quei pargoli che già scalpitano e pretendono la “P” sul lunotto posteriore del fuoristrada di papà, si parla di carriere e di percorsi formativi ad hoc. Di lauree che garantiscano più opportunità di lavoro, di denaro e di prestigio sociale: commercialista piuttosto che avvocato, ingegnere piuttosto che medico, eccetera. Più raramente letterato o musicista. Semplicemente: money, money, money
Questo è il contesto in via di disfacimento. Non ci resta che piangere? Certo che no. Confidiamo nella Provvidenza e nel tuo intuito: qualcosa tra non molto accadrà. Forse. Attendo una tua nuova e ti saluto. Alla prossima e, con un po’ di ritardo, buon anno.

Ario


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