29/12/07

VORACITA'


Mentre il discorso critico contro l'orrore economico passa sempre più difficilmente, tanto da diventare inudibile, si sta facendo strada un nuovo capitalismo ancora più brutale e prevaricatore. Siamo in presenza di una categoria inedita di avvoltoi, chiamata private equities: si tratta di fondi d'investimento dotati di un appetito da orchi, che dispongono di capitali macroscopici. Questi titani - The Carlyle Group, Kohlberg Kravis Roberts & Co (Kkr), The Blackstone Group, Colony Capital, Apollo Management, Starwood Capital Group, Texas Pacific Group, Wendel, Eurazeo ecc. - sono poco conosciuti dal grande pubblico. E al riparo dalle indiscrezioni stanno mettendo le mani sull'economia mondiale. In quattro anni, dal 2002 al 2006, l'ammontare dei capitali incamerati da questi fondi d'investimento, che rastrellano il denaro delle banche, delle assicurazioni, dei fondi pensione nonché i patrimoni di privati ricchissimi, è passato da 94 a 358 miliardi di euro. Hanno una potenza di fuoco finanziaria fenomenale - oltre 1.100 miliardi di euro! - alla quale nulla può resistere. L'anno scorso, negli Stati uniti le principali private equities hanno rilevato imprese per un totale di circa 290 miliardi di euro, e soltanto nel primo semestre del 2007 per più di 220 miliardi, prendendo così il controllo di ben 8.000 società. Hanno ormai alle loro dipendenze un lavoratore su quattro in Usa, e poco meno di uno su dodici in Francia. Peraltro la Francia, dopo il Regno unito e gli Stati uniti, è divenuta il loro principale obiettivo. L'anno scorso hanno fatto man bassa su 400 imprese (per un totale di 10 miliardi di euro) e ne gestiscono ormai più di 1600. Diversi marchi molto conosciuti - Picard, Dim, i ristoranti Quick, Buffalo Grill, le Pages jaunes, Allociné, Affelou - sono passate sotto il controllo di private equities, il più delle volte anglosassoni. Che ora hanno adocchiato alcuni giganti del Cac 40, il listino di borsa francese. Il fenomeno di questi fondi rapaci ha fatto la sua comparsa una quindicina d'anni fa; ma in questi ultimi tempi, drogato dai crediti a basso costo e col favore della creazione di strumenti finanziari sempre più sofisticati, ha assunto dimensioni preoccupanti. Il principio è semplice: un club di investitori con grandi disponibilità di denaro decide di rilevare aziende per gestirle in proprio, lontano dalla borsa e dalle sue regole vincolanti, senza dover rendere conto a qualche azionista puntiglioso. L'idea è di aggirare gli stessi principi dell'etica del capitalismo, scommettendo esclusivamente sulla legge della giungla. Concretamente, come ci spiegano due esperti, le cose si svolgono come segue: «Per acquistare una società che vale 100, il fondo investe 30 di tasca propria (si tratta di una percentuale media); gli altri 70, li prende a prestito dalle banche, approfittando dei tassi di interesse molto bassi del momento. Nel giro di tre o quattro anni, senza cambiare il management, riorganizza l'impresa, razionalizza la produzione, sviluppa nuove attività e usa i profitti, interamente o in parte, per pagare gli interessi... del suo proprio debito. Dopo di che rivende la società a 200, spesso a un altro fondo che dal canto suo procederà allo stesso modo. Così, con un investimento iniziale di 30, una volta rimborsati i 70 del prestito si ritroverà in tasca 130: in quattro anni, un ritorno di più del 300% sul proprio investimento iniziale. Chi può volere di meglio?». Mentre guadagnano personalmente cifre demenziali, i dirigenti di questi fondi non si fanno scrupolo di mettere in pratica i quattro grandi principi della «razionalizzazione» produttiva: ridurre l'occupazione, comprimere i salari, accelerare i ritmi e delocalizzare. E in questo sono incoraggiati dalle autorità pubbliche, che sognano - come nella Francia di oggi - di «modernizzare» l'apparato produttivo. Alla faccia dei sindacati, che stanno vivendo un incubo, e denunciano la fine del contratto sociale. Qualcuno pensava che la globalizzazione sarebbe servita a saziare finalmente il capitalismo. Ma evidentemente la sua voracità sembra non avere limiti. Fino a quando?

Ignacio RAMONET - L.M.D. 11/2007

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