Un ragazzo viene ucciso da un agente che spara al bersaglio come nei videogiochi. Se la vittima fosse un bimbo o un pensionato, non riuscirebbe a scalzare dalle prime pagine il faccino ammiccante dell’Amanda per più di un giorno. Poiché invece si tratta di un tifoso in trasferta, per lui si accendono i riflettori del calcio. E fin qui passi. Ma attenti, ora accade l’incredibile: appena si scopre che il morto non è uno spettatore pacifico ma un ultrà o qualcosa di simile - e che viaggia su un’auto rifornita di pietre, biglie e bastoni - ecco che la minoranza violenta degli stadi si appropria del suo cadavere, trasformando un reato individuale in un attacco premeditato agli estremisti del tifo. Un’interpretazione allucinante. Ma le istituzioni finiscono per avvalorarla, elevando la povera vittima allo status di eroe senza macchia, nonostante il minimo che si possa dire di lui (anche al netto delle pietre trovate nelle sue tasche che l’avvocato di famiglia riduce a «microformazioni calcaree») è che frequentava cattive compagnie. La morte in Italia è un lavacro universale e chiunque osi steccare sul coro della retorica è accusato di voler sminuire le colpe del poliziotto. Tanto vale ripeterlo, allora: è stato un omicidio, non si spara ad altezza d’uomo su Totò Riina, figuriamoci su un ragazzo. Ciò detto, il lutto al braccio della Nazionale resta incomprensibile, come la retromarcia dei giocatori dell’Atalanta che si erano schierati contro gli ultrà. Perché i maneschi e i loro amici non fanno parte del calcio. Almeno non di quello per il quale alcuni di noi si ostinano a delirare fin da bambini, senza avere mai avuto nelle tasche neanche una microformazione calcarea.
Massimo Gramellini – La Stampa 17/11/07
Massimo Gramellini – La Stampa 17/11/07
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