19/12/07

GENESI DELLA BANDA SANTA CECILIA - 1^ Parte


Solitamente la storia viene scritta dai vincitori, a volte, raramente, può capitare che se ne dimentichino.


Sino al 1954 a Tesero vi era un solo corpo musicale: la Banda Sociale che non aveva alcun altro appellativo. In quell’anno ne era presidente il signor Giovanbattista Deflorian (Tita de le Giustine) e la dirigeva il Maestro Fiorenzo Deflorian. Erano anni difficili. La guerra, finita da meno di un decennio, aveva segnato e condizionato il naturale ritmo che un sodalizio particolare come quello bandistico deve sostenere per riuscire a produrre musica. Servono motivazioni, passione, bandisti, allievi, scuola, tempo, insegnanti; insomma, in due parole, cuore e organizzazione. Cosa, quest’ultima, che oggi si dà per scontata e la si pone giustamente come base di partenza, ma che all’epoca non era affatto facile garantire. I tempi magri non permettevano di spendere più di tanto. L’ente pubblico, che a quell’epoca non attingeva, come oggi accade, dalla cornucopia provinciale, non indirizzava con disinvoltura parte delle già scarse finanze verso aspetti ludici e ricreativi della socialità. C’era molta più improvvisazione, ma probabilmente molta più passione disinteressata rispetto ad oggi. Il diletto era di sicuro la componente più ovvia e naturale che accomunasse i bandisti. Dunque, pur in mancanza delle risorse economiche di cui si dispone oggi, le cose in qualche modo andavano ancora avanti. L’immediato dopoguerra era alle spalle, tuttavia l’onda lunga di ogni dopoguerra, col lento ritorno alla normalità, aveva portato a rimescolamenti nelle gerarchie al comando. Le lotte per la supremazia e la determinazione dei rapporti di forza tra i vari galli nel pollaio, (anche nella piccola comunità teserana), avevano bisogno del giusto tempo per stabilizzarsi. Qualcuno si stava guardando attorno ed evidentemente aveva pensato che quello fosse il tempo giusto e l’associazione bandistica il luogo ideale per cercare di guadagnare rispetto e prestigio sociale. Però bisognava pazientare, trovare l’occasione e agire con tempismo e con scaltrezza. Si sa che il segreto delle fortune di qualsiasi compagine sta nell’intelligenza di chi se ne assume l’onore e l’onere di guidarla, ma anche di chi, pur capace e disponibile, decide di lasciar spazio anche ad altre voci; insomma la miscela umana ideale dovrebbe essere costituita da caratteri forti e volitivi bilanciati da altri più remissivi. Troppi aspiranti comandanti, alla corta o alla lunga, producono quasi sempre rotture insanabili. In quel particolare momento storico non c’erano gli anzidetti presupposti umani che permettessero alla dirigenza del sodalizio di imporsi con la necessaria autorevolezza. Per meglio inquadrare il contesto sociale va detto, che nelle comunità di montagna dell’immediato dopoguerra e oltre, impermeabili ad ogni “contaminazione” esterna, vi erano quasi sempre fazioni che facevano riferimento all’indiscusso e indiscutibile potere temporale della chiesa e particolarmente a chi lo rappresentava, cioè il parroco. Tali parti della comunità erano per lo più maggioritarie, proprio perché il potere esercitato dal clero a quel tempo e in quel contesto era fortissimo. Tesero, paese universalmente noto per l’apporto copiosissimo di nuova linfa religiosa, che si sostanziava in un notevole numero di messe novelle ogni anno, a maggior ragione evidenziava questa caratteristica. Il campanile era (e lo è ancora) il perno attorno al quale girava la vita non solo spirituale della comunità. Dal pulpito i preti tuonavano con violenza verbale nel silenzio intimorito dei fedeli; solo pochi temerari avevano il coraggio dell’insubordinazione. Marcello Zanon era uno di questi: un giovane intelligente e ambizioso, dal motto di spirito prontissimo e dalle battute taglienti e velenose. Quando ancora non parteggiava per le nere tonache presbiteriane restò a lungo famosa una sua frase sprezzante nei confronti del viceparroco che raggelò l’uditorio presente: “Io del cappellano me ne impippo!”. Come anzidetto era il tempo in cui la comunità paesana stava cercando nuovi equilibri e nuovi profeti e, perfettamente in linea con gli istinti naturali, i più forti e predisposti cercavano a loro volta occasioni per mettersi in evidenza. Con quella popolazione inibita dal potere ecclesiastico del tempo a Marcello bastò poco per diventare un ascoltato e seguito capo popolo…
La rottura dello status quo all’interno del sodalizio bandistico avvenne per una apparente banalissima ragione, che però, come già detto, nascondeva vecchi rancori e nuove invidie originati dalla mancata egemonia della parte guelfa (fedelina) sulla componente ghibellina (laica) che all’interno del corpo musicale era maggioritaria. A Tesero ciò non era tollerabile perché quel paese era caratterizzato da un predominio assoluto dei “fedelini” in ogni ambito sociale, artistico e culturale. La Banda invece, per ragioni “genetiche” non rispecchiava quella caratteristica e dunque l’insofferenza nei confronti della parte politicamente avversa di alcuni esponenti minoritari del complesso musicale si fece via via più aspra. Il pretesto fu una gita sociale prevista sull’itinerario Pusteria – Cortina, che la “dissidenza”, guidata proprio dall’allora trentaduenne Marcello – che nel frattempo machiavellicamente aveva abbracciato la causa del campanile – decise di boicottare scavalcando così la delibera della direzione stessa. Fu questa in pratica la goccia che fece traboccare il vaso, ma vi erano stati dei precedenti in quegli anni che avevano logorato il clima del sodalizio musicale. Nel 1953, infatti, alcuni soci avevano stigmatizzato il comportamento scorretto e l’abbigliamento non idoneo di qualche giovane bandista ai concerti in piazza e si era mostrata anche intolleranza per le ingiustificate e sistematiche assenze alle prove di alcuni membri della banda (quasi sempre gli stessi). Ne conseguì un malcontento generale, specie tra gli elementi più anziani del sodalizio, che ancora, nonostante tutto, partecipavano assiduamente alle prove e ai concerti. La situazione della Banda si fece via via più incerta e traballante, sia nei rapporti sociali interni, che riguardo ai risultati delle prestazioni in pubblico. Il boicottaggio della gita sociale, promosso e capeggiato da Marcello, aggravò ulteriormente la situazione dei già tesi rapporti interni, sino al delinearsi di una spaccatura che vieppiù si rivelava inconciliabile tra quella parte dei soci indifferenti alle regole della collettività (la fazione capeggiata da Marcello) e l’altra parte non più disposta a tollerare un tale stato di indisciplina.
A questo punto un gruppo di bandisti lanciava la proposta di procedere a un riordinamento della compagine sociale predisponendo una lista dei partecipanti ritenuti affidabili ed escludendo gli elementi palesemente incompatibili e facinorosi. Contemporaneamente si dette incarico al socio e membro della direzione Vito Deflorian (Vedovel) di elaborare la bozza di un nuovo statuto con alcune norme comportamentali semplici e chiare da osservare per il conseguimento degli scopi sociali del sodalizio Banda Sociale Tesero. Alla successiva assemblea generale convocata per dirimere i problemi anzidetti, il maestro Fiorenzo, benché in un precedente incontro informale si fosse dichiarato d’accordo per la bozza del nuovo statuto, si schierava, su intimazione del Comune (da sempre in mano ai “guelfi”), dalla parte dei riottosi. Sulla stessa china si poneva (sempre su “ordine” del Comune) anche il presidente Tita Deflorian, che in un indimenticabile discorso detto del Ponte velenoso, con cui intendeva ridurre le tensioni interne e riappacificare i componenti della banda evidenziando il valore fondamentale dell’unità sociale, cercò inutilmente di evitare la crisi e la conseguente rottura. La proposta anzidetta non venne accettata dall’assemblea che si concluse con un nulla di fatto. L’amministrazione comunale, da sempre a maggioranza democristiana, (sindaco Gabriele Jellici) non vedeva di buon occhio l’iniziativa di riordino delle cose interne della banda da parte del più anziano dei bandisti, Vito Deflorian, all'epoca già sessantanovenne e consigliere di minoranza in comune nella lista non democristiana. Conseguentemente il sindaco intimò al maestro Fiorenzo di schierarsi, suo malgrado, dalla parte di osservanza “fedelina”, dando così inizio ad una feroce campagna di demonizzazione nei confronti del benemerito Vito, capace maestro di musica e istruttore di vari complessi bandistici in Trentino prima della Grande guerra (nonché istruttore della banda militare della legione italiana d’estremo oriente negli anni 1917-1920 a Vladivostok).
Visto l’esito negativo dell’assemblea a riguardo del riordinamento societario, i bandisti anziani decisero di ritirarsi. Fu la rottura. I restanti bandisti (circa metà dell’organico originario) con il maestro Fiorenzo Deflorian, su sollecitazione della Amministrazione comunale si riorganizzarono alla meno peggio con un nuovo direttivo che, a quel punto, venne sostenuto e spalleggiato con profusione di mezzi finanziari dall’ente pubblico. Ma il peso della defezione appena consumata si fece sentire, eccome. La Banda andò avanti con qualche produzione in piazza dall’esito mediocre – scadente per tutto il 1955, fino ad arrivare all'esito disastroso del concerto di Capodanno in piazza Cesare Battisti del1956.
Alla fine della deludente manifestazione alcuni degli ex bandisti dissidenti si ritrovarono per un mesto brindisi al vicino bar Pozzo all’angolo sud-ovest del locale. Fra gli amari commenti alla prestazione da dimenticare, che ovviamente scaturirono, uscì improvvisa da parte dell’astante ormai ex flicornista Iginio Varesco (Piva) la proposizione condizionale: - “Se avessimo gli strumenti sarebbe il caso di metterci noi a fare una banda nuova”; al che il signor Arcangelo Bozzetta (fabbrica pianoforti) che casualmente, quasi estraneo, faceva parte degli uditori in piedi attorno al tavolo, intervenne: - “Gli strumenti ve li compro io!”. Era nata la Banda Santa Cecilia.

Liberamente tratto da appunti di Carmelo Delladio

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