16/09/08

CONSIGLIATO AI CONSIGLIERI COMUNALI DI TESERO


E chi, in tempi in cui tutto si muoveva con la massima velocità, poteva continuare a girare in bicicletta?
Morvàn infatti usava questo mezzo anche per gli appuntamenti d’affari più importanti. Il fatto di consumare più tempo non lo preoccupava per niente, perché la bici era il suo sport giornaliero. Gli altri industriali giocavano a golf, cavalcavano, correvano sui campi rossi da tennis, frequentavano la palestra ogni tre giorni. Lui andava in bicicletta, perdendo meno tempo dei suoi colleghi e con maggior vantaggio per il suo fisico.
Non v’era nessuno, ormai, che riuscisse a opporsi al fascino delle nichelature e dei brillii di un’automobile nuova. Tutti finivano per capitolare e acquistarla, perché senza automobile si sentivano ridicoli, poveri, handicappati, sforniti di qualcosa, come fossero scalzi o privi di una mano, come Muzio Scevola. L’automobile ormai adescava più delle prostitute. Era una puttana di lamiera, ben dipinta e truccata come le passeggiatrici, in armonia con i tempi e con la civiltà delle macchine. Seduceva la gente di ogni sesso e di ogni età. Se tutte le persone normali ce l’avevano, non possederla era una grave deficienza.
Le auto avevano cominciato a invadere il mondo non soltanto da vive ed efficienti, ma anche da morte. Quando non funzionavano più e il proprietario si affrettava a comprarne un’altra, spesso venivano spinte in un campo non coltivato, ossia pustòt, dove avevano giù cominciato a formarsi dei mucchi di carcasse. (…)
Morvàn si aspettava che, al punto in cui erano aumentate, il loro numero si sarebbe finalmente stabilizzato, tanto più che la popolazione non cresceva. Ma non era così. Ogni luogo ne straboccava. Ogni viale e ogni piazza erano gremiti di auto. Non era più possibile avere un’idea architettonica pulita della città, perché ogni luogo, qualunque fosse, era intasato da un numero sterminato di automobili fredde e spente, che stavano lì ad aspettare.
Ognuna di esse occupava lo spazio di trenta uomini, e proprio per questo dappertutto vie, piazze, piazzette, campielli, vicoli, v’era la sensazione di mancanza di spazio e quasi di soffocamento. In ogni crocicchio e ad ogni semaforo vi era un puzzo persistente di gas e di benzina bruciata, che distruggeva tutti gli odori della vita, come quelli del pane, del vino o dei fiori.
Poiché le auto erano tante, ferme o in movimento, spesso qualcuno si proponeva di risolvere il problema del traffico aumentando le strade. Così cominciavano i grandi lavori, ma alla fine di essi il problema della viabilità era sempre peggiorato rispetto all’inizio. Nel loro vano inseguimento al numero delle auto, strade, viadotti, ponti, superstrade, rotonde, svincoli avevano sempre perduto la partita. Erano di nuovo intasate perché nel frattempo le auto erano aumentate molto di più. Ogni spazio che veniva regalato alle automobili non produceva altro effetto se non quello di farne aumentare il numero. (…)
Iniziarono i lavori per l’edificazione di un grande parcheggio sotterraneo. Era vicino a una chiesa medioevale dove aveva predicato sant’Antonio da Padova, uno dei grandi alleati di Alvise Marcolìn. Molte ruspe con le mandibole di ferro strapparono la terra. C’era un viavai ininterrotto di autocarri che la portavano via per buttarla in qualche letto sassoso di fiume. Vi si lavorava anche di notte, alla luce delle fotoelettriche, per riuscire a finire il lavoro a tempo di record.
Era un cantiere immenso e babelico, con una certa confusione di linguaggi perché vi erano anche operai arabi, jugoslavi, filippini, turchi. Era un’opera avversata dalla maggior parte dei cittadini i quali, pur amando la comodità, non erano ancora giunti a desiderare di scendere con la propria automobile nel ventre di Udine. Tutto il lavoro dell’immenso formicaio era sentito come una violazione del sottosuolo urbano. (…) Nonostante tutte le opposizioni, aperte o in pectore, che in qualche maniera ricordavano quelle della repubblica proclamata in altri secoli dagli abitanti di Buja, in polemica con i padroni veneziani, il parcheggio fu presto finito. I posti macchina somigliavano a loculi nelle colombaie del cimitero di san Vito, ma molto più grandi, e occupati da bare di metallo che si muovevano da sé. Subito dopo l’inaugurazione del posteggio ci si accorse che il numero delle auto circolanti per le antiche vie della città, anziché diminuire, era aumentato.
Molti pedoni adesso erano stati riconvertiti in automobilisti, e l’epidemia continuava a crescere di livello. La città seguitava a soffrire di quella pestilenza crescente, senza mai arrivare al punto della morte definitiva.

Tratto da “Il Patriarcato della Luna” di Carlo Sgorlon

1 commento:

  1. Per gli amministratori e sopprattuto per noi. Bnotte o Bgiorno se preferite! ore 4.10

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