31/12/09

SÌ, SONO FRUSTRATO (MA SONO IN OTTIMA COMPAGNIA)


Gentile anonimo/a lettore/rice, una breve precisazione. La frustrazione che lei mi attribuisce è la conseguenza ineliminabile data da un sistema di vita che, alimentando un’azione tendenzialmente infinita di degrado socio-ambientale, priva l’essere umano dell’insostituibile fondamentale rapporto di equilibrio tra esso e il mondo in cui gli tocca vivere. È una condizione alla quale nessuno può sottrarsi. Quindi frustrati lo siamo un po’ tutti. Che poi taluni manifestino la propria frustrazione scrivendo e dicendo ciò che pensano (come fa, di tanto in tanto, il sottoscritto) cercando possibilmente e soprattutto di non compromettere ulteriormente la situazione socio-ambientale, ovvero (come fanno altri) avvinazzandosi in un’osteria, drogandosi nei bagni del Parlamento, girovagando stupidamente con un’automobile, andando a puttane, lavorando quarantott’ore al giorno, cercando inutilmente di sostituire ciò di cui abbisognano nel loro profondo mediante l’acquisto infinito e compulsivo di mercanzia di ogni genere, o ancora in qualsivoglia diversa altra forma e, così facendo, spesso, alimentando altro degrado, fa parte del libero arbitrio di ciascuno di noi. Paradossalmente il successo della cura che lei mi consiglia dipende proprio dall’esito, più o meno favorevole, di quella comunicazione che attraverso lo scrivere tento di fare, a dispetto suo, da un po’ di tempo. Ma, stando a quanto lei mi fa capire, la guarigione mi pare assai lontana. Ciò detto gradirei mi spiegasse, se mai riuscirà a trovare qualche mezzo minuto libero da impegni, cosa intende per “mettersi in gioco veramente”. In attesa di una sua laconica (e ovviamente anonima) risposta la ringrazio anticipatamente e la saluto.

Ario

TESERO, I RETI E IL CENÈSTRO DI SAN SILVESTRO




Non è facile. Il rischio di cadere nella trita banalità è altissimo. Si chiudono stasera gli anni Zero del terzo millennio. Vale la pena di salutare il passato con un tocco di unicità. Questa fine d’anno non la si può liquidare con un semplice lenticchie e cotechino. Per molti, scongiuri o non scongiuri, potrebbe essere l’ultima occasione per festeggiare qualcosa e sarebbe un peccato sprecarla con un menù clonato e riproposto su milioni di tavole. Un’occasione, quand’è irripetibile - dio ‘sto aggettivo, non riusciamo più a liberarcene - deve corrispondere nella sostanza par pari all’eccezionalità dell’evento.
Che fare? Che suggerire? Volevamo qualcosa che fosse al contempo vicino alla nostra gente e lontano nella storia. Pensa che ti ripensa… storia, nostra gente… nostra sente… nošša ŝente… Eureka! Ma certo che sì: Tarcio Rasu! Chi altri? Ecco l’uomo che di sicuro avrebbe trovato quel che cercavamo. E difatti…
Innanzitutto però, per soddisfare una curiosità che ci stuzzicava da un po’, volevamo capire bene l’origine storica di questa strana usanza della gozzoviglia di fine anno. Con la sua solita grande disponibilità, in modo semplice ed esaustivo, il famoso tuttologo teserano (ma di origini rom) grande esperto di usanze e tradizioni, ci ha spiegato che tale consuetudine origina addirittura dalla preistoria: all’epoca dei Reti, che proprio a Tesero (Tesero, sempre Tesero, è incredibile ma tutto sembra sia partito da questo paese!) nella località di Sottopedonda si insediarono nel V secolo avanti Cristo… Spiega Rasu: “Quelle nostre antenate popolazioni, in particolari ricorrenze del ciclo temporale, usavano offrire simbolicamente alle loro divinità i frutti della terra. Ma – precisa – la tradizione della venerazione di divinità antropomorfe è addirittura precedente (VI secolo a.C.). Possiamo supporre che presso i Reti esistessero dei santuari dedicati alla natura. E, a quanto ne so, a Sottopedonda venne praticato soprattutto il culto della fertilità: veniva offerto del grano, in boccali e in tazze, che avevano anche iscrizioni votive e riportavano il nome dell’offerente, esprimendo un nuovo tipo di rapporto con il divino, cioè il desiderio di essere in contatto con la divinità in modo personale e permanente. Le offerte erano bruciate, alternativamente, su cumuli di pietre con pozzo centrale, su piattaforme o su piani argillosi. In quel lontano tempo, il calendario retico, molto simile a quello etrusco, non prevedeva naturalmente la corrispondenza tra i giorni dell’anno e il genetliaco delle divinità, caratteristica introdotta oltre duemila anni dopo da papa Gregorio XIII con la famosa bolla «Inter Gravissimas» del 24 febbraio 1582. Il conta-giorni retico legava soltanto particolari date alle più importanti divinità di quel popolo. L’ultimo giorno del calendario retico era dedicato non a un’unica divinità, bensì a tre: il dio Silvino, il dio Silvone e il dio Silvestro (quest’ultimo poi recuperato nella tradizione cristiana). In quel giorno a quei tre dei, protettori della terra e dei suoi frutti, si dedicavano riti propiziatori che culminavano con libazioni notturne collettive all’aperto, dei veri sabba ante litteram con fuochi, canti, ubriacature ed orge. Soltanto un secolo dopo i Reti aggiunsero alle libazioni l’usanza del pasto serale. E qui – chiarisce Rasu – c’è un errore clamoroso nell’abbinamento onomastico della cena di fine anno. Infatti si crede che al dio Silvestro (poi come detto trasformato dalla tradizione cristiana in san Silvestro n.d.r.) sia abbinato il famoso cenone. In verità a quel dio si legava il cenèstro. E, correttamente, oggi si dovrebbe dire il cenèstro di San Silvestro…”
E gli altri due che fine han fatto? Chiediamo a Tarcio Rasu. “Beh, gli altri due, Silvino e Silvone, hanno avuto destini diversi. Silvino è stato ripescato e trasformato in san Silvino e si festeggia il 12 settembre mentre Silvone con quel suo grossolano accrescitivo è stato definitivamente accantonato. Nella tradizione popolare teserana il 31 dicembre però tutte e tre le divinità retiche vengono ancora festeggiate, con tre distinte sfumature che corrispondono esattamente ai suffissi dei rispettivi nomi. Perciò, predisponendo un menù più consono ai tempi grami di questo 2009 che sta per chiudersi, si parlerà del cenino di san Silvino, diversamente, infischiandosene e grandassando, come faranno comunque alcuni, si parlerà del cenone di san Silvone. Il cenèstro, stando nel mezzo, corrisponde nient’altro che a una semplice cena.” Dopo questo dotto excursus (prei)storico, sbalorditi per l’impressionante sapienza del nostro esimio compaesano, salutiamo Tarcio Rasu e proseguiamo il nostro viaggio nella tradizione locale dell’ultimo dell’anno.
Dunque, arrivando all’attualità, in pochi forse sanno (neppure noi lo sapevamo, e anche di questo dobbiamo ringraziare Rasu) che, a seguito dei ritrovamenti archeologici di Sottopedonda del 23 settembre 1987 il Comune, accortamente, con delibera giuntale del 20 aprile 1988, istituì un gabinetto parascientifico per "lo studio e la trasposizione mediante travaso della tradizione retico-sottopedondica in quella teserana" (così testualmente è scritto nella delibera). Con voto unanime la Giunta comunale decise di affidarsi a un triumvirato di saggi, con mandato a vita, composto per l’appunto da Tarcio Rasu per la consulenza storica, da Mario Fanìn per la consulenza agro-pasto-alimentare e dal compianto Matteo Baèsta per la delicata e fondamentale consulenza spirituale. Dopo un lungo e approfondito studio dei reperti storici rinvenuti, durato più di sei anni, questo comitato di saggi elaborò e predispose il cosiddetto Protocollo Ufficiale R/Sottopedonda. Il documento, custodito presso l’ufficio Storia e Costume del municipio, tra l’altro definisce esattamente le tre cene di derivazione retica che possono venire preparate a Tesero la sera del 31 dicembre. Grazie al protocollo anzidetto, Tesero si è garantito una sorta di D.O.P. (denominazione di origine protetta) che tutela il consumatore forestiero da ogni eventuale imitazione truffaldina portando ulteriore rinomanza al paese. La procedenza non è affatto complicata: scelta la divinità, ovvero il santo cui dedicare il pasto serale dell’ultimo dell’anno e la corrispettiva ampiezza del menù, non rimane che mettersi ai fornelli. Per il cenino gli ingredienti sono basilari: farina de méo e acqua. Lo chef ci ha spiegato che con queste due sostanze, per quanta buona volontà ci si possa mettere, il risultato è uno e soltanto uno, panada essenziale. Sempreché sia disponibile del fuoco per trasformare la farina in pane dessavì e il pane dessavì poi in panada dessavida, altrimenti si regredisce ancora oltre e si potrà ottenere semplicemente farina de méo smöada in acqua fredda. Non è un granché, però, stando almeno a quanto ci dice il noto chef locale Toni Nisi, la farina smöada dieteticamente è indicata per gli smilzi e per gli obesi, indifferentemente… Per il cenèstro vengono aggiunti altri ingredienti che aumentano il tasso proteico del basto. Oltre a quelli base, già inclusi nel cenino, in questa variante si aggiungono sale, brama di capra e ravi. E qui il cuoco può davvero liberare la fantasia. Con farina de méo, sale, acqua, brama di capra e ravi le combinazioni gustative si ampliano esponenzialmente. Elenchiamo i principali abbinamenti studiati e inseriti in una postilla del Protocollo (Ricettario retico) dal consulente Fanìn: peta de ravi con brama crüa, peta de ravi con brama cotta, strudel salà de ravi con brama rostìa, brama crüa con brama rostìa, pan e ravi cotti, pan e ravi crüi, farina de meo e acqua, farina de meo e pan, pan e pan. Infine il Cenone, per la verità non molto in voga nel nostro paese (la semplicità da sempre è la nostra caratteristica), comprende tra gli ingredienti, come ci ricorda sempre il consulente agro-pasto-alimentare, la poìna. È l’unico aggiuntivo previsto nel Protocollo. Poìna di capra, non vaccina - i
Reti allevavano soltanto capre -. La poìna, quantunque un adagio locale dica che “pü che še n’ magna manco še camina”, fa bene ed è buona anche da sola, ma si può combinare con le precedenti pietanze del cenino e del cenestro. Con essa gli accostamenti sono infiniti ma per ragioni di spazio qui evitiamo di elencarli. Comunque, in caso di urgenti necessità, dato che in questi giorni gli uffici comunali sono chiusi, copia completa del Ricettario retico è disponibile anche presso l’abitazione del saggio agro-pasto-alimentare Mario Fanìn, in via Fia 9, al quale potete rivolgervi senz’altro con fiducia.
Insomma, cari lettori, certi di aver colmato una piccola ma importante lacuna storica e di avervi dato una inaspettata dritta per concludere come si deve l’ultimo giorno del decimo anno del primo decennio del terzo millennio, non ci resta che invitarvi a sbizzarrirvi con tutto questo retico ben di dio. Abbiate fiducia e non abbiate fretta. Cucinate con cura. Stupirete amici e parenti facendo un figurone. Inoltre, cosa non secondaria, il basto vi costerà poco, non farete indigestione (forse) e in ogni modo, in questi tempi di memoria corta, ve lo ricorderete per un gran pezzo. Almànco sin a la marèna del primo de l’an.
Evviva!

Ario Dannati

29/12/09

COCAINA: DA FREUD ALLA COCA COLA. TUTTE LE PISTE DI UNA STORIA OCCIDENTALE


Nel 2011 i consumatori di cocaina saranno circa 700mila, il 5% in più rispetto al numero di consumatori del 2008». Scriveva il Corriere della Sera quest'estate. E questo è solo uno dei continui articoli, inchieste, scoperte che i mezzi di informazione pubblicano quasi quotidianamente sulla cocaina. Come se il grande consumo della sostanza fosse stato scoperto soltanto adesso. Invece, quella della cocaina è una storia che non inizia neanche in questo millennio bensì si perde nella notte dai tempi. Recentemente le nuove tecnologie hanno potuto trovare traccia nei capelli di mummie cilene del 2000 a.C. della presenza di benzoilecgonina, un metabolita della cocaina. Al nostro secolo si deve tuttavia l'uso degli effetti per la ricreazione, il proibizionismo, ma soprattutto il grande volume d'affari. Nel 1884 il dottor Sigmund Freud pubblica un volumetto a lui tanto caro Über Coca. Il padre della psicanalisi racconta con molto entusiasmo, la scoperta di questa sostanza sperimentata su sé stesso per curare la depressione. In una lettera del 21 aprile del 1884 così racconterà alla fidanzata: «Ho letto della cocaina (….) Me ne sto procurando un po' per me e poi vorrei provarla per curare le malattie cardiache e gli esaurimenti nervosi…». Purtroppo però la natura è crudelmente avara nel dispensare il piacere. Più l'esperienza è eccitante, più il cervello soffre quando si rende conto che è già finita. Con il passare del tempo, Freud si accorge che ci volevano dosi sempre più forti o più frequenti per ottenere lo stesso risultato tanto che molti dei suoi pazienti finirono per assuefarsi. Così come il patologo e suo amico Ernst Fleischl, che diventerà tristemente noto alla storia come il primo caso di psicosi cocainica. Tuttavia Freud una cosa l'aveva capita molto bene: la possibilità di sfruttare questa sostanza per trarne un profitto, il suo sogno era quello di comprarsi finalmente una casa. E molti dopo di lui seguirono questa strada. Così il giovane chimico corso Angelo Mariani che a Parigi produsse quell'ottimo vino con estratti di coca che tanto Papa Leone XIII raccomandò per le messe cantate apparendo addirittura in un manifesto per farne pubblicità; mentre l'intraprendente farmacista americano John Pemberton che produsse una delle bevande ancora più bevute al mondo: la Coca cola. Ogni bottiglietta, prima del proibizionismo, conteneva l'equivalente di una piccola dose di cocaina. «Oggi la cocaina vale più del suo peso in oro. Il suo prezzo è all'origine circa il quattro per cento del prezzo di vendita al dettaglio» scrive il docente di Farmacologia di Cagliari, Gian Luigi Gessa nel suo libro Cocaina (Rubbettino, 2008), che aggiunge come «La rivista Fortune colloca l'industria della cocaina illegale al settimo posto nella lista delle cinquecento maggiori imprese economiche, tra Gulf Oil e Ford Motor Company». Nel 2003 le vendite della sostanza nelle strade americane hanno raggiunto i 35 miliardi di dollari. E non appena il mercato statunitense si è saturato, quelli in Europa si sono mostruosamente aperti. Tanto che oggi la cocaina non è più esclusiva degli strati abbienti della società, non è appannaggio di fotomodelle o imprenditori, oggi si trova raccolta in "pezzi", appallottolata nelle tasche della gente comune, nelle borsette delle signore, nei portafogli del lavoratori, negli zaini degli studenti, nella cassaforte dei politici, ovunque. Ne hanno trovato percentuali imbarazzanti perfino nelle acque dell'Arno e residui in quasi tutte le banconote che maneggiamo. Pippata, scaldata, tagliata, fumata oggi la cocaina viene usata indistintamente con o senza permesso di soggiorno, con o senza contratto a tempo indeterminato, ricco o povero, uomo o donna che sia. A fronte di una politica del guadagno folle che sta giustificando militarizzazioni e politiche proibizioniste che riempiono le galere. Potremmo dire che è tutta colpa degli inca? Gli abitanti dell'area compresa tra Colombia, Perù e Bolivia, dove si producono i tre quarti della cocaina del mondo, masticano foglie di coca da migliaia di anni. Non solo per le sue proprietà stimolanti - che cancellano la fatica e danno l'energia necessaria per affrontare le ripide salite nell'aria rarefatta di quella regione montuosa - ma anche per le sue qualità alimentari, poiché le foglie contengono vitamine e proteine. Poi arrivarono i conquistadores con il loro divieto definendola "uno strumento del diavolo", per poi scoprire che senza quel "dono degli dei" gli indigeni non riuscivano a lavorare nei campi o a estrarre l'oro. Improvvisamente la coca fu legalizzata e anche tassata e gli invasori cominciarono a tenere per sé un decimo dei raccolti. Le foglie erano distribuite ai contadini tre o quattro volte al giorno, durante le pause dal lavoro. Addirittura la chiesa cattolica cominciò a coltivarla. Poiché le foglie sopportavano male il viaggio venivano esportate in Europa solo sporadicamente, così negli Stati Uniti, come nel Vecchio Continente ben presto arrivò la sostanza lavorata e in polvere. Una storia che però si ripete ancora oggi. Nel 2006 il regista Andrea Zambelli si reca in Colombia per un progetto di alfabetizzazione comunicativa, qui realizza Mercancia , un documentario che segue tutto il processo di "fabbricazione" di questa sostanza nella regione del Magdalena-Medio, nei vari passaggi di produzione fino alla pasta. Ma soprattutto raccoglie il racconto degli stessi contadini e si sofferma sui gruppi paramilitari che gestiscono gli scambi della cocaina fra campesinos e narcotrafficanti. Dalla raccolta della pianta fino alla raffinazione ogni passo viene tassato dai gruppi paramilitari come una qualsiasi transazione economica. In venti velocissimi minuti, il regista mostra l'esistenza di una piccola comunità di coltivatori dalle tradizioni salde e dalla vita rurale. Nulla di più distante, dunque, da ciò che nel nostro immaginario può rappresentare un narcotrafficante. Nessun campesinos, infatti, è consumatore o fruitore della cocaina, né partecipe, se non in minima parte, degli incredibili guadagni legati al commercio di questa sostanza. In questi paesi, costretti spesso a lavorare nei campi di coca per poter sostentare le proprie famiglie, i contadini tramandano di padre in figlio la tradizione per la raccolta e la preparazione della pasta. L'opprimente condizione imposta dai narcotrafficati e i metodi brutali di repressione dei paramilitari impediscono la formazioni di oppositori e i pochi sindacalisti che coraggiosamente si mettono contro di loro vengono spesso messi a tacere. Ed è proprio questo il problema principale: il guadagno. Nelle nazioni di produzione un grammo di cocaina (come reso noto dalle Direzioni internazionali per la lotta alla droga) viene pagato un euro per una purezza pari al 95%. Sul mercato occidentale bene che va viene rivenduta con soltanto il 25-30% di principio attivo, con un guadagno del 1.200%. Del resto Roberto Saviano in Gomorra ci parla di un «fatturato 60 volte superiore a quello della Fiat». E questo solo in Italia. Sarà per questo che la cocaina viene chiamata "il petrolio bianco", il vero miracolo del capitalismo contemporaneo, in grado di superare qualsiasi crisi economica. Così i mercati crollano e il prezzo della cocaina in Occidente scende ma non quello del fatturato. Un vero affare.


Cristina Petrucci

PASSAPAROLA - 28/12/2009

27/12/09

IL FIASCO DI COPENHAGEN. L'IMPOSSIBILE PATTO TRA AMBIENTE E CAPITALISMO


Per non decidere nulla, decidendo in realtà che il disastro ambientale può tranquillamente proseguire, si sono riuniti a Copenhagen in 15.000 (quindicimila). Per raggiungere la capitale danese in aereo (alcuni, come Obama e Sarkozy, con i rispettivi jet presidenziali) e per spostarsi con le loro auto di lusso (secondo il Telegraph erano presenti 1.200 «limousine»), hanno prodotto l’emissione di 40.500 tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente delle emissioni annue di 660mila etiopi. Non è uno scherzo, sono dati ufficiali dell’ONU, forse resi noti per dare ancora un qualche senso alla propria attività sul fronte climatico dopo il fallimento consumatosi nella città della Sirenetta. Un fallimento annunciato, ma che ha superato al ribasso la più pessimistica delle previsioni.
Il “Disaccordo storico” Quello che è stato sancito alla conclusione della Conferenza è stato definito un “Disaccordo storico”. Insomma, un fiasco totale scandito dall’andamento surreale dei lavori, che ripercorriamo in breve. All’inizio, come inevitabile, la fanno da padrona – tanto non costa niente – la retorica ed i buoni sentimenti. Al punto che Copenhagen diventa per i creduloni, tanto più per quelli di stretta osservanza obamiana, Hopenhagen. I media, ovviamente, parlano di clima positivo e di ottimismo. Poi, al secondo giorno, salta fuori la
bozza segreta rivelata dal Guardian: una risoluzione finale già elaborata prima che la Conferenza cominciasse, del tutto sfavorevole ai paesi del terzo mondo. Che compatti rispondono picche. Da lì in avanti il previsto fallimento si è trasformato ogni giorno di più in assoluta certezza. Restava da capire come si sarebbe consumata la farsa finale. Tutti sapevano che sarebbe arrivato da Washington se non proprio il “Salvatore”, almeno il paladino della green economy. L’altro “Salvatore” – stiamo parlando del megalomane che risiede all’Eliseo, che si era attribuito la missione di “Salvare la Terra” – aveva già rinunciato al suo modestissimo proposito, andandosene da Copenhagen già al secondo giorno. Alla fine, il penultimo giorno, Obama è arrivato. Ha incontrato il primo ministro cinese, Wen Jabao, con il quale si dice abbia discusso aspramente, arrivando infine alla decisione di non decidere niente. La montagna di Copenhagen ha così partorito il più classico dei topolini: un testo privo di contenuti, di impegni, di vincoli. Un niente sottoscritto da Usa e Cina, ma anche (affinché non si parlasse troppo di G2) da India, Brasile e Sudafrica. L’Europa si è adeguata, accettando amaramente di non contare ormai più nulla. Gli altri non hanno proprio sottoscritto un bel niente, inventandosi all’atto finale la formula un po’ irrituale, ma assai significativa, della “presa d’atto”. Del resto tutti, ma proprio tutti, hanno dovuto “prendere atto” del fallimento totale di una Conferenza dove si sono fatti molti sforzi per nascondere la polvere sotto il tappeto, prima ancora che cercare di ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera.
Quel nulla chiamato “Copenhagen Accord” Sfidando arditamente il senso del ridicolo, hanno voluto chiamare “Accordo di Copenhagen”, un testo “riconosciuto”, ma non approvato dai 193 Paesi presenti alla Conferenza. La cosa più importante da capire, infatti, prima ancora del contenuto del testo “riconosciuto”, è il suo carattere assolutamente non vincolante. C’è qui un’enorme differenza con il Protocollo di Kyoto del 1997, con il quale 37 Paesi industrializzati (ma non gli Stati Uniti) si impegnavano a ridurre le emissioni di sei gas serra di almeno il 5,2% rispetto al 1990 (ormai convenzionalmente assunto come “anno zero”) entro il 2012. Il protocollo fu sottoscritto da 160 Paesi, ma imponeva la riduzione delle emissioni solo a quelli maggiormente industrializzati, 37 appunto. Sia chiaro, questi impegni sono stati completamente disattesi. Giusto per fare un esempio, basti pensare che la produzione di CO2 di questi Paesi è aumentata nel solo periodo 2000-2009 di quasi il 30%, nonostante la riduzione dell’ultimo anno dovuta agli effetti della crisi economica. Tuttavia Kyoto stabiliva almeno dei precisi obiettivi, per quanto modesti, ed i contraenti si impegnavano (anche se, come abbiamo visto, solo sulla carta) a rispettarli. Nulla di tutto ciò è avvenuto a Copenhagen. L’Accordo di Copenhagen (utilizziamo questa terminologia assolutamente impropria solo per comodità) ribadisce che “l’aumento della temperatura globale dovrebbe (notare il condizionale – ndr) restare contenuto sotto i due gradi centigradi”. Questa debolissima premessa è in realtà l’unico pezzo “forte” del documento conclusivo. Tutto il resto che era stato oggetto delle trattative che hanno preceduto la Conferenza è scomparso. Scomparsa ogni indicazione quantitativa sui tagli delle emissioni, scomparsa ogni data di riferimento. Qualcuno ricorda, ad esempio, l’obiettivo della riduzione delle emissioni del 50% entro il 2050? Totalmente scomparso. Ora ogni Paese si auto-assegnerà degli obiettivi teoricamente auto-vincolanti. Ma se non ha funzionato il protocollo di Kyoto, perché mai dovrebbe funzionare una soluzione così strampalata? Ed infatti nessuno ci crede davvero. Si è molto parlato dei finanziamenti dei Paesi ricchi a quelli poveri, per favorire il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. In realtà anche su questo non c’è niente di certo, in particolare non si dice da dove verranno i soldi, alimentando il sospetto che si intenda stornarli da altri fondi già destinati alla “cooperazione internazionale”. Perfino l’accordo sulla protezione delle foreste, che sembrava ormai acquisito, è tornato incerto e confuso nel testo finale. L’accordo si limita a dire che “Riconosciamo il ruolo cruciale del ridurre le emissioni della deforestazione”. Insomma, a Copenhagen hanno scoperto che gli alberi assorbono anidride carbonica! Forse non avranno il Nobel – non tutti si chiamano Obama! – ma certo nessuno potrà togliergli un bell’invito alla “festa degli alberi”, con tanto di scolaresche e pic-nic.
Quali sono stati gli attori della Conferenza? Visti i contenuti dell’accordo, e prima di arrivare ad alcune necessarie conclusioni, è ora utile soffermarsi sul ruolo avuto dai diversi protagonisti della Conferenza. Di Obama si è già detto, ma restano da aggiungere due considerazioni. La prima riguarda la sua ineguagliabile faccia di bronzo, che lo ha portato a parlare di “un accordo significativo, anche se insufficiente”. La seconda riguarda invece la sua arroganza. E’ arrivato, ha chiuso l’accordicchio e se ne è ripartito di corsa verso gli Stati uniti senza neppure attendere la conclusione formale dei lavori. Ha umiliato, sapendo di umiliarla, l’Europa. Non ha degnato neppure di uno sguardo le posizioni del terzo mondo e del G77. Sull’Europa non c’è nulla da aggiungere a quanto già detto. L’Unione ama fare la prima della classe in materia ambientale, ma il suo attuale peso politico è uguale a zero ed a Copenhagen si è visto. La Russia è stata un’altra grande assente, ma forse i suoi rappresentanti, ben avvertiti della certezza del fallimento e senza la necessità di dover recitare una parte nella commedia, al contrario degli europei, hanno scelto deliberatamente di disinteressarsene. La Cina ha fatto la parte che gli compete. Ha agito da potenza emergente, ma senza perdere il contatto con i Paesi della periferia, dagli africani ai latinoamericani dell’Alba (Alleanza Bolivariana per le Americhe). Wen Jabao ha certamente portato a casa il “diritto di inquinare”, ma ha giustamente respinto il tentativo occidentale di scaricare su Pechino il fallimento della Conferenza. Giustamente, non solo perché le emissioni pro-capite dei cinesi sono ancora notevolmente più basse di quelle degli americani e degli europei, ma anche perché la Cina è il paese che sta investendo di più nei progetti ambientali, ed in generale nella cosiddetta green economy. Il G77, che raggruppa ormai 131 Paesi inclusa la Cina, ha respinto fin dall’inizio dei lavori il tentativo occidentale di scaricare anche la questione climatica sui paesi più poveri del pianeta. In particolare questo raggruppamento piuttosto composito, presieduto dal sudanese Lumumba Di-Aping, bocciando da subito la risoluzione segreta predisposta dalla presidenza danese, ha fatto emergere immediatamente le contraddizioni e l’ipocrisia dello schieramento occidentale. “Il testo ruba ai paesi in via di sviluppo la loro quota giusta ed equa di spazio atmosferico. Cerca di trattare ricchi e poveri allo stesso modo”, questo il lapidario giudizio espresso da Di-Aping. Se ferma è stata la posizione durante la Conferenza, ugualmente netto il giudizio finale: “Questo accordo infliggerà massiccia devastazione all’Africa e alle piccole nazioni-isola. Hanno mostrato il livello di ambizione più basso che si possa immaginare”. Con queste parole il presidente sudanese del G77 ha chiarito che nessuna copertura è stata data all’accordo finale, benché sottoscritto da quattro stati membri (Cina, India, Brasile e Sudafrica). Un discorso a parte va fatto per i Paesi dell’Alba. I Paesi dell’alleanza bolivariana (Venezuela, Bolivia, Ecuador, Cuba, Nicaragua, Antigua e Barbuda, Dominica, Saint Vincent e Grenadine) a Copenhagen hanno marcato con forza la loro presenza. Oltre all’importante
discorso di Chavez, c’è stato un forte attivismo durante tutti i lavori della Conferenza. E per sottolineare l’assoluta alternatività delle proprie posizioni, i membri dell’Alba si sono ritrovati il 17 dicembre in una sorta di contro vertice al palazzetto dello sport del Valbyhallen dove, davanti a 3.500 persone, si sono dati il cambio al microfono Chavez, Morales e gli altri esponenti bolivariani presenti. Morales, preannunciando il fallimento certo della Conferenza, l’ha spiegato con l’inconciliabilità degli interessi e dei punti di vista in campo, ma soprattutto con l’impossibilità di fronteggiare il problema climatico affrontando solo gli effetti del riscaldamento globale, ma non le sue cause. Qual è allora l’alternativa? “El socialismo”, ha ripetuto Chavez. Nessuno pensi che le posizioni dell’Alba a Copenhagen siano state dottrinarie o propagandistiche. I rappresentanti bolivariani sono entrati decisamente nel merito dei problemi, ma mai rinunciando ad evidenziare l’inconciliabilità dell’obiettivo di difendere il pianeta con la volontà delle potenze dominanti di salvare in ogni modo il capitalismo.
L’alternativa di sistema Se la conclusione della Conferenza ha dimostrato, in negativo, che il capitalismo è strutturalmente incapace di risolvere la contraddizione tra la propria natura e le esigenze ambientali di fondo; i leader bolivariani hanno avuto il merito di far emergere, in positivo, la necessità e la possibilità di un’alternativa di sistema. Il fallimento dimostra innanzitutto la difficoltà complessiva di un sistema in crisi. Una crisi che non è solo economica, ma che si manifesta anche come incapacità di rispondere alle più elementari esigenze sociali, in questo caso il semplice diritto alla vita sul pianeta. Ma questa volta, nonostante la farsa finale di un accordo che sancisce solo il disaccordo, i potenti della terra non sono riusciti a nascondere il più clamoroso dei fiaschi. Prima di concludere ci sia concesso un breve inciso. Alcuni appassionati di dietrologia avevano ipotizzato che dietro a tanta (apparente) passione per il clima ci fosse il solito complotto per far digerire al mondo una sorta di governo planetario, o quantomeno per imporre una svolta “verde” al mondo della produzione, in modo da fare della green economy uno dei possibili traini per superare la crisi. Come è del tutto evidente, il capitalismo è assolutamente indifferente al fatto che i propri profitti vengano alimentati dall’eolico piuttosto che dal carbone, ciò che conta è che i profitti ci siano. Il capitalismo, dunque, è ben felice di poter sviluppare la green economy; quello che invece non può proprio fare è mettere in discussione il meccanismo della “crescita”, specie nei Paesi dominanti. Non dubitiamo, perciò, che alcuni settori industriali favoriscano la diffusione di dati ed analisi allarmiste, come al contrario (ma per gli stessi motivi) ve ne sono altri pronti a dimostrare che i gas serra non hanno alcun effetto sull’ambiente e sul clima. Da qui a vedere sempre in atto il complotto ce ne (dovrebbe) corre(re). La verità è che vi sono, anche in questo ambito, spinte e controspinte che corrispondono ai diversi interessi in gioco. In ogni caso, se il complotto “allarmista” vi fosse realmente stato, bisognerebbe ora spiegare il suo esito totalmente disastroso. Ma chiedere un simile esercizio ad un dietrologo sarebbe come proporre un bicchiere d’acqua minerale ad un alcolista. Chi pensava ad una “conversione ecologista” del capitalismo è dunque rimasto deluso. Il dogma della “crescita”, un concetto quantitativo che ormai si è separato da quello di “sviluppo”, non può essere messo in discussione nella cornice del sistema. Tra ambiente e capitalismo non può esserci un vero patto, meno che mai un matrimonio. Giustamente uno slogan dei manifestanti di Copenhagen, ripreso nel discorso di Chavez, diceva “Non cambiate il clima, cambiate il sistema”. Anche per la strada di un ambientalismo serio e coerente torna dunque a riproporsi la necessità di un anticapitalismo che sappia rilanciarsi sulla base di una nuova prospettiva socialista. Non era scontato che da Copenhagen giungesse questo segnale. Invece è arrivato, e forse anche questo è un segno del cambiamento di fase che stiamo vivendo.


Leonardo Mazzei Fonte: campoantimperialista


25/12/09

CARTOLINA DI NATALE


25 dicembre. Di nuovo Natale. Catenarie, candele, vetrine spruzzate di figurine stilizzate, pastori di compensato con l’indice verso un qualche ‘scortolo’ del paese, luminarie accese ovunque, ma prive di gioia e stupore per quel bambino nato in una capanna palestinese 2000 e rotti anni fa. Niente di nuovo. Le solite cose. Le solite facce. I soliti ‘carri armati’ che gironzolano rumorosi e puzzolenti alla ricerca di un introvabile posto macchina con a bordo pasciuti cafoncelli padani pronti ad assaltare, dopo le messe di rito e i bagordi odierni, i paradisi dello ski center. Per loro eventi, eventi e ancora eventi. Meravigliosi, unici! Per noi, meno epicurei, la solita noia appesantita dall’ipertrofica iconografia natalizia dispiegata in ogni dove, che stride con la realtà delle cose: soltanto un ciclo temporale che si chiude preludendo all’apertura di un altro. In questi giorni di massima finzione, mi viene da pensare a lei signor Parroco. A quella enorme canonica in cui è recluso da oltre dieci anni con i suoi pensieri e le sue ansie, la sua solitudine. Penso alle tante prediche che in anni di cura d’anime avrà preparato per questa festosa occasione e per questa comunità che delle sue parole, in tutta evidenza, non gliene frega niente e va in chiesa per pura abitudine. Che tristezza! Ma lei capisce perfettamente, ha occhi per vedere e orecchie per sentire. E allora delle due l’una: o sta fingendo, come fanno i ‘fedeli’, oppure si sta trattenendo. Dato il periodo, faccio un fioretto e le concedo la seconda ipotesi. Mi chiedo allora se non le sia mai balenata l’idea di dirglielo chiaro, almeno una volta. Di sbottare furioso da quel pulpito, ormai solo virtuale, per questa immonda commedia che il suo insensibile gregge recita ogni anno, seppur sempre più svogliatamente; di cantargliele secche a quei fingitori incalliti che della sua missione pastorale e del suo impegnativo compito di guida spirituale non gliene può importar di meno. E soprattutto mi chiedo se una comunità, così evidentemente succube del materialismo in cui è immersa, possa anche avere un recondito sotterraneo afflato di spiritualità. Sinceramente ne dubito. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa. In più di 10 anni alla guida della parrocchia una qualche idea se la dovrebbe essere fatta. Io penso male e sto peccando di superbia, lo so, ma vedo soltanto ipocrisia. Credo che quando si aderisce a qualcosa, per esempio a una fede, ogni azione dovrebbe esserne convintamente conseguente. E invece qui tutto si riduce alla riproposizione di una vuota liturgia di atti e parole prive di significato da parte sua, e di una pappagallesca e svogliata presenza in chiesa da parte dei ‘fedeli’.
E allora riflettendo mi rendo conto che senza una sua complicità questa commedia non potrebbe venir recitata. Dunque devo toglierle quell’attenuante che le avevo appena concesso qualche riga sopra. Penso che neppure lei sia granché convinto di ciò che dice. Se lo fosse agirebbe diversamente. Penso che lei, per quieto vivere (e per quel che può) cerchi di allontanare o rimuovere del tutto i pensieri più ‘ingombranti’: la coerenza le costerebbe troppo. Così come fa tutta la Chiesa cattolica. Ecco perché essa lotta con forza inaudita soltanto in difesa dei simboli e dei significanti. Mai, con eguale veemenza (e coerenza), per il loro significato autentico e profondo. Ecco perché voi ecclesiastici (rare eccezioni a parte) evitate sempre di rispondere e vi tenete alla larga dal merito delle tante questioni che vanno a compromettere l’equilibrio di quel creato di cui tanto parlano le Scritture e che sono la ragione del disfacimento del mondo. A precisa domanda opponete il silenzio. Parlate d’altro. Vi nascondete. Fate i muri di gomma.
Si ricorda di quella lettera che le portai in canonica dieci anni fa, il 31 dicembre del 1999? Ebbene, nonostante le rassicurazioni che a voce mi diede un po’ di tempo dopo, sto ancora aspettando la sua risposta. Ma sono fiducioso: sono passati appena 3647 giorni! Vede, signor Parroco? Non mi resta che il sarcasmo. Lei ovviamente non mi risponderà mai più. Forse non ricorda neppure il contenuto di quello scritto. Ma non importa. Sono perfettamente abituato al silenzio delle ‘istituzioni’, laiche o religiose che siano, e all’impostura che questa gente, grazie anche al secolare lavorio della Chiesa, ha perfettamente assimilato e ben pratica. E so bene che per lei l’importante è che la domenica, e maggiormente nelle solennità comandate, in chiesa entri il maggior numero di ‘fedeli’ (qualcuno dei quali magari con la Ferrari lasciata ben in vista davanti alla canonica) e che sul bollettino parrocchiale, che anch’io ricevo, possa raccontare, di tanto in tanto, di quell’umanità paesana che non c’è e che a forza di far finta si è convinto ci sia.

un Peccatore irredimibile

22/12/09

NATALE, SULLA PROVINCIA NEVICA





Tra i lari confortevoli,
un sentimento conserva
i sentimenti passati.
Cuore contrapposto al mondo,
come la famiglia è verità!
Il mio pensiero è profondo,
sto solo e sogno rimpianto.
E com’è bianco di grazia
Il paesaggio che non so,
visto per la vetrata,
della casa che mai avrò!

Fernando Pessoa



IL POETA E' UN FINGITORE?
Fernando Antonio Noguero Pessoa, nasce e muore a Lisbona, nel breve spazio di tempo compreso tra il 1888 ed il 1935. Molte delle sue opere (quasi tutte pubblicate dopo la sua morte) le scrive attribuendole ai suoi eteronimi, Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro ed altri minori. Molti si sono soffermati sulla straordinarietà di questo autore e sulla sua originalità. A noi interessa soprattutto questo suo modo di essere e di non essere, relativo alla sensazione dolorosa e stupefacente di sentirsi attori di se stessi e dei propri sentimenti, interpreti di realtà modificate e modificabili da improvvisi quanto inaspettati cambi di scena su un palcoscenico in cui si susseguono maschere tragiche, poi comiche, poi ancora tragiche, ad libitum, e che mutano in misura dei nostri stessi disperati mutamenti. Ci interessano le sue "voci di dentro" attraverso le quali esprime la propria lucida inquietudine. E con Pessoa ci domandiamo se il poeta è davvero un fingitore e se è vero che "finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente". E poco importa se il dolore nasce dai sogni, dalla paura della follia, dalla consapevolezza della propria solitudine o dalla grande indifferenza delle stelle. È dolore, comunque.
Anna Intartaglia

20/12/09

INVERNO

SE IL CLIMA FOSSE UNA BANCA, L’AVREBBERO GIA’ SALVATO


Signor Presidente, signori, signore, amici e amiche, prometto che non parlerò più di quanto sia già stato fatto questo pomeriggio, ma permettetemi un commento iniziale che avrei voluto facesse parte del punto precedente discusso da Brasile, Cina, India e Bolivia. Chiedevamo la parola, ma non è stato possibile prenderla. Ha parlato la rappresentante della Bolivia, e porgo un saluto al compagno Presidente Evo Morales qui presente, Presidente della Bolivia. Tra varie cose ha detto, ho preso nota: il testo che è stato presentato non è democratico, non è rappresentativo di tutti i paesi. Ero appena arrivato e mentre ci sedevamo abbiamo sentito il Presidente della sessione precedente, la signora Ministra, dire che c’era un documento da queste parti, che però nessuno conosce: ho chiesto il documento, ancora non l’abbiamo. Credo che nessuno sappia di questo documento top secret. Certo, la collega boliviana l’ha detto, non è democratico, non è rappresentativo, ma signori e signore: siamo forse in un mondo democratico? Per caso il sistema mondiale è rappresentativo? Possiamo aspettarci qualcosa di democratico e rappresentativo nel sistema mondiale attuale? Su questo pianeta stiamo vivendo una dittatura imperiale e lo denunciamo ancora da questa tribuna: abbasso la dittatura imperiale! E che su questo pianeta vivano i popoli, la democrazia e l'uguaglianza! E quello che vediamo qui è proprio il riflesso di tutto ciò: esclusione. C'è un gruppo di paesi che si credono superiori a noi del sud, a noi del terzo mondo, a noi sottosviluppati, o come dice il nostro grande amico Eduardo Galeano: noi paesi avvolti come da un treno che ci ha avvolti nella storia [sorta di gioco di parole tra desarrollados = sviluppati e arrollados = avviluppati NdT]. Quindi non dobbiamo stupirci di quello che succede, non stupiamoci, non c'è democrazia nel mondo e qui ci troviamo di fronte all'ennesima evidenza della dittatura imperiale mondiale. Poco fa sono saliti due giovani, per fortuna le forze dell'ordine sono state decenti, qualche spintone qua e là, e i due hanno cooperato, no? Qui fuori c'è molta gente, sapete? Certo, non ci entrano tutti in questa sala, sono troppi; ho letto sulla stampa che ci sono stati alcuni arresti, qualche protesta intensa, qui per le strade di Copenhagen, e voglio salutare tutte quelle persone qui fuori, la maggior parte delle quali sono giovani. Non ci sono dubbi che siano giovani preoccupati, e credo abbiano una ragione più di noi per essere preoccupati del futuro del mondo; noi abbiamo – la maggior parte dei presenti – già il sole dietro le spalle, ma loro hanno il sole in fronte e sono davvero preoccupati. Qualcuno potrebbe dire, Signor Presidente, che un fantasma infesta Copenhagen, parafrasando Karl Marx, il grande Karl Marx, un fantasma infesta le strade di Copenhagen e credo che questo fantasma vaga per questa sala in silenzio, gira in quest'aula, tra di noi, attraversa i corridoi, esce dal basso, sale, è un fantasma spaventoso che quasi nessuno vuole nominare: il capitalismo è il fantasma, quasi nessuno vuole nominarlo. È il capitalismo, sentiamo ruggire qui fuori i popoli. Stavo leggendo qualcuna delle frasi scritte per strada, e di questi slogan (alcuni dei quali li ho sentiti anche dai due giovani che sono entrati), me ne sono scritti due. Il primo è Non cambiate il clima, cambiate il sistema. E io lo riprendo qui per noi. Non cambiamo il clima, cambiamo il sistema! E di conseguenza cominceremo a salvare il pianeta. Il capitalismo, il modello di sviluppo distruttivo sta mettendo fine alla vita, minaccia di metter fine alla specie umana. E il secondo slogan spinge alla riflessione. In linea con la crisi bancaria che ha colpito, e continua a colpire, il mondo, e con il modo con cui i paesi del ricco Nord sono corsi in soccorso dei bancari e delle grandi banche (degli Stati Uniti si è persa la somma, da quanto è astronomica). Ecco cosa dicono per le strade: se il clima fosse una banca, l'avrebbero già salvato. E credo che sia la verità. Se il clima fosse una delle grandi banche, i governi ricchi l'avrebbero già salvato. Credo che Obama non sia arrivato, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace quasi nello stesso giorno in cui mandava altri 30mila soldati ad uccidere innocenti in Afghanistan, e ora viene qui a presentarsi con il Premio Nobel per la Pace, il Presidente degli Stati Uniti. Gli USA però hanno la macchinetta per fare le banconote, per fare i dollari, e hanno salvato, vabbè, credono di aver salvato, le banche e il sistema capitalista. Bene, lasciando da parte questo commento, dicevo che alzavamo la mano per unirci a Brasile, India, Bolivia e Cina nella loro interessante posizione, che il Venezuela e i paesi dell'Alleanza Bolivariana condividono fermamente; però non ci è stata data la parola, per cui, Signor Presidente, non mi conteggi questi minuti, la prego. Ho conosciuto, ho avuto il piacere di conoscere Hervé Kempf – è qui in giro -, di cui consiglio vivamente il libro “Perché i mega-ricchi stanno distruggendo il pianeta”, in francese, ma potete trovarlo anche in spagnolo e sicuramente in inglese. Per questo Cristo ha detto: E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio. Questo l'ha detto Cristo nostro Signore. (...) Bene, Signor Presidente, il cambiamento climatico è senza dubbio il problema ambientale più devastante di questo secolo, inondazioni, siccità, tormente, uragani, disgeli, innalzamento del livello del mare, acidificazione degli oceani e ondate di calore, tutto questo acuisce l'impatto delle crisi globali che si abbattono su di noi. L'attività umana d'oggi supera i limiti della sostenibilità, mettendo in pericolo la vita del pianeta, ma anche in questo siamo profondamente disuguali. Voglio ricordarlo: i 500 milioni di persone più ricchi del pianeta, 500 milioni, sono il sette per cento, sette per cento, sette per cento della popolazione mondiale. Questo sette per cento è responsabile, questi cinquecento milioni di persone più ricchi sono responsabili del cinquanta per cento delle emissioni inquinanti, mentre il 50 per cento più povero è responsabile solo del sette per cento delle emissioni inquinanti. Per questo mi sembra strano mettere qui sullo stesso piano Stati Uniti e Cina. Gli Stati Uniti hanno appena 300 milioni di abitanti. La Cina ha una popolazione quasi 5 volte più grande di quella degli USA. Gli Stati Uniti consumano più di 20 milioni di barili di petrolio al giorno, la Cina arriva appena ai 5,6 milioni di barili al giorno, non possiamo chiedere le stesse cose agli Stati Uniti e alla Cina. Ci sono questioni da discutere, almeno potessimo noi Capi di Stato e di Governo sederci a discutere davvero di questi argomenti. Inoltre, Signor Presidente, il 60% degli ecosistemi del pianeta hanno subito danni e il 20% della crosta terrestre è degradata; siamo stati testimoni impassibili della deforestazione, della conversione di terre, della desertificazione e delle alterazioni dei sistemi d'acqua dolce, del sovra-sfruttamento del patrimonio ittico, della contaminazione e della perdita della diversità biologica. Lo sfruttamento esagerato della terra supera del 30% la sua capacità di rigenerazione. Il pianeta sta perdendo ciò che i tecnici chiamano la capacità di autoregolarsi, il pianeta la sta perdendo, ogni giorno si buttano più rifiuti di quanti possano essere smaltiti. La sopravvivenza della nostra specie assilla la coscienza dell'umanità. Malgrado l'urgenza, sono passati due anni dalle negoziazioni volte a concludere un secondo periodo di compromessi voluto dal Protocollo di Kyoto, e ci presentiamo a quest'appuntamento senza un accordo reale e significativo. E voglio dire che riguardo al testo creato dal nulla, come qualcuno l'ha definito (il rappresentante cinese), il Venezuela e i paesi dell'Alleanza Bolivariana per le Americhe, noi non accettiamo nessun altro testo che non derivi dai gruppi di lavoro del Protocollo di Kyoto e della Convenzione: sono i testi legittimi su cui si sta discutendo intensamente da anni. E in queste ultime ore credo che non abbiate dormito: oltre a non aver pranzato, non avete dormito. Non mi sembra logico che ora si produca un testo dal niente, come dite voi. L'obiettivo scientificamente sostenuto di ridurre le emissioni di gas inquinanti e raggiungere un accordo chiaro di cooperazione a lungo termine, oggi a quest'ora, sembra aver fallito.Almeno per il momento. Qual è il motivo? Non abbiamo dubbi. Il motivo è l'atteggiamento irresponsabile e la mancanza di volontà politica delle nazioni più potenti del pianeta (...) Il conservatorismo politico e l'egoismo dei grandi consumatori, dei paesi più ricchi testimoniano di una grande insensibilità e della mancanza di solidarietà con i più poveri, con gli affamati, con coloro più soggetti alle malattie, ai disastri naturali, Signor Presidente, è chiaramente un nuovo ed unico accordo applicabile a parti assolutamente disuguali, per la grandezza delle sue contribuzioni e capacità economiche, finanziarie e tecnologiche, ed è evidente che si basa sul rispetto assoluto dei principi contenuti nella Convenzione. I paesi sviluppati dovrebbero stabilire dei compromessi vincolanti, chiari e concreti per la diminuzione sostanziale delle loro emissioni e assumere degli obblighi di assistenza finanziaria e tecnologica ai paesi poveri per far fronte ai pericoli distruttivi del cambiamento climatico. In questo senso, la peculiarità degli stati insulari e dei paesi meno sviluppati dovrebbe essere pienamente riconosciuta. (...) Le entrate totali delle 500 persone più ricche del mondo sono superiori alle entrate dei 416 milioni di persone più povere, i 2800 milioni di persone che vivono nella povertà, con meno di 2 dollari al giorno e che rappresentano il 40 per cento della popolazione mondiale, ricevono solo il 5 per cento delle entrate mondiale (...) Ci sono 1100 milioni di persone che non hanno accesso all'acqua potabile, 2600 milioni privi di servizio di sanità, più di 800 milioni di analfabeti e 1020 milioni di persone affamate: ecco lo scenario mondiale. E ora, la causa, qual è la causa? Parliamo della causa, non evitiamo le responsabilità, non evitiamo la profondità del problema, la causa senza dubbio, torno all'argomento di questo disastroso scenario, è il sistema metabolico distruttivo del capitale e della sua incarnazione: il capitalismo. Ho qui una citazione di quel gran teologo della liberazione che è Leonardo Boff, come sappiamo, brasiliano, che dice: Qual è la causa? Ah, la causa è il sogno di cercare la felicità con l'accumulazione materiale e il progresso senza fine, usando, per fare ciò, la scienza e la tecnica con cui si possono sfruttare in modo illimitato le risorse della terra. Può una terra finita sopportare un progetto infinito? La tesi del capitalismo, lo sviluppo infinito, è un modello distruttivo, accettiamolo. (...) Noi popoli del mondo chiediamo agli imperi, a quelli che pretendono di continuare a dominare il mondo e noi, chiediamo loro che finiscano le aggressioni e le guerre. Niente più basi militari imperiali, né colpi di Stato, costruiamo un ordine economico e sociale più giusto e equitativo, sradichiamo la povertà, freniamo subito gli alti livelli di emissioni, arrestiamo il deterioramento ambientale ed evitiamo la grande catastrofe del cambiamento climatico, integriamoci nel nobile obiettivo di essere tutti più liberi e solidari. (...) Questo pianeta è vissuto migliaia di milioni di anni, e questo pianeta è vissuto per migliaia di milioni di anni senza di noi, la specie umana: non ha bisogno di noi per esistere. Bene, noi senza la Terra non viviamo, e stiamo distruggendo il Pachanama*, come dice Evo e come dicono i nostri fratelli aborigeni del Sudamerica...

Hugo Chavez

Fonte:


Traduzione per comedonchisciotte.org a cura di MARINA GERENZANI
*Pachanama = Madre Terra

19/12/09

O.X.T. - OGGI ORE 17.00 TEATRO COMUNALE TESERO


Un’OrcheXtra Terrestre, dove la musica riesce per magia a miscelare assieme culture, profumi, colori e geografie, in una riuscita ricetta world music, dove il Salento ritrova il Magreb, il popolo del Vento riscopre l’ India, le Alpi incontrano i Balcani, Europa e Americhe si guardano allo specchio, in una vera e propria fusione tra Sud Nord Est ed Ovest. Lo sguardo è anche in su, oltre il cielo, verso altri pianeti ed orizzonti: Musiche dell’Altro Mondo, in una vera e propria atmosfera extra-terrestre.

Un’OrcheXtra-Terrestre che dopo un lungo viaggio nelle culture musicali terrestri atterrerà a Tesero stasera 19 dicembre al teatro comunale e in un'atmosfera molto particolare ragalerà all'uditorio una miscela di suoni, idiomi, profumi, colori e geografie della Terra.

Un’OrcheXtra-Vagante: musiche da viaggio, alla scoperta di continenti, stati, regioni e paesi: Africa (Mozambico, Tunisia), Europa (Bulgaria, Italia), Americhe (Brasile, Messico, U.S.A.) e Asia (India), fino alle regioni più remote della nostra Italia (Trentino, Puglia, Sicilia, Calabria) in compagnia di chi ha da sempre camminato attraverso tutte queste terre: il Popolo Viaggiante. E musiche in viaggio, nel mondo variopinto delle lingue e dei dialetti: il ronga-shangaan, uno dei più diffusi idiomi di origine bantu del Mozambico, il serbo-croato, l’arabo, il bulgaro, le lingue zingare ròmanes e sinti, il portoghese, l’italiano e i dialetti siciliano, salentino, griko e garganico.

Un’OrcheXtra-Comunitaria: un’orchExtra-Comunitaria, poco extra e molto comunitaria, in cui gli esseri umani si incontrano senza permesso di soggiorno, attraverso un linguaggio universale, la musica, che ci ricorda l’esistenza di una sola grande Comunità, quella del Pianeta Azzurro.

Tratto dal sito OXT

17/12/09

IL FILO ROSSO


Cari Evgeny e Lorenzo, ormai questo blog lo potremmo collettivizzare. Che ne dite? Visto che a quanto pare ce la suoniamo e ce la cantiamo soltanto tra di noi... Vi invito a postare direttamente, nella speranza che anche Settembrini si faccia vivo e si aggreghi. Ci manca il suo acume e la sua profondità d’analisi. Dagli ultimi vostri commenti vedo che siete leggermente stupiti del silenzio generale. Evgeny, a proposito dell’ultimo “regalo” mondiale, si domanda se tutto sia già stato metabolizzato nel paesello; se il pueblo ci è o ci fa. Per me ci è. Se mi permettete però un consiglio, non meravigliatevi più di nulla. Vivendo “alla foresta” forse ve lo siete dimenticato, qui è così! Spero che almeno ricordiate che la Teseranità è un coacervo assolutamente unico di comportamenti, riti e pensieri collettivi conditi di paura, reticenza, supponenza e dabbenaggine, che attraverso un filo rosso, dalla notte dei tempi, è arrivato immutato sino a noi. Un mix speciale, per gente speciale, che in una parola sola, come ben sintetizzano in quel di Cavalese, si dice concaggine. Cònco, tradotto in lingua dotta, significa minchione. Cioè sciocco, stupido, superficiale. Ma con accezione collettiva, appunto. Presi uno per uno siamo più o meno come tutti gli altri, è quando facciamo comunità che ci distinguiamo sempre per questa nostra caratteristica. Le Tieserade, raccolta di "perle" locali frutto di settant’anni di osservazioni e di appunti (che tra non molto proporremo ai lettori) ne sono la prova. Sono queste qualità, combinate nei modi più fantasiosi e improbabili, che danno la cifra di questo nostro strano paese. Cose note non solo fuori porta ma anche in luoghi lontani e studiate fra l’altro dall’insigne professor Torquato Spavaldi (IL MODELLO TESERO 7 PER UNA NUOVA UMANITA') di cui il blog a suo tempo riferì.
Mutatis mutandis le cose a Tesero procedono sempre allo stesso modo, cambiano le persone, i tempi, le situazioni, ma non si modificano le forme e la sostanza del comportamento e del pensiero collettivi. Stava non ha insegnato niente, checché ne pensino quelli che sulla sua memoria ci hanno edificato addirittura un tempio! Se fosse vero il contrario, dopo Stava Tesero avrebbe dovuto divenire, come minimo, il primo paese “despecularizzato” d’Italia. Vi ricordate in quel 17 luglio 1988, tra croci, preti, vescovi, uomini di tricolor fasciati, autorità di ogni risma e razza, discorsi pregni di circostanziale retorica, in quella piana di morte brulicante di persone accorse da ogni dove, quel “Mai più…” pronunciato dal papa? Ovviamente no, non c’eravate nemmeno, o quasi. Ma se andate su internet quelle parole (forse) le ritroverete. Cosa resta di esse? Niente. A cosa è servito quel monito? A niente.
Guardatevi intorno. Sul territorio si è speculato o no? Altro che sì, senza pudore e oltre ogni decenza. Iniziando a concepire quelle nuove forme di saccheggio territoriale, mutatis mutandis, appunto, non un anno dopo quel 19 luglio 1985, ma all’indomani! Come se nulla fosse successo, come se quei morti fossero stati delle semplici comparse sceniche, come se quell’alto monito fosse stato pronunciato dall’ultimo dei cappellani. E così le Tieserade, come in un infinito rosario, grano dopo grano, dal Nuovo ricovero Canal, alla bretella Porina – Valena dal Morto, tanto per citare le più prossime a noi, procederanno e si assommeranno legate a quel filo rosso sino alla fine dei tempi nell’indifferenza ebete di questa comunità.

Ario

15/12/09

I CÒNCHI DA TIESDO


Nel mentre a Copenhagen i governanti mondiali discutono, in modo più o meno convinto, sul come ridurre le emissioni di CO², a Cavalese, giovedì scorso 10 dicembre, gli amministratori comunali di Fiemme, su invito dei vertici provinciali, presenziavano all’illustrazione del piano valligiano della mobilità “sostenibile” in vista dei mondiali 2013. Come avevamo anticipato in un nostro vecchio post “MONDIALI: MISSIONE COMPIUTA. E ADESSO?”, all’indomani dell’assegnazione dei campionati di fondo in pentola bollono cose grosse. Esattamente quelle che in quel post avevamo previsto. Il consigliere di minoranza del comune di Tesero Alberto Carpella reduce da quell’incontro, ci fa sapere infatti che: “Prima di tutto ora è ufficiale la volontà di fare la strada di collegamento tra il fondovalle e la Valena dal Morto, lungo il versante di Porina e Pradestabio, dove è prevista l'entrata in una galleria che sbocca più o meno nella zona delle Valene (presumibilmente 200 metri più a valle dell’erigendo Nuovo Ricovero Canal n.d.r.). In questo modo si convoglierebbe lungo la valle di Stava anche il traffico turistico per Lavazè liberando il paese di Varena. (...) Secondo intervento rilevante: tunnel di attraversamento di Cavalese. A seguire una serie di rotatorie sulla S.S.48. Il tutto per liberare la stessa S.S.48 dal traffico veicolare leggero e pesante e consentire sulla statale il solo passaggio dei mezzi pubblici: l'intento di fondo, di liberare la S.S.48 dal traffico, è lodevole ma perseguirlo con la costruzione di ulteriore viabilità mi pare illogico. Il bello è che l’ultimazione di tutti questi interventi è prevista entro gennaio 2013. (...) Ai vari consigli comunali viene richiesta la condivisione di questo piano per procedere con le varie progettazioni; è chiaro però che tutto è già in avanzato stato di studio. Dobbiamo solo prenderne atto, come sempre.”
Tutto questo perché? si chiederà un attento e frastornato teserano non riuscendo proprio più a capire sin dove ci si voglia spingere e dove si voglia arrivare. Risposta: perché urge togliere a Cavalese (soprattutto) e a Varena il traffico di transito per Pampeago e per Lavazé. Ottimo! E allora? Allora, scaltramente, i Lóvi cavalesani (in questo caso più volpi che lupi), grazie all’attivismo del loro assessore provinciale Gilmozzi, hanno ben pensato che per risolvere una loro necessità interna (niente affatto risolta dalla strada di fondovalle, a suo tempo apposta realizzata!) questa sarebbe stata l’occasione da non farsi scappare. E così sarà: Cavalese verrà liberato dal traffico per Pampeago e Lavazé scaricandone su Tesero l’impatto ambientale. Che, in fondo, a pensarci è anche giusto. Tanto, diranno a Cavalese, quei Cònchi da Tiesdo le lezioni non le imparano mai e del loro territorio – basta guardare – non gliene frega proprio niente. Libereranno quindi Cavalese dal traffico, mentre le colate di cemento e di asfalto le faranno sulla seconda zona per importanza agricola di Tesero. I Cònchi i pagón fóra con ‘n póca de gloria zo a l’Aquila. ridono furbi i Lóvi. Che vadano in Abruzzo quei Cònchi minchioni con il loro solito patetico presepio a rappresentare la Provincia presso i terremotati… Loro (i Cònchi) di più non chiedono e di tanto si accontentano…
Ragionando meno campanilisticamente (ma siamo sempre noi Cònchi che rinunciamo al campanile, mai i Lóvi!) l’intento provinciale (in linea di principio) potrebbe anche essere condivisibile e accettabile. Ma ci domandiamo se in realtà la presunta riconversione modale della 48 non sia invece il classico cavallo di Troia per giustificare lo scempio su Tesero e zittire le possibili (ancorché improbabili) dissidenze che eventualmente potrebbero emergere prima dell’inizio dei lavori. Il fatto è che per la P.A.T. il problema del finanziamento delle opere pubbliche non esiste, dunque la questione da risolvere non è mai quella - altrove fondamentale - di dove e come reperire le risorse per fare, ma come conciliare questa necessità di fare infrastrutture (che gli eventi “irripetibili” rilanciano continuamente) con la sempre più impellente necessità di risparmiare il patrimonio primario su cui basa il turismo, ovvero il territorio. Come è chiaramente intuibile più si va avanti più questa conciliazione diventa esercizio insostenibile. A maggior ragione quando, come in questo caso e come ben osserva Carpella, le finalità dichiarate dovrebbero casomai comportare un alleggerimento e non un appesantimento infrastrutturale. A questo punto è quindi inevitabile porsi le fatidiche seguenti domande: perpetrato l’ennesimo sacrificio territoriale, questa volta a carico quasi esclusivo del comune di Tesero, chi garantirà che la statale 48 venga messa a disposizione effettivamente ed esclusivamente del trasporto pubblico? E chi imporrà poi ai fiemmazzi, auto-dipendenti oltre ogni misura, di entrare nell’ordine di idee di modificare i propri comportamenti individuali e far sì che la nuova modalità di trasporto abbia una sua reale ragion d’essere? Se tanto ci dà tanto (e ad esempio consideriamo quanta opposizione abbia avuto proprio a Tesero una semplice e parziale revisione dei flussi di traffico interni) come possiamo credere che poi Tizio, Caio e Sempronio lascino volontariamente in garage i propri fuoristrada e si convincano che la cosa migliore per recarsi a Cavalese o a Predazzo, a partire dal 2013, sarà prendere l’autobus? È evidente che senza, prima di tutto, un profonda (e a quanto ci risulta non prevista tra le cose da fare) azione culturale, nessuna infrastruttura aggiuntiva garantirà un alleggerimento reale degli attuali volumi di traffico privato in valle. A meno che poi, fatte queste infrastrutture, non si renda obbligatorio l’uso del mezzo pubblico, il che ci pare abbastanza improbabile.
Alla luce di queste considerazioni sarebbe dunque logico attendersi che il Consiglio comunale di Tesero valutasse attentamente la proprosta concepita dai vertici della P.A.T. (che in realtà, come abbiamo detto, parte da una idea cavalesana, pro domo sua) e per una volta tanto avesse il coraggio di far valere con forza la propria potestà territoriale. Purtroppo, dato che ancora una volta l’occasione “irripetibile” incrocia interessi e stimola appetiti che transitano, manco a dirlo, attraverso l’immarcescibile signor P, difficilmente l’analisi nel merito del consesso comunale teserano, come quasi sempre accade in questi casi, risulterà approfondita, serena e dis-interessata. Staremo a vedere. Il consigliere Carpella realisticamente è sconsolato, e non gliene possiamo dar torto, ma c’è da augurarsi che, nella ancorché inutile discussione, la minoranza consiliare evidenzi con forza perlomeno le contraddizioni testé ricordate e non manchi soprattutto di sottolineare l’imperdonabile sacrificio ambientale che graverà poi per sempre sul nostro paese.

L’Orco


PASSAPAROLA - 14/12/2009

13/12/09

HOPE-LESS-NHAGEN


Hopenhagen è lo sponsor che si sono inventati in Danimarca in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, per richiamare la speranza che un accordo vero sia raggiunto nella capitale danese, il quale permetta finalmente la svolta ecologica che il mondo ambientalista – e l’industria del rinnovabile – si aspettano. Stando alle dichiarazioni delle ultime settimane però, Hopenhagen è diventata Hopelessnhagen: la speranza, cioè, si è fatta fievole, quasi è svanita. Perché?
Il primo argomento scottante riguarda la necessità (o meno) di ridurre le emissioni di gas serra. Le Nazioni Unite, tramite il loro apposito organismo, l’IPCC, sostengono la tesi che il cambiamento climatico sia effettivamente provocato dall’uomo, e che da esso possa anche essere neutralizzato. Questa posizione è sostenuta, ovviamente, anche dall’industria del rinnovabile e da altre aziende che, in contraddittoria sintonia con il sistema che a questo ci ha portato, utilizzano i prodotti “verdi” per potenziare la propria posizione nel mercato, puntando più ad un improbabile consumismo sostenibile che ad un più intelligente non consumo. Altri invece, i cosiddetti “climate change skeptics”, sostengono che il cambiamento climatico sia dovuto a cause tutt’altro che antropologiche, derivando invece, per esempio, dall’attività solare o dall’impatto di raggi cosmici creati da fenomeni astronomici fuori dalla nostra portata. Peraltro, la critica dei suddetti scettici raramente si accompagna ad una giustificazione scientifica. Anche quando tale argomentazione è stata presentata, mai, almeno fino ad ora, è sembrata solida e convincente.
Intanto le lobby del petrolio e del carbone inviano decine di delegati nei parlamenti del mondo occidentale per convincere la classe dirigente a non promuovere un accordo significativo al vertice ONU, organizzando anche campagne pubblicitarie volte a plasmare il pensiero dell’opinione pubblica in tale direzione. Una parte della classe politica si è subito gettata a capofitto in tale campagna, che fa della disonestà intellettuale il proprio motore primo e del profitto a breve termine il proprio fine. Un esempio lampante è rappresentato dal partito repubblicano statunitense, che tramite alcuni suoi membri sostiene la miope tesi che un’eventuale svolta verde sarebbe dannosa per l’economia – soprattutto a causa di un taglio di posti di lavoro. Dov’è il buon senso? Il bisogno di sviluppare nuove tecnologie ed implementare quelle esistenti, secondo i saccenti senatori repubblicani, porterebbe ad una sicura contrazione dell’occupazione – semplicemente irrazionale!
Ma il punto è un altro: al di là di discussioni più o meno dotte sulla veridicità degli studi presentati dalla IPCC, tra l’altro minata dal recente furto di e-mail ai danni degli studiosi dell’organizzazione, che rivelerebbe un ipotetico trucco usato per mascherare alcuni dati, ciò che tutti dovremmo chiederci è se il problema stia veramente nelle dispute sull’effetto serra o piuttosto nel rapporto che l’uomo ha avuto con il pianeta negli ultimi due secoli. La gente dovrebbe imparare a domandarsi se lo sfruttamento indiscriminato delle risorse che è stato portato avanti finora è razionale o meno, indipendentemente dal fatto che provochi il riscaldamento dell’atmosfera. Il concetto di sostenibilità dovrebbe, nella coscienza dei cittadini, andare oltre a quello di contrasto dell’effetto serra, portando ad un atteggiamento intrinsecamente rispettoso delle risorse del pianeta, senza bisogno di altri spauracchi. Il semplice fatto che il nostro pianeta dispone di risorse finite, dovrebbe logicamente portarci a ragionare in tal modo.
Oltre che sulla riduzione di emissioni di CO2, poi, un forte disaccordo è presente sui cosiddetti fondi per adattamento e mitigazione, che i Paesi sviluppati dovrebbero mettere a disposizione di quelli in via di sviluppo per facilitarne l’adattamento ai cambiamenti climatici già in atto e contribuendo ad una loro crescita sostenibile. In poche parole, i Paesi emergenti e quelli più poveri pretendono che l’Occidente saldi il suo debito di carbonio per mezzo di una compensazione. Insomma, vogliono che il mondo sviluppato riconosca che il suo sviluppo si è basato su un’economia che ha creato dei danni all’intero pianeta. L’alternativa alla compensazione sarebbe lasciare che i Paesi in via di sviluppo portino avanti una crescita dettata meramente da criteri economici, con conseguenze imprevedibili.
Solo considerando queste prime e semplici sfumature, si capisce quanto il problema sia complesso e quanto sia improbabile che un accordo venga raggiunto nei prossimi giorni. Alcuni affermano che la democrazia non potrà mai portare ad una decisione importante in merito, in quanto il periodo di tempo verso cui essa dovrebbe rivolgersi va ben oltre quello di un normale mandato legislativo e, si sa, la classe dirigente normalmente ritiene la poltrona più importante dell’effettiva soluzione del problema, soprattutto quando essa richiede scelte impopolari. (Anche se, siamo poi sicuri che sarebbero così impopolari??) Questo tema è affrontato da pochi, ma potrebbe essere più rilevante di ciò che si pensa. Per questo le considerazioni dei paragrafi precedenti sono fondamentali. Le alternative sono tre. 1) Non agire puntando tutto sul fatto che la scienza può sbagliare. 2) Superare il problema in maniera non democratica, sperando che una classe dirigente dittatoriale – ma saggia – si instauri. 3) Spingere al cambiamento con una democrazia che parta dal basso, e cioè con l’adozione di una coscienza verde e responsabile collettiva.
Quale sarebbe la scelta più sensata? Probabilmente la terza. Ma potrebbe essere troppo tardi. Intanto tutti stanno passivamente a guardare cosa succede a Copenhagen, sperando che il lume della ragione (o lo spirito santo, per alcuni) riesca ad intrufolarsi nella conferenza. Ed è una sconfitta per l’umanità vedere come una scelta così determinante debba essere affidata a un pugno di politici, quando dovrebbe semplicemente essere dettata dal senso comune. D’altronde, Bertrand Russell profeticamente diceva che “… uno dei mali della nostra epoca consiste nel fatto che l’evoluzione del pensiero non riesce a stare al passo con la tecnica, con la conseguenza che le capacità aumentano, ma la saggezza svanisce. Riflettendo un po’ sui comportamenti nostri e di chi ci circonda, non si riesce proprio a dargli torto.

A. Jorden

(ringraziamo l'autore, A.Jorden, esperto in energie alternative e fonti rinnovabili, che in esclusiva firma il suo primo post e inizia la sua collaborazione al blog)

12/12/09

ARIA PURA

10/12/09

LORENZO, EVGENY, FLAVIA E DINTORNI


I recenti commenti pervenuti al blog da due pensatori teserani in esilio volontario temporaneo all’estero ci danno l’occasione per una breve riflessione. Innanzitutto notiamo che anche qui a Tesero (non ci facciamo mancare proprio nulla!) abbiamo il problema della fuga dei cervelli all’estero. Non saranno moltissimi, ma certo è che la loro mancanza in loco si sente! Osserviamo anche quanto sia stupefacente il fatto (generalmente considerato ormai cosa banale) che un articolo proposto in rete possa venire commentato, da persone molto lontane tra loro, attraverso una triangolazione Italia – Danimarca – Germania, in tempo reale. La cosa sarebbe stata inimmaginabile soltanto 10 anni fa. Infine, al di là delle interessanti considerazioni di Lorenzo ed Evgeny, osserviamo che temi meno impegnativi o quantomeno più “vicini” a chi ci legge normalmente non vengano affatto discussi nel merito. Anzi, rettifichiamo, vengano commentati e discussi quasi soltanto dai sopracitati cervelli teserani in fuga. Sarà un caso che sulle questioni di casa (rare eccezioni a parte) rispondano solo quelli in “esilio”? È ben vero che non sempre ci siamo occupati di cose serie, a volte, forse il più delle volte, abbiamo anche scherzato. Ma in circa 2 anni e mezzo di scritti (nostri e di altri) argomenti (in particolare quelli inerenti al paese) su cui si sarebbe potuto esprimere un’opinione, fare una critica feroce o un leggero apprezzamento ce ne saranno pur stati! O no? Pur rischiando un’ inelegante caduta di stile ci tocca a questo punto precisare che se qualcuno pensa che quanto da noi scritto in questi due anni circa sia solo provocazione fatta per il gusto di fare, si sbaglia. Le nostre considerazioni nascondono sempre un fine filantropico e aspirano all’emancipazione sostenibile della nostra comunità paesana. Stiamo esagerando? Forse un pochino sì. Diciamo che già sarebbe bello se questa piccola goccia polemica riuscisse quantomeno a produrre, più in là, un minimo miglioramento delle cose di casa. E qui, per non scadere nel patetico profondo, ci arrestiamo e riprendiamo un commento di Flavia a proposito delle prossime elezioni comunali.
Dice Flavia: “(…) Mettiamoci in gioco. Molti di noi avrebbero testa, capacità e idee per poterlo fare. Molti.. Eppure tutti si limitano alle chiacchiere da bar, discorsi inutili, triti e ritriti.. Ritengo a mio avviso vergognoso che un paese di quasi 3000 abitanti presenti alle elezioni una unica lista, formata oltretutto da componenti che nel passato hanno coperto importanti sedie nella minoranza. (…) Bisogna rimboccarsi le maniche, con coraggio e buona volontà! Non fare nulla è un assenso silenzioso al presente.(…) Forse faccio parte anche io dei giovani cresciuti (con orgoglio) a "corte e nutella" ma ricordo a tutti che i trentenni di oggi saranno (volenti o nolenti) i vertici di domani! (e speriamo di un domani non troppo lontano)”
Bene. Condivisibile. In parte. Però, Flavia, lasciaci dire che per mettersi in gioco politicamente si dovrebbe come minimo entrare nel merito delle questioni per le quali ci si propone risolutori. Perché autorizzare l’inserimento del proprio nome in una lista elettorale ed eventualmente ottenere un successo di voto in un paese di 2800 persone non è un’impresa titanica. Può essere addirittura facile se si fa parte di un clan di ampio parentado. Sta, in ogni modo, nelle cose possibili. La questione vera è riuscire a sostituirsi a qualcuno proponendo qualcosa di diverso. Altrimenti tanto vale lasciare al proprio posto chi c’è già. E poi - come dici - in base a quale ragione i trentenni di oggi dovrebbero avere automaticamente il diritto di dirigere la politica e la società di domani? All’età? Alla prestanza fisica? Non crediamo che la capacità dirigenziale dipenda dall’anagrafe. Ciò che conta, trentenni o novantenni che siano, è avere capacità di risolvere i problemi e idee per gestire al meglio ciò che per delega devi amministrare. Il difficile è proprio portare novità, chiamarsi fuori dalla continuità, innovare… e amministrare bene.
Dunque se ti senti portatrice di questa novità è giusto che tu ti butti senza chiedere niente a nessuno. Senza sentirti in dovere di valutare le offerte altrui. Quindi, qualora così sia, a te e a quelli che con te condividono questo spirito nuovo e intendono sostituire gli attuali amministratori comunali proponiamo di esporre pubblicamente le vostre tesi, con giusto anticipo rispetto alla scadenza elettorale, in modo chiaro e diretto. E nuovo: il blog sarà a vostra disposizione, senza mediazioni. Se quelle idee son rose, fioriranno. Avete cinque mesi di tempo per farle circolare in rete, proporle ai lettori, confrontarvi con essi, e, a primavera, verificarne il gradimento degli e-lettori.

L’Orco

09/12/09

08/12/09

LA ‘CULTURA’ MODERNA: OVVERO COME RENDERE LA CULTURA UN BENE DI CONSUMO


L’ossessione, moderna ma molto recente temporalmente, dell’ ‘istruzione’, del ‘titolo’ universitario, del ‘diventare qualcuno’, è diventata quasi un leit-motiv dei nostri giorni. A parte l’incremento parossistico delle iscrizioni alle facoltà universitarie, che rivela nel contempo la fallacia della scuola post-sessantotto, divenuta più un ‘diplomificio’ che una fucina di leader o quantomeno di ‘capitani’ del mondo del lavoro del domani, ciò di cui parliamo lo si può vedere chiaramente dall’atteggiamento dei genitori, che farebbero ogni sacrificio per vedere il figlio con il prezioso titolo, senza il quale si suppone egli non ricoprirà mai, in società, una ‘posizione’, e non avrà mai una vita, non solo professionale, veramente appagante. L’ironia del tutto è che, nella maggior parte dei casi, la tanto decantata ‘istruzione’, la tanto celebrata ‘cultura’ universitaria, che già dal nome rimanda ad un complesso, ad una conoscenza complessiva del reale e del mondo, si riduce ad un vuoto e spurio nozionismo, ad una conoscenza di elementi slegati e disarticolati, autoreferenziali e inutili per una superiore conoscenza della realtà e della vita, che sola potrebbe garantire la formazione di veri leader. A parte la disgustosa logica da ‘ipermercato’ che si respira nelle strutture formative, dove la qualità non conta quasi nulla ma si osanna e si santifica la quantità; dove nessuno può delinearsi per predisposizioni o sensibilità particolari, perché il sistema è congeniato per mantenere un'ingiusta e livellatrice ‘uguaglianza’, figlia del delirante progetto social-egualitario del ‘mandare avanti tutti’; dove si preferisce insistere sui programmi ‘taglia unica’ ministeriali, piuttosto che affrontare davvero tematiche apicali, capaci di orientare formativamente la formazione e la mentalità dell’allievo, quello che più colpisce è la volontà, non si sa quanto cosciente o quanto figlia dei tempi, di ‘formare’ persone che padroneggino un ‘sapere’ settoriale e meramente tecnico, slegato da una visione della realtà complessiva e unificatrice. Mentre quello che servirebbe per creare degli ‘aristocratici’ del sapere, sarebbe proprio quello di fornire una universitas del pensiero, dello scibile (e forse anche del meno scibile), del sapere e anche, perché no, dei valori caratterizzanti la nostra tradizione. Ma quello che si preferisce fare è creare degli ‘specialisti’, leggesi anche degli inarticolati, che sappiano molte nozioni tecniche, ma che difficilmente sappiano articolarle e riunirle nelle varie facce della realtà, al fine di dominarla e padroneggiarla. Del resto la ‘democrazia’ ha paura di uomini simili, perché sono uomini che difficilmente hanno bisogno degli altri. Perché la ‘democrazia’ conta che il numero assorba e annulli le qualità che rendono gli uomini diversi e diseguali tra loro. Perché la democrazia ha paura per antonomasia delle figure carismatiche, e gli preferisce di gran lunga il ‘governo dei mediocri’, degli ‘specialisti’ non integrati, degli ‘esperti’ del nulla. Non a caso in una società che crea sempre nuovi bisogni e nuovi ‘saperi’ che in realtà sono spesso falsi bisogni e falsi saperi, come sarebbe possibile per un solo uomo, se non eccezionalmente integrato e consapevole di sè e della propria natura ontologica, ‘stare al passo’ di una conoscenza che, in tutti i campi, tende a modificarsi e cambiare continuamente? La natura disarticolata del sapere e della ‘cultura’ moderni e attuali è dunque figlia e portato necessario di un mondo che si basa sul mutamento e vorticoso aggiornamento di tutto, dalla tecnologia al sapere, dalle relazioni interpersonali agli ‘status symbol’ e ai desideri. Ma quindi la domanda è: che fare? E qui necessariamente la nostra risposta andrà contro corrente, andrà a ricercare un’idea di ‘istruzione’ di ben altra caratura e tipologia. In un'epoca in cui le iscrizioni alle università decuplicano non sarebbe auspicabile ridurre il numero degli studenti, non in funzione di mere possibilità economiche delle famiglie, ma di potenzialità e meriti effettivi che vengano considerati già dall’inizio? In un'epoca in cui l’ ‘istruzione’ è considerata un diritto, si ribadisce che non esiste un diritto al sapere: esso va, come tutto guadagnato, meritato. In un'epoca in cui tutti vogliono, e credono in una certa misura, di poter essere, qualsiasi cosa e di avere qualunque posizione, non è auspicabile la visione delle cose come è sempre stata, che nella società ognuno ha il suo posto? Questo lungi dall’essere una posizione data unicamente dal denaro e dalla ‘robba’, dovrebbe essere data da ciò che si fa, non meno da ciò che si rappresenta per la propria comunità: di conseguenza l’università non può e non deve essere quello che è ora, una ‘fabbrica’ di inutili titoli e di inutili ‘saperi’, che illudono chiunque di poter divenire, con il semplice esercizio mnemonico di concetti, una guida e un essere realizzato.


Fabio Mazza

06/12/09

INVITO ALLA LETTURA


Apriamo oggi una nuova rubrica, ideata da Ezio, “Invito alla lettura”, perché leggere, oltre che piacere, è esercizio fondamentale per capire, conoscere e… conoscersi. Osservava infatti Proust che “ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.” “Invito alla lettura” non avrà, per il momento, cadenza definita. Vedremo se, strada facendo, questo appuntamento sarà gradito ai lettori e se gli stessi vorranno farci pervenire commenti e considerazioni sui libri proposti (o proporne essi stessi). Per cominciare Ezio suggerisce la lettura del romanzo di José Saramago, CECITÀ, pubblicato da Einaudi, definito da taluni lettori agghiacciante, sconvolgente, attraente, sensuale, crudo, profondo, riflessivo, passionale.

RECENSIONE DEL LIBRO


In un città qualunque, di una Nazione qualsiasi, in un tempo indefinito (e per questo spazio e tempo divengono universali), all'improvviso, nel tran-tran quotidiano (tanto è vero che il primo ad essere colpito è un uomo fermo ad un semaforo), esplode un'epidemia di cecità. Una cecità contagiosa che si trasmette non si sa come. Il Governo correrà immediatamente ai ripari e, pur ignorando in che modo si diffonde l'epidemia, isolerà i primi ciechi (che ben presto diverranno centinaia), in un ex manicomio, impedendo loro qualsiasi contatto con l'esterno. Questa cecità non solo è più contagiosa e si diffonde più rapidamente di un'influenza, ma per di più è bianca. "E' come essere immersi in un mare di latte ad occhi aperti", dirà uno dei ciechi. Già…."uno dei ciechi" . Ma chi? Cosa importa? Sono, (siamo !?!?!?) tutti ciechi. Non solo gli uomini, anche Dio (leggete e capirete cosa intendo). I personaggi del romanzo, infatti, rimarranno sempre "anonimi": niente Bruno, Mario, Lucia, Carla... no, no! Saranno semplicemente il primo cieco, il medico, la ragazza con gli occhiali scuri, il bambino strabico, il vecchio con la benda nera…. Il lettore accompagnerà questi ed altri personaggi guidato dagli occhi della moglie del medico, l'unica misteriosamente scampata al "mal bianco". Ella, infatti, per stare accanto al marito, si unirà agli altri ciechi, nascondendo loro di non aver perso la vista. Non intendo dirvi cosa accadrà all'interno dell'ex manicomio e poi fuori (perché i reclusi abbandoneranno quella specie di lager e scopriranno che tutto il mondo è divenuto cieco). Né se recupereranno la vista… Dovrete avere l'amabilità di leggere il libro. Vi basti sapere che sarà un autentico inferno. I ciechi vivranno nell'orrore senza vederlo, gli passeranno accanto forse solo intuendolo. A chi legge, invece, non andrà altrettanto liscia atteso che quell'orrore lo vedrà attraverso gli occhi della moglie del medico. E, infatti, il lettore "vedrà" come si perde l'etica, il rispetto, la dignità e come nascono i soprusi e la violenza. "E' una vecchia abitudine dell'umanità, passare accanto ai morti e non vederli….Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo…. Ciechi che, pur vedendo, non vedono…. Il mondo è pieno di ciechi vivi". Può sembrare, (ed è di certo), una metafora fin troppo banale e scontata. Il classico "Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere" . Ma è magnificamente resa, (e forse la grandezza di uno scrittore sta anche in questo: rendere grande una cosa semplice fino quasi alla banalità). Tenendo presente che il titolo originale del libro è "Saggio sulla cecità" , probabilmente si capisce meglio l'intento di Saramago che, sono parole sue, dice: "Volevo raccontare le difficoltà che abbiamo a comportarci come esseri razionali, collocando un gruppo umano in una situazione di crisi assoluta. La privazione della vista è, in un certo senso, la privazione della ragione. Quello che racconto in questo libro, sta succedendo in qualunque parte del mondo in questo momento". Insomma: un vero e proprio incubo, angosciante ma bello e ben raccontato. Due parole sulla punteggiatura: non esiste. Pochi paragrafi, solo punti e virgole e niente virgolette a "circoscrivere" il racconto diretto. In altri termini: tutto di fila, tutto di un fiato. Proprio come si legge il romanzo.
Chebarbachenoia (2006)

Fonte: http://leggiamo.altervista.org/narrativa_cecita.htm


INCANTO NOTTURNO

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LE OCHE E I CHIERICHETTI

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TESERO 1929

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PASSATO

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ANCORA ROSA

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VIA STAVA ANNI '30

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TESERO DI BIANCO VESTITO

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LA BAMBOLA SABINA

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SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

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