08/11/08

MAGARI OBAMA


Obama proverà, dal governo, che le sue minacce guerriere contro l'Iran e il Pakistan non sono state altro che parole, proclamate per sedurre orecchie difficili durante la campagna elettorale? Magari. E magari non cadesse nemmeno per un momento nella tentazione di ripetere le imprese di George W. Bush. In fin dei conti, Obama ha avuto la dignità di votare contro la guerra in Iraq, mentre il partito democratico e il partito repubblicano applaudivano l'annuncio di quella macelleria. Durante la sua campagna, la parola leadership è stata la più ripetuta nei discorsi di Obama. Durante il suo governo continuerà a credere che il suo paese è stato eletto per salvare il mondo, venefica idea che condivide con quasi tutti i suoi colleghi? Continuerà a insistere nella leadership mondiale degli Stati uniti e nella loro messianica missione di comando? Magari la crisi attuale, che sta scuotendo le imperiali fondamenta, servisse almeno per far fare un bagno di realismo e di umiltà a questo governo che inizia. Obama accetterà che il razzismo sia normale quando venga esercitato contro i paesi che il suo paese invade? Non è razzismo contare uno a uno i morti invasori in Iraq e olimpicamente ignorare i moltissimi morti nella popolazione invasa? Non è razzista questo mondo dove esistono cittadini di prima, seconda e terza categoria, e morti di prima, seconda e terza? La vittoria di Obama è stata universalmente celebrata come una battaglia vinta contro il razzismo. Magari si assumesse, con le azioni del suo governo, questa magnifica responsabilità. Il governo di Obama confermerà una volta di più che il partito democratico e il partito repubblicano sono due nomi dello stesso partito? Magari la volontà di cambiamento, che queste elezioni hanno consacrato, fosse più che una promessa e più di una speranza. Magari il nuovo governo avesse il coraggio di rompere con questa tradizione del partito unico, camuffato da due che al momento della verità fanno più o meno lo stesso, anche se simulano di scontrarsi. Obama manterrà la promessa di chiudere il sinistro carcere di Guantanamo? Magari, e magari finisse il sinistro embargo a Cuba. Obama continuerà a credere che va benissimo che un muro eviti ai messicani di passare la frontiera, mentre il denaro passa senza che nessuno gli chieda il passaporto? Durante la campagna elettorale, Obama ha affrontato con franchezza il tema dell'immigrazione. Magari a partire da ora, quando non corre più il rischio di spaventare i voti, potesse e volesse farla finita con questo muro, molto più lungo e oppressivo di quello di Berlino e di tutti i muri che violano il diritto alla libera circolazione delle persone. Obama, che con tanto entusiasmo ha appoggiato il recente regalino di settecentocinquanta miliardi di dollari ai banchieri, governerà come è costume per socializzare le perdite e per privatizzare i profitti? Ho paura di sì, però magari no. Obama firmerà e rispetterà l'accordo di Kyoto o continuerà a concedere il privilegio dell'impunità alla nazione più avvelenatrice del pianeta? Governerà per le automobili o per la gente? Potrà cambiare il cammino assassino di un modo di vita di pochi che si giocano il destino di tutti? Ho paura di no, però magari sì. Obama, il primo presidente nero della storia degli Stati uniti, metterà in pratica il sogno di Martin Luther King o l'incubo di Condoleezza Rice? Questa Casa Bianca, che ora è casa sua, venne costruita da schiavi negri. Magari non lo dimenticasse, mai.

Eduardo Galeano

05/11/08

SOTTO LA DIGA DEL VAJONT


Salgo verso la diga all’alba, sul filo dei tornanti. Echi d’acqua nel vuoto. Cielo terso e sottozero. Fino all’ultimo curvone, dopo la galleria, quando compare dal silenzio della valle. Eccola, la diga. È un uragano imprigionato dal cemento. Il riflesso congelato di un abisso. Ci sono piccoli vortici di vento. Pietre che cascano con cento rimbalzi. Corvi che salgono a spirale. E il vuoto del silenzio che ancora fa paura.
Prima di tutti quei morti, 1910 vittime in 4 minuti, scorticati dal vento, annegati dall’acqua, soffocati dal fango, era bella la valle del Vajont. Con i boschi di larice rosso, gli alberi da frutta sui poggi, i vigneti, i mulini, le fonti. E accanto alle fonti le chiesette medioevali e l’osteria. C’erano paesi minuscoli, fatti di pietra, ponti sospesi, e i pratoni dove scivolava il verde della primavera e ora fiorisce il ghiaccio dell’inverno.
La valle, come allora, scende a triangolo dalle rocce contorte del Cadore, tra il Monte Toc e gli strapiombi del Col Nudo. Scendendo si allarga sino alla spianata, dove respira la nuova Longarone e accanto corre il Piave che ha ghiaia bianca, musica d’acqua che mormora e luce a specchio quando il sole brilla in cima alle spalle delle Dolomiti.
Vajont è il nome del torrente. In lingua ladina significa “vien giù” perché corre verticale e dove passa scava, e dove scava vien giù la roccia. Nell’ultimo tratto, bagna l’argilla del Monte Toc che in dialetto friulano custodisce la memoria di ancestrali spaventi e frane e massi rotolanti fissati in quel “toc” che è come dire marcio, friabile.
Tutto stava già nella linguae nel buon senso – a ben vedere: il monte d’argilla con i piedi immersi nell’acqua che scava. Il monte d’argilla che marcisce, scivola, frana dentro al nuovo lago. Il lago che esplode, scavalca la diga, spazza la valle, precipita, uccide.
Ma gli ingegneri se ne infischiano delle lingue. E il progresso se ne frega del buon senso. L’ingegner Carlo Semenza, nell’anno 1940, disegna la diga a doppio arco, resistente, perfetta. Il geologo Giorgio Dal Piaz dice che l’imbuto della valle reggerà il peso del nuovo lago. Il conte Volpi, proprietario della Sade, monopolista dell’elettricità, vuole a tutti i costi la diga.
Per Semenza, l’ingegnere, sarà il capolavoro della vita. Per Dal Piaz, che ha la barba bianca da geologo, sarà la buona pensione, dopo l’addio alla cattedra. Per la Sade è investimento, sviluppo, fatturato. Per l’Italia, il progresso.
I luminari delle università di Padova, Torino, Venezia, che viaggiano a spese della Sade, periziano in favore della Sade: “Si può fare, si faccia”. I grandi giornali esultano. Chi mai dà retta ai contadini e ai montanari che fiutano le frane? Chi mai ascolta le vecchie storie sul torrente Vajont, vien giù, e sul Monte Toc, marcio, friabile?
Perciò il governo vara. Finanzia al 45 per cento. Mette in moto i numeri. E i numeri, nell’anno 1956, quando iniziano i lavori della diga, dicono che metà della valle sparirà insieme con il suo passato improduttivo, antimoderno, di paesi analfabeti, bestiame, alpeggi solitari, emigrazione e fame. Tutto da cancellare sotto la superficie smagliante del progresso e del nuovo lago artificiale, 168 milioni di metri cubi d’acqua. Tutto da mettere in moto, una buona volta, insieme con le nuove turbine d’alto voltaggio per l’acciaio e la chimica di Marghera che ogni notte incendia il cielo sopra la Laguna. L’Italia del Boom divora energia. Il suo fabbisogno cresce come una febbre e la diga del Vajont è una medicina da 150 milioni di chilowattora. Nutrirà i capannoni del Friuli e i laminatoi del Veneto. Accenderà nuove fabbriche e nuove opportunità di lavoro. Correre, correre. Questo è il Miracolo economico che arriva con gli ingegneri, i geologi, i cantieri e il nuovo orologio del tempo: il progresso. Non c’è modo di opporsi: un milione di metri quadri di pascoli espropriati a 3 lire e 94 centesimi al metro quadro. La valle divisa a metà. Le strade di sterrato che salgono a tornanti, si riempiono di camion in marcia verso il cantiere. Verso la diga che cresce. Energia elettrica per tutti, soldi per tutti, numeri per tutti.
La diga e il Miracolo crescono insieme, dal 1957 al 1962. Come il grattacielo Pirelli a Milano. Come i capannoni di Mirafiori a Torino. Come le prime code autostradali verso il mare e i cinegiornali spalancati sui denti bianchi delle massaie e la geometria americana dei frigoriferi.
Nessun altro simbolo però è così carico di inganni quanto la diga del Vajont. Dietro alle sue spalle di cemento e acciaio, dentro a quello sterminato bacino di acqua che inghiottirà la valle, verranno a galla insieme con i morti tutti i difetti e le menzogne e le fragilità dello sviluppo italiano. In nome del quale il potere economico della Sade piega quello politico. Le commissioni di controllo non controllano. I periti non fanno i collaudi. I grandi giornali non informano.
Il Vajont, che oscurerà i fasti del Miracolo, è la più grande strage del Dopoguerra italiano. La prima a trascinarsi una coda infinita di sentenze, disinformazione, risarcimenti, Commissioni parlamentari d’inchiesta, perizie, controperizie, rallentamenti, compreso il trasferimento preventivo del processo in altra sede, per “ragioni di ordine pubblico”, dal tribunale naturale di Belluno a quello remoto dell’Aquila, 850 chilometri più a sud, come avverrà una manciata di anni dopo per piazza Fontana.
Ma il Vajont e la sua tragedia sono anche l’inizio – nell’Italia dei nuovissimi televisori – di un’opinione pubblica che albeggia sul nero della cronaca. È la piccola luce delle telecamere che si accende sul fango e sulle facce dei superstiti, le loro storie di lacrime, rabbia, ingiustizia. Per la prima volta il bianco e nero della verità archivia i colori letterari dei grandi inviati della carta stampata, che raccontavano, nei viaggi e nei reportage, mondi invisibili ai lettori. Stavolta no, il piccolo mondo del Vajont si vede. Si vede la diga intatta e la valle distrutta. Si vedono le lacrime dei superstiti e si ascolta il furore dei loro racconti. Stavolta l’inchiostro di Dino Buzzati, che sul Corriere della Sera scrive “un sasso è caduto in un bicchiere”, “la tovaglia si è bagnata”, “fatalità della Natura”, “nessuno poteva prevedere”, diventa esercizio di stile incongruo, elzeviro per miopi.
Sono i giovani cronisti a risaltare in quella nuova luce. Come Tina Merlin e Mario Passi dell’Unità, come gli inviati del nuovo settimanale L’Espresso che scrivono la storia di quello che si vede: catastrofe “prevedibile e prevista” e poi “negligenza, imperizia, colpa”. Che rendono stonata la voce liturgica del presidente della Repubblica Antonio Segni e dei suoi ministri che in televisione allargano le braccia e parlano di “sventura che bussa alla porta”.
Nei loro racconti questi giovani giornalisti illuminano con la cronaca degli antefatti il dramma delle conseguenze. Spiegano gli inganni del disastro sul quale, per la prima volta, si accendono le fotoelettriche della televisione, imprimendo all’Italia e agli italiani la memoria perpetua di quell’unica distesa di fango e di bugie che ha appena cancellato Longarone. (…)


Pino Corrias (LUOGHI COMUNI – Rizzoli 2006)

04/11/08

DICHIARAZIONE DI VOTO


Amici, qualche tempo fa mi ero ripromesso di darvi con largo anticipo i risultati elettorali del prossimo 9 novembre. Purtroppo l’imprevisto inghippo Grisenti e l’inopinato spostamento della data hanno messo fuori uso la mia sfera di cristallo e il buon Merlino, a cui mi ero rivolto per la riparazione, dice che ci vorrà del tempo per rimetterla in funzione. Ho deciso dunque, in alternativa e nella speranza di fare cosa a voi gradita, di esternare ufficialmente le mie scelte di voto. Democraticamente. Liberamente. Gioiosamente. Un auto-exit-poll a vostro uso e consumo quattro giorni prima di rinchiudermi/ci nell’amato seggio. Dunque, addì 4 novembre 2008, comunico che innanzitutto concederò i miei favori a Enzo Erminio Boso, sempreverde padano al soggiorno volontario in Trentino (a.s.v.i.T), che, per quanto le vie del Signore siano infinite, mai mi sarei aspettato si sarebbe convertito all’ambientalismo. Complimenti vivissimi. Bravo. Meglio tardi che mai! L’augusta Provincia di Trento da un uomo siffatto trarrà grande beneficio. Attorno a quell’omaccione baffuto – un vero centravanti di sfondamento – tutta la squadra dei padani a.s.v.i.T. girerà splendidamente. La vedo convinta, caparbia, vigorosa! Farà il nostro bene. Concedetemi pertanto un appello, per quel poco che vale: compaesani, votate e fate votare per i guerrieri di Alberto da Giussano! Io, che ho letto con grande attenzione tutti i programmi che in questi ultimi giorni mi hanno ingorgato la bussola della posta, vi giuro che nessun’altra lista, più della Lega, merita la nostra piena, incondizionata fiducia. Una dichiarazione d’intenti semplice e concreta, condita di idee chiare e pochi fronzoli che si sostanzia in 10 fondamentali punti, come i Comandamenti. Sforzatevi un momento di leggerli e vi convincerete tutti. Compresi il nostro reverendo curatore d'anime e l’assessore Walter Deflorian. Recita infatti, ad esempio, il punto 6 del decalogo: “Classi di inserimento nelle scuole per alunni stranieri… e salvaguardia del presepe e del crocifisso. Cari Tieseri, non siate reticenti, chi altri è più vicino al nostro sentire?
Siccome però sono convinto che, democraticamente, liberamente e gioiosamente, non sia giusto gratificare del mio (e spero anche del vostro) voto i soli padani a.s.v.i.T, vi ricordo che ci sono altre liste, tra le 22 in lizza, che meritano altrettanto la vostra considerazione. Tra queste, ovviamente, la Civica Margherita, che ha sì cambiato nome, ma per fortuna non ha cambiato facce. Voterò quindi anche per Mauro Gilmozzi, classe ’58 del secolo scorso. Uomo. Due figli. Una moglie. Cattolico. Cavalesano. Ex sindaco. Anche lui ambientalista convinto. Tra non molto (leggo nella sua brochure) sullo stradone farà passare soltanto i treni e le biciclette. Lo ringrazio di cuore. Posso assicurargli sin d’ora il mio appoggio incondizionato all’intrapresa. Così nel recarmi al lavoro in bici avrò più spazio e respirerò meglio, e potrò gareggiare con una Mallet 6046 a vapore anziché con un nauseabondo, puzzolente e inquinante Land Cruiser 3200 a gasolio. Anche Gilmozzi merita il mio e il vostro voto. Ricordatevi che ha 2 figli! Lo darò poi (il mio voto) anche a Denis Bertolini, ex padano, solandro o noneso, uno dell’Ovest comunque. Quello che non vuole più mungere le valli. Indubbiamente è un uomo in confusione e problematico, chissà che latte beve. Credo abbia bisogno d’affetto. Ricordo che a Lago di Tesero, anni fa, in una memorabile serata presso il Centro del fondo, aveva solennemente promesso di mettere a disposizione tutte le sue capacità politiche per evitare i Mondiali del 2003. Non ci riuscì allora. Ma merita una prova di appello. Da qui al 2013 può farcela. Forza Denis! In fondo anche lui è dei nostri. Avrà il mio appoggio incondizionato anche Werner Pichler, grande, grosso e con i baffi pure lui. Con Divina presidente, garantirà onestà al sistema. Perfetto. L’onestà serve, diamine! e uno che se ne faccia garante pure. Ma non è finita. Darò il mio voto anche a quei due emaciati di Pino & Bepi che si sono presentati dichiarandosi sottopeso (80 Kg in due). In effetti, di questi tempi, l’anoressia in politica potrebbe essere un’idea salutare, altroché. Visto che c’erano, però, con poco sforzo in più potevano fare un trio meraviglioso aggregando anche il nostro caro Ernesto. Avrebbero fatto 110 chili in tre. Bravi anche loro comunque. Naturalmente, poi, voterò anche per Mauro Delladio, di Daiano. Anche lui sposato. Anche lui una moglie. Anche lui due figli. Delladio, questa volta (la quarta), si impegnerà per realizzare la Valdastico perché dice che tra il Veneto e il Trentino ci sono solo trosi e che almeno una strada di collegamento si debba pur fare. Per me si sbaglia. Non è un ambientalista. Però è un mio omonimo. E per questa volta chiudo un occhio! Voterò inoltre per Marco Graziola del Patt, perché insegna fisarmonica a mio nipote proprio qui a Tesero e perché come suona lui Vecchio Scarpone non lo suona nessuno. Un’ultima annotazione. Un ultimo voto. Per i LeAli al Trentino. Che non ho ben capito se siano concorrenti alle elezioni regionali o concorrenti di Air France per un posto in prima fila al funerale di Alitalia. Comunque sia mi pare meritevole il punto 5/2 del loro programma: Facilitazioni per i giovani nel mondo delle professioni. Ottimo e abbondante!!
Cari lettori, fate come me. Fiduciateli con fiducia questi disinteressati filantropi, tutti assieme e contemporaneamente. Non ve ne pentirete. Se mi darete retta siate certi che poi finalmente avremo un Trentino migliore. Buon voto a tutti.

L’Orco

02/11/08

IL RITORNO DEL PRINCIPE


Lo stato democratico di diritto è una sofisticatissima creazione delle culture della modernità – illuminismo e liberalismo – e la sua sopravvivenza è legata alla vitalità di queste culture. Si tratta di culture che in Italia sono sempre state di vita grama e a continuo rischio perché sono state importate dall’estero solo negli ultimi tre secoli e sono rimaste appannaggio di ristrette élite, di coloro che hanno potuto apprenderle – a volte assimilandole malamente – sui banchi delle scuole superiori. Si tratta di fragili creature artificiali che non sono mai divenute culture di massa. Le nostre culture autoctone, millenarie, quelle che non si apprendono sui banchi di scuola, ma si succhiano con il latte fin dai primi giorni e che costituiscono la vera legge della terra del nostro popolo sono state altre. Quali? In primo luogo la cultura cattolica nella sua versione controriformista, antirisorgimentale, antiliberale e anticonciliare, i cui frutti sono stati l’obbedienza acritica ai superiori (perinde ac cadaver, obbedire sino alla morte, era il motto dei Gesuiti), il conformismo culturale, la doppia morale dei vizi privati e delle pubbliche virtù, l’appiattimento dell’etica solo sulla morale sessuale, il relativismo etico che consente a ciascuno – vittime e carnefici, dittatori e oppressori, mafiosi e antimafiosi – di avere il proprio Dio senza sentirsi in contraddizione con i precetti evangelici, la surrogazione della cultura dei diritti con quella dell’elemosina e infine il machiavellismo. Il machiavellismo dunque non è una creatura della cultura laica? L’etica del risultato – il fine che giustifica i mezzi – , contrapposta all’etica della responsabilità propria dell’epoca moderna, è una teorizzazione della cultura laica, ma fin dai tempi dell’imperatore Costantino è sempre stata segretamente praticata da una certa cultura cattolica. Nessun fine è infatti superiore a quello della salvezza dell’anima e della chiesa. Per conseguire tale fine assoluto e superiore, tutti i mezzi sono stati ritenuti giustificabili: dalle guerre sante, ai roghi dell’inquisizione, alle scomuniche, all’alleanza, se necessaria, con dittatori sanguinari.
Del resto non è forse un caso che Cesare Borgia fosse figlio del papa Alessandro VI. Questo protomachiavellismo non ha risparmiato neanche la cultura di sinistra. Il togliattismo è stata una variante del machiavellismo che giunge sino ai nostri giorni. Con il suo carico pesante, in politica, della teoria del “doppio binario”. Per secoli, fino a tutto il Novecento questa declinazione della cultura cattolica è stata per milioni di italiani, soprattutto quelli dei ceti più poveri, l’unica cultura possibile, l’unica chiave di lettura del mondo, l’unica gerarchia di valori. Questa stessa cultura ha formato gran parte della classe dirigente italiana. Ancora fino agli inizi del Novecento la chiesa cattolica aveva una posizione di quasi monopolio nella scuola pubblica e sino agli anni Sessanta le scuole cattoliche sono state scuole di formazione politica per tanti. La controriforma poi non è stata solo un movimento religioso, ma uno straordinario evento politico culturale che ha anticipato in parte l’unità nazionale sotto il profilo culturale. Quando nel 1860 si forma lo Stato nazionale, gli italiani erano già fatti, nel senso che dal Nord al Sud, tranne poche eccezioni, la cultura cattolica controriformista costituiva il loro comune denominatore e collante culturale. Non vorrei essere equivocato. Ho un grande rispetto per la chiesa cattolica e per le sue millenarie tradizioni culturali. Ma condivido l’opinione di quanti ritengono che dopo l’imperatore Diocleziano, che perseguitava i cristiani, il peggior nemico del cristianesimo fu l’imperatore Costantino, che trasformò la religione in un affare di stato e in un instrumentum regni.
Lo scrittore inglese cattolico Chersterton ha scritto che da allora il Dio che stava finalmente sollevandosi dalla Terra verso il cielo fu catturato a mezza via e cacciato dentro un mucchio di istituzioni e simboli del potere: dalle spade dei conquistatori alle cappe dei re alle mitre dei vescovi. Mi pare innegabile, poi, che dopo la chiusura della parentesi del Concilio Vaticano II e dopo che sono state messe a tacere tutte le cattedre della teologia progressista – dalla teologia della liberazione a quella femminile – il pensiero cattolico democratico progressista stia attraversando una grave crisi. Quali sono le altre culture autoctone di massa? La cultura del familismo amorale, della famiglia come unica patria, come unica sede della morale. Oltre questo angusto orizzonte personale esistono le colonne d’Ercole di un collettivo superindividuale che viene vissuto come terra di nessuno o, peggio, come mondo straniero di cui diffidare o con il quale intessere rapporti di mero scambio all’insegna dell’opportunismo e del tornaconto personale. In un suo romanzo Sciascia fa dire a uno dei suoi personaggi che non rubare alla collettività equivale a rubare alla propria famiglia. È di questo che stiamo parlando? Si tratta di una sintesi straordinaria dell’immoralità pubblica di una certa morale familistica. Riecheggiano nelle orecchie le giustificazioni dei tanti che, colti con le mani nel sacco, sono soliti giustificarsi con frasi del tipo: “non l’ho fatto per me ma per la mia famiglia, per la mia corrente, per il mio partito, per la mia azienda, eccetera”. La cultura familistico-tribale si è declinata in Italia dal piccolo al grande in tutte le possibili varianti: quella partitica, quella correntizia, quella aziendale, quella lobbistica, quella piduista, quella mafiosa e quella territoriale sino alle più recenti manifestazioni di un federalismo non solidale all’insegna della rivendicazione di una superiore razza celtica-padana. Basti considerare che in Italia, per attribuire valore a una qualsiasi collettività lavorativa anche di un ufficio pubblico, si suol dire: “Siamo come una grande famiglia”. Non si riesce neppure a immaginare un criterio di valore alternativo o superiore a quello familistico. In questo i mafiosi sono cittadini modello. Fra le carte di Salvatore Lo Piccolo, al momento dell’arresto, c’è una lettera di un mafioso che scrive a un altro: “Cerca di tenerti pulito… perché non c’è nulla di più bello che tornare a casa e farsi ballare sulla pancia dai propri figli…” Nella mia esperienza lavorativa ho potuto constatare che i mafiosi quanto a morale e fedeltà familiare sono dei campioni nazionali. Mariti fedeli, padri affettuosissimi, straordinari parenti. Ma oltre il clan esiste solo un mondo e un’umanità privi di valore. Per attribuire valore all’estraneo devi assimilarlo alla famiglia mediante cerimonie di comparaggio e riti di affiliazione. Se per un attimo immaginiamo la scala dei valori come una scala cromatica che dal nero assoluto dell’estremizzazione mafiosa giunge sino al bianco della normale affettività familiare stemperandosi lungo tutti i toni grigi intermedi, potremmo dire che, tranne poche eccezioni, la maggior parte degli italiani può collocarsi in un punto di questa scala cromatica. Una minoranza si muove nel nero assoluto, una buona parte si muove nella scala dei grigi con il pericolo di sconfinare nel nero, e un’altra parte si muove nel bianco.
Proseguendo nell’inventario delle culture autoctone, inserirei il machiavellismo deteriore, non riscattato cioè neanche da fini superiori di interesse collettivo, ma finalizzato solo al conseguimento del proprio particolare elevato a fine assoluto. Certamente mi sfuggono altre culture autoctone; lascio ai lettori che dovessero condividere questa mia opinione di completarne l’inventario.
Quel che mi preme invece sottoporre a riflessione è che, a mio parere, il fascismo fu fenomeno di massa perché costituì una sintesi micidiale di questi e altri ingrediente culturali, attribuendo, veste politica a una preesistente dimensione prepolitica.
Certi intellettuali ebbero enormi responsabilità anche nel giudizio sul fascismo.
Benedetto Croce definì il fascismo come una parentesi nella storia nazionale. Uno “smarrimento della coscienza”, “una malattia morale” conseguente alla Grande guerra, che determinò una deviazione aberrante del continuum del processo storico iniziato con l’Unità d’Italia.
Il “prima” e il “dopo” invece – secondo questa impostazione – rifletterebbero e custodirebbero la vera “normale” identità culturale nazionale. Identità della quale il Risorgimento prima, la Resistenza e la Costituzione del 1948 poi, sarebbero invece il distillato più autentico e maturo. Anche alla luce dei fatti più recenti, prende invece sempre più corpo l’ipotesi che probabilmente le cose stiano esattamente al contrario. (...)

Saverio Lodato – Roberto Scarpinato

INCANTO NOTTURNO

INCANTO NOTTURNO
Sara

LE OCHE E I CHIERICHETTI

LE OCHE E I CHIERICHETTI
Bepi Zanon

TESERO 1929

TESERO 1929
Foto Anonimo

PASSATO

PASSATO
Foto Orco

ANCORA ROSA

ANCORA ROSA
Foto Archivio

VIA STAVA ANNI '30

VIA STAVA ANNI '30
foto Anonimo

TESERO DI BIANCO VESTITO

TESERO DI BIANCO VESTITO
Foto Giuliano Sartorelli

LA BAMBOLA SABINA

LA BAMBOLA SABINA
Foto Euro

LA VAL DEL SALIME

LA VAL DEL SALIME
Foto Euro

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN

SEBASTIAN E IL BRENZO DI BEGNESIN
Foto di Euro Delladio

MINU

MINU
Foto di Sabina

Archivio blog