20/01/08

SCACCO MATTO AL RE!


Se n'è andato a soli 64 anni Bobby Fischer, il primo campione mondiale di scacchi nato in America. E' morto in Islanda, dove ottenne il suo grande trionfo 36 anni fa, quando vinse il titolo contro il russo Boris Spassky, in una sfida che per la prima volta rese il nobile gioco popolare quanto il calcio o il baseball. Se n'è andato per un blocco renale, prematuramente. Ma neppure troppo: sin dai tempi di Achille i supereroi sono destinati ad una vita breve e gloriosa. Fischer è stato, infatti, un sopravvissuto per lunghi anni. Destino emblematico dell'eroe che sa fare magistralmente una sola cosa ed è un disadattato in tutte le altre, ha avuto una rapidissima parabola ascendente ed una lunga e melanconica caduta negli abissi. Sin da quando ricevette in dono la prima scacchiera, si è considerato il più grande scacchista di tutti i tempi. Aveva solo sei anni e da allora, mossa dopo mossa, dovette imporsi contro tutti gli scacchisti della sua era. Non ci mise molto a vincere il campionato americano, un paese dove la libido del pubblico si concentra sui giochi con la palla. Vinse tutti i tornei, otto di seguito, ponendo le basi per la corsa al titolo mondiale. Si trovò, quasi da solo, a competere contro il paese egemone nel mondo scacchistico, l'Unione sovietica. Ad ogni torneo, riusciva a guadagnare qualche posizione, protestando incessantemente contro presunte congiure dei russi a suo danno. Ma tant'è, lui era Bobby Fischer e nessuna macchinazione del Kgb poteva precludergli la grande sfida. Nelle eliminatorie per il titolo del 1972, sparisce l'impacciato ragazzino con risultati alterni ed emerge il campione di unica levatura: a Vancouver sconfigge Taimanov con un punteggio tennistico: 6 a 0. A Denver contro Larsen ripete lo stesso exploit. Neppure Petrosian, campione del mondo fino al 1969, riesce a fermarlo e a Buenos Aires si deve arrendere con un pesantissimo 6 ½ a 2 ½. Finalmente Fischer ha la possibilità di sfidare il campione in carica, Boris Spassky. I due hanno caratteri opposti: tanto Fischer è eccentrico, arrogante e prepotente quanto il secondo è educato, comprensivo e generoso. Dietro di loro, le due super-potenze dell'epoca, gli Stati uniti di Nixon e l'Unione sovietica di Breznev. La guerra fredda è al suo apice, la primavera di Praga è stata repressa da poco e Vietnam e Cambogia subiscono ancora massicci bombardamenti. L'incubo della guerra nucleare domina il mondo e le super-potenze non vogliono trovare alcun accordo. Si vive nella paura atomica. Le difficoltà di dialogo si estendono anche al mondo degli scacchi. In genere, è il campione in carica che detta le condizioni per la sfida. Ma l'americano non si lascia intimidire: vuole che il premio per il vincitore sia più consistente, e solo grazie alla donazione di un privato la Federazione internazionale riesce a portarlo a 250 mila dollari; richiede e ottiene che la sfida si svolga a Reykjavik piuttosto che in Jugoslavia, impone limiti alle riprese televisive. La Federazione sovietica giustamente protesta e tenta di far definitivamente saltare i nervi al già labile e maleducato rivale. Quando Fischer non si presenta il giorno fissato per il primo incontro, i russi sperano in un suo abbandono definitivo e di conservare così il titolo nelle loro mani sin dal 1948. Ma la sfida s'ha da fare: Henry Kissinger, forse per la speranza di vincere una battaglia contro il nemico sovietico senza usare l'esercito, riesce a convince Fischer a imbarcarsi per l'Islanda il giorno dopo, grazie anche alla cortesia di un passeggero che gli cederà l'ultimo posto disponibile. Boris Spassky, da parte sua, si dimostra molto più generoso di quanto sia richiesto ad un campione in carica. Forse perché intimamente convinto che sulla scacchiera può battere il fenomeno americano, anche perché nei loro cinque incontri ha collezionato 3 vittorie, 2 patte e nessuna sconfitta. I due sfidanti hanno uno staff ben diverso alle proprie spalle: Fischer è, di fatto, un eroe paranoico e quindi solitario, né gli Stati uniti posso fare affidamento su grandi campioni. Spassky, al contrario, è sostenuto da una squadra affiatata che comprende i migliori scacchisti degli ultimi trent'anni, molti dei quali ex campioni del mondo. Lo scontro di Reykjavik diventa un ulteriore capitolo della guerra fredda. Alla Casa Bianca Nixon e Kissinger cancellano impegni ufficiali per seguire le partite. Al Cremlino si mormora che sia addirittura appesa al muro una scacchiera gigante per seguire ogni mossa. Quando Spassky vince la partita di esordio contro un irriconoscibile Fischer, a Mosca si ascolta la Sinfonia n. 7 di Sostakovic, Difesa di Leningrado. Fischer dà forfait alla seconda partita, infastidito dal rumore delle troupes televisive. Solo per la generosità di Spassky l'incontro prosegue e contro i patti la terza partita è disputata, come richiesto da Fischer, in una stanzetta senza pubblico. La guerra dei nervi continua al di fuori delle 64 caselle: Fischer accusa i russi di distrarlo con luci e rumori, i sovietici insinuano che la poltrona che Fischer si è fatto portare dagli Stati Uniti contenga nell'imbottitura apparecchiature elettroniche e sostanze chimiche volte a disturbare la concentrazione del loro campione. Recuperata la concentrazione, Fischer inizia a vincere una partita dopo l'altra. Sperimenta molte aperture diverse, sorprendendo partita dopo partita le aspettative della squadra sovietica. Si dimostra ferratissimo nel centro-partita e una macchina senza errori nei finali. Spassky soccombe con enorme signorilità: 12 ½ a 8 ½ , risultato di 7 vittorie di Fischer, 3 di Spasskij (di cui una per forfait) e 11 patte. C'è chi ha visto nella sfida la contrapposizione tra libertà e dittatura, chi a paragonato gli alfieri di Fischer ai bombardieri B-52 americani e le torri di Spassky al muro di Berlino. Ma i due opponenti mal si prestavano ad essere paladini dei propri sistemi politici. Estroso e nevrotico, Fischer non aveva altro interesse che coronare il suo sogno infantile. L'intenzione di trasformarlo in «atleta della patria» si arenò con una breve telefonata del 1 settembre 1972: «Ciao Bobby, sono il Presidente Nixon. Volevo congratularmi per la tua vittoria in Islanda», La risposta fu: «La faccia breve, sono molto stanco». Diventato campione a soli 29 anni, Fischer diventa ancora più disadattato di quanto già fosse. Pone condizioni impossibili (il divieto di copricapi per il pubblico) per la sfida del 1975 contro Anatoly Karpov, perdendo il titolo a tavolino, eppure continuando a ritenersi l'unico campione del mondo di scacchi in carica. Viene squalificato e si ritira per sempre sull'Aventino della sua paranoia. Quando è arrestato nel 1981 a Los Angeles da un poliziotto di colore per la somiglianza con un rapinatore di banche, prova a tirarsi fuori dai guai strillando: «Sono Bobby Fischer, il campione del mondo di scacchi!», ma gli viene risposto: «E io sono Cassius Clay». Ricompare dopo vent'anni, nel 1992, grazie ad un premio elargito da un magnate slavo di ben 5 milioni di dollari (20 volte superiore a quello del 1972), per giocare la rivincita contro Spassky. Dura due mesi e vince ancora lui 10 a 5, ma oramai ben lontano come qualità del gioco dai vertici degli scacchi mondiali. Disputando la partita nella ex-Jugoslavia, allora sotto embargo delle Nazioni unite per la guerra dei Balcani, si attira le ire degli Stati uniti: Bobby sputa sulla lettera di avvertimento del Dipartimento del tesoro, gli Usa spiccano un mandato di arresto. Le sue apparizioni pubbliche sono sempre più deliranti: se la prende con il «grande complotto ebraico» (nonostante la madre fosse ebrea) e col suo paese, salutando gli attacchi terroristici dell'11 settembre come una «meravigliosa notizia». Oramai profugo, Fischer passa gli ultimi anni della sua vita alla ricerca di un rifugio tra Filippine e Giappone, dove viene arrestato nel 2004 mentre si imbarca su un aereo con passaporto falso. Rischia l'estradizione, allora chiede asilo politico, sposa la scacchista Miyoko Watai e ottiene infine dal parlamento islandese la cittadinanza per ragioni umanitarie. Dopo 8 mesi di carcere, esce con barba lunga, occhi spiritati e parte alla volta della terra che lo ha reso celebre. Nel mondo degli scacchi molti hanno sperato in un suo ritorno e addirittura vagheggiato la speranza che grazie a lui si sarebbe potuto finalmente ricomporre lo scisma nato nel 1993 tra la vecchia Federazione Fide e la nuova Psa, che oggi nominano due opposti campioni. Quando un super-computer veniva battuto da un essere umano, si mormorava ancora che a dettare le mosse ci fosse lui, il leggendario Bobby. Non si contano i grandi maestri che, nell'anonimato delle partite giocate su Internet, si nascondono dietro il suo nome. La morte di Bobby Fischer mette fine a tante speranze e ad altrettante delusioni.

Daniele Archibugi

2 commenti:

  1. Con Bobby Fischer scompare, oltre che uno dei più forti e conrtroversi scacchisti di tutti i tempi, un uomo veramente libero che non ha mai ceduto alle lusinghe del potente di turno. Pace all'anima sua.

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  2. Buona raccolta d'articoli

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