26/06/08

LA HYBRIS DI PISTORIUS


Definita nella Poetica di Aristotele, il termine hybris si può tradurre con tracotanza, superbia, orgoglio. Era, per gli antichi Greci, quell’atteggiamento per cui un individuo compie azioni che violano leggi divine immutabili, volendo così farsi pari agli Dèi. Pur se gli Dèi sono morti, assassinati dal nostro orgoglio, tuttavia l’uomo non ha mai cessato di commettere questo peccato, aizzato da sempre nuovi dèmoni. Oggi tocca al Progresso, novello Mefistofele che par promettere di esaudire ogni nostro sogno, pur che gli vendiamo non tanto l’anima – ché quella ce la siamo persa da un pezzo – ma noi stessi, la nostra sopravvivenza, la nostra vita. Noi, nuovi piccoli e miseri Faust, alla Scienza abbiamo chiesto tutto: sostanze "magiche" e meravigliose che stravolgano la Natura, macchine eccezionali che ci trasportino velocissimi, che ci mostrino ciò che è lontano e nascosto, che ci svelino ogni mistero. Abbiamo chiesto il Potere, ed abbiamo avuto il mostruoso vaso atomico di Pandora. Ad una sua branca, la medicina, abbiamo chiesto addirittura l’impossibile (tanto siamo arrivati ad odiare noi stessi, tanto a fondo abbiamo reciso le nostre radici): di non essere più noi stessi, come gli Dèi ci hanno fatto, di non essere più mortali. Così, laboratori infernali hanno cominciato a scavare nel nostro fondo più intimo, sventrando e ricomponendo cellule e Dna, creando mostruose chimere, ‘clonando’, in una blasfema caricatura della Creazione. Non accettiamo di essere ciò che siamo, ecco il punto. Non accettiamo di morire, e quando è stato tentato tutto ciò che la pietà e l’affetto possono agire, nonostante ciò deleghiamo il nostro corpo a macchine disumane, di cui diveniamo parte, trasformandoci in mostruosi fantocci non-umani. Prima ancora di quel passaggio, ad un certo punto comunque inevitabile, non accettiamo di invecchiare. La chirurgia plastica è forse la più ridicola bestemmia contro l’Umano che la nostra cosiddetta civiltà abbia partorito. Dal suo utero malato escono le donne "perfette" che si propongono come modello all’Umanità intera: e vien da chiedersi quale trasporto erotico, quale scambio di sensi e di umori sia possibile avere con quelle bambole di frangibile porcellana, da guardare ma da non toccare. Non è diverso da loro un nostro celeberrimo politico ultrasettantenne, da tempo ridotto ad un grottesco mascherone di cera e peli finti, fantoccio senza tempo, come pure senz’anima. Non accettiamo i nostri limiti, insomma. E di questa "cultura", la massima espressione è oggi la vicenda di Pistorius, l’atleta che, avendo perduto le gambe, vuole tornare a correre con due protesi artificiali. Non è nuovo, nel mondo della disabilità, questo ricorso ad una tecnologia estrema al fine di superare dei limiti che, imposti dalla fatalità, pur tuttavia esistono, dei quali bisogna perciò prender pure atto e coi quali è necessario fare i conti: celebre l’esempio dei ciechi che sciano con l’ausilio di un radar. Ma quel che colpisce nel caso di Pistorius è appunto la hybris, l’ostinato e tracotante rifiuto della Natura in nome di un diritto ad avere ciò che non si ha più, e che non si potrà mai più avere. Invece, appunto, di accettare i propri limiti, invece di pensare a costruire, all’interno di questi limiti, un’esistenza comunque possibile. Sempre ci sono stati i disabili, e sempre, soprattutto nelle culture primitive e contadine, hanno trovato un loro "posto", senza che nessuno pensasse mai a rifarli diversi – Pistorius e quelli come lui vogliono dare l’assalto al cielo, tirar giù gli Dèi dai loro scanni, obbligarli ad obbedire loro. Blasfema, e, oltretutto, triste metafora della nostra condizione di déracinés. Dopo la morte di Dio, credevamo di non aver più niente da desiderare, nessun altro trofeo da abbattere. Non ci è bastato, e siamo ancora insoddisfatti e rancorosi, condannati dalle nostre stesse mani all’infelicità perpetua.

Giuliano Corà

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