06/11/07

DIOMIRO


Ci aveva sempre creduto, perché amava i suoi genitori e perché era sensibile. Il nome di Dio invano non lo si poteva dire, mai! Un giorno di primavera, a scuola, una coloratissima farfalla entrò dalla finestra e al suo apparire, Beppino, un suo compagno di classe, non riuscì a trattenersi e proruppe: “Dio, dio, che farfalla!” Diomiro scattò, come la molla di una trappola, alzando la mano e chiedendo di essere urgentemente ascoltato dall’insegnante e con slancio sincero e il cuore in gola si affrettò a denunciare con enfasi e ritmo particolarissimi la clamorosa sentenza: “Maestro, Beppino-ha-detto-dio-dio-che-farfalla!”. La classe scoppiò in una fragorosa risata, e Diomiro ci restò male.
Era così, puro e semplice, convinto che bisognasse sempre essere coerenti e rispettare ciò che ti era stato insegnato. Amava la musica, e l’arte in genere, come capita spesso a chi è di animo buono. La sua formazione religiosa inculcata col rigore della dottrina preconciliare stentava ad adattarsi alla revisione del Concilio Vaticano secondo. Dall’austera dogmatica sontuosità delle liturgie in latino alla leggera trasparenza postconciliare; dalla schematicità rigorosa, manichea e a tinte forti del Catechismo ripetuto all’infinito, dove l’Inferno era rappresentato dal rosso del fuoco eterno e dai dannati senza pace e il Paradiso da un celeste e rarefatto sospeso di anime incantate e gaudenti, si era passati a una indefinita interpretazione dei luoghi dell’oltretomba dall’incerto immaginario, che avrebbe in pochi decenni trasformato la religione cattolica nella più confusa delle professioni di fede. E difatti a Diomiro il conto non tornava più. Troppi tasselli erano stati sottratti o modificati e l’impalcatura traballava paurosamente. Ciò che prima era proibito adesso era concesso. Anzi era dovuto! Molti tabù improvvisamente rimossi, o quasi…
La fregatura stava proprio lì. Avere in testa “un racconto” con un suo preciso impianto filologico mandato a memoria come prevedeva l’insegnamento del vecchio Catechismo e poi ritrovarsi improvvisamente con troppi vuoti, troppe licenze. E non sapere più sin dove osare. Ciò che per i più era apparsa come una “liberazione”, a quelli per intenderci che a messa, la domenica, ci andavano per avere la coscienza a posto o meglio, come si diceva in quel paese, “par esser sò de festidi”, per Diomiro invece, era stata l’origine di un grave conflitto interiore cui non riusciva a dare soluzione. Probabilmente era stata quella Chiesa, vecchia di secoli, fatta e pensata per governare le comunità chiuse e le antiche economie rurali e il cui presupposto apparente era un’umanità denaturata e rigidamente controllata nei rapporti interpersonali a tradirlo. Il vero credente doveva essere totalmente alieno dalle pulsioni dell’es: ciò era, ovviamente, una pretesa inconciliabile con le ragioni biologiche del vivere e dunque, giocoforza, ipocrita. Diomiro proveniva da una famiglia agiata, il padre artigiano, la madre casalinga. Non conosceva la durezza della vita contadina che a quel tempo accomunava la maggioranza delle famiglie del paese. E la sfortuna gli veniva proprio dall’impossibilità di tirarsi fuori da quella "cultura di chiesa" così opprimente e soffocante che lo aveva accompagnato sin da bambino. Messe, funzioni, vespri, rosari, novene, funerali, dottrina, catechismo, eccetera. Un troppo pieno che gli negava il resto. E come se non bastasse, dopo tutte quelle partecipazioni liturgiche e i doveri scolastici quotidiani, il tempo che gli avanzava lo dedicava un po’ per forza e un po’ per abitudine a leggere ciò che la biblioteca di casa offriva: libri di devozione, di peccati, di penitenze, di atti impuri, di tormenti infernali. Non c’era stalla in casa di Diomiro, non c’erano né ’l porcel te la rèla da accudire né le vacche da mólser o da menàr a pasto e vardàr via e così lui non viveva in contatto coi campi, con i asèrdi e con le bisse, col bosco, col pascolo, con la terra, con gli amici. La mancanza del gioco, del tempo ludico di quella sua giovinezza alla fine pesò eccome. Gli divenne tutto pesante, impegnativo. Troppe energie psichiche se ne stavano andavano in quel vortice di pensieri ricorrenti. Gli altri si adeguavano. La natura questo prevedeva, comunque. E seppur l’intransigenza dell’autorità religiosa in paese fosse tollerata generalmente da tutti o quasi, ed i precetti, i comandamenti, gli obblighi, fossero da tutti (o quasi) rispettati e assolti, la vita presupponeva altro e dunque in fondo la doppiezza di quella comunità che si percepiva anche allora, pur mitigata dalla semplicità di quei tempi e di quella vita, diventava una necessità, se si voleva vivere: fingere per non morire. E proprio per questo, forse, quel paese, che era stato un’autentica fucina di sacerdoti, aveva nel suo DNA una fortissima dose di fariseismo…
Passarono alcuni anni. In una grande città del Nord – dove si era trasferito per lavoro – gli capitò un brutto incidente d’auto. Restò in coma per parecchi mesi e al suo risveglio, qualcosa era cambiato.
Diomiro non era sposato, non perché le donne lui non le vedesse o non lo interessassero, ma perché alle donne, che sono animali veri, anche allora (è legge di natura) piacevano gli aitanti, di bell’aspetto e vigorosi, i pragmatici intraprendenti, gli opportunisti ed estremisti per finta, quelli che alla fine si confanno astutamente alle tendenze dei tempi. In natura è sempre l’elemento femminile che conduce le danze. La cultura maschilista si illude di decidere, ma in realtà le scelte le compie sempre la donna. È tutto ovvio e governato dalle leggi biologiche. La natura così vuole e le cose così vanno… Diomiro purtroppo, era semplicemente un uomo, né aitante, né particolarmente vigoroso: un normotipo tranquillo dotato di qualità poco apprezzate: sincerità e sensibilità. Insomma, il tempo passò e lui restò scapolo. Una condizione che dopo una certa età comincia a pesare. Proprio quando si perdono per ovvie ragioni anagrafiche, gli affetti più cari, quelli primari, quando forte diventa il bisogno di qualcuno vicino con cui condividere il tempo, parlare, confrontarti. E invece nulla, nessuno. Guardandosi intorno si sentiva sempre più solo, fisicamente solo e bisognoso d’affetto, e oltre tutto privato della possibilità di scambiare idee e pensieri che i più non sentivano affatto importanti. Fu così che poco a poco, iniziò la fase di interiorizzazione e di elaborazione delle sue convinzioni. La solitudine in una società che privilegia l’esteriorità, che ha i suoi cardini nei termini ipocrisia e approfittare è la compagna più sconveniente che possa capitare a chi è semplice, sincero e di animo gentile. Perché ti cinge e da essa non riesci più a liberarti. Per Diomiro era ogni giorno più difficile dare un senso alla sua esistenza. Perché la vita ha i suoi presupposti inderogabili e affinché possa dirsi compiuta attraverso di essi bisogna passare. Ma da soli non si può… Lui non poteva raggiungere quell’ obiettivo minimo, di base, perché s’era ritrovato solo. Completamente solo! Con le sue convinzioni, la sua sensibilità, i suoi sentimenti genuini, in un mondo materialista sostanzialmente “falso”. I primi sintomi di quel malessere furono degli improvvisi e repentini cambiamento d’umore. Dall’euforia alla prostrazione in un niente. Il gusto dell’eccesso, della stravaganza, il dire chiaro, gridato!, pane al pane, sempre e comunque. La insopprimibile necessità di farsi notare. Per sentirti ancora esistente, vivo. Ma Diomiro, tutto questo lo esternava agendo attraverso la sua cultura e la sua sensibilità, che in quel luogo erano aliene ai più. Il tempo alimentò la maldicenza e il bisbiglio isolato si fece in breve rumore di fondo. L’è mato, l’è mato!... Perché trascorrere gran parte della notte girovagando in auto di locale in locale e “farsi” di psicotropi e straparlare e affogare i pensieri dell’alcol obnubilando i sensi e… è una tollerata “necessità” che non pregiudica affatto il pubblico giudizio di sanità mentale, ma far passare le ore più difficili ascoltando uno struggente “Libera Me” di Verdi nel buio di una stanza, con le lacrime agli occhi e la finestra socchiusa, è indubitabilmente segno di pazzia…

Tratto da “Il Paese dei sapienti” di Ario Dannati

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