30/10/07

LA RESA DEI CONTI




Egregio Euro, ho scoperto il tuo blog e devo ammettere che è molto meglio del mio; più profondo e divertente, più dotto, più documentato. Dopo i dovuti apprezzamenti, permettimi di fare due osservazioni a questo "vecchio" post (LEZIONI DI ECONOMIA), perché proprio di economia o roba simile, mi occupo. Niente da dire in merito al paradosso. Se non che: 1. l'amico PIL è un aggregato statistico, e come tale non centra con i "meccanismi economici" ma è solo frutto della stupidità umana; 2. la spesa (anche quella pubblica) "genera" PIL e il problema non è una scelta fra spese e PIL. Il fatto è che il PIL non considera i "mali" prodotti dal sistema (immondizia, inquinamento, distruzione del patrimonio etc.) proprio quelli che tu combatti!; 3. i topi non sanno niente di economia, ma si comportano esattamente come i modelli (astratti) degli economisti vorrebbero l'economia (nostra, reale) funzionasse: cioè fondati sull'egoismo utilitarista. vi sono in merito interessanti esperimenti: ebbene si, noi economisti facciamo anche esperimenti con i topi!) Allora, per concludere, ti chiedo, non sarà che se loro sopravviveranno e noi no, è solo colpa della nostra "umanità"?


Cordialmente. Un giovane economista

Gentile economista, scusa il ritardo con cui ti rispondo e la sommarietà della mia risposta, ma poiché lavoro posso dedicare a questo spazio solo tempi residuali. Premetto, per correttezza, che il pezzo cui fai riferimento non è mio, cosa che peraltro avevo ben messo in evidenza in calce allo stesso. Dunque mi permetto di risponderti considerando la sola puntualizzazione n°3 del tuo commento sperando di aver interpretato esattamente il senso della tua domanda. Tu mi chiedi se l’ipotetica scomparsa dell’uomo potrebbe in qualche modo essere conseguenza della sua “umanità”. Beh, se per umanità intendi quel coacervo fatto di conoscenze, di capacità di raziocinio, di passioni, di memoria storica, di fantasia, di estro, di irrazionalità, financo di stupidità, che costituisce la magmatica essenza dell’uomo, allora certo posso condividere la tua ipotesi. L’uomo è in effetti l’unico animale in grado di pensare e ragionare ma anche l’unico capace di essere imprevidente e stupido. I topi citati in quel post agiscono come dici per puro egoismo utilitarista, ma quando sono sazi (e la sazietà nel loro caso coincide con un appagamento fisiologico) si fermano. L’uomo invece, che è fatto d’altro, non solo di istinti, ma appunto di passioni, di smanie, di presunzione e di stupidità, ed è istigato ossessionatamente a consumare all’impazzata dall’invasiva onnipresente pubblicità, non riesce mai a saziarsi e a capire di doversi fermare. Qui sta il punto dolente: l’impossibile quadratura del cerchio! Perché il mito della crescita economia che viene evocato ad ogni piè sospinto dalla classe politica (qualunque essa sia e, beninteso, sempre suggerito dall’intangibile “Libero Mercato”), e spacciato per la panacea del mondo, non tiene affatto conto dell’impossibilità fisiologica della crescita infinita. Economia è parola ambigua con parecchie e antitetiche accezioni. Tra queste, ad esempio, parsimonia, risparmio, e cioè, liberamente traducendo, uso controllato e coscienzioso delle risorse. In verità però l’accezione più comunemente intesa del termine significa il suo esatto contrario: spregiudicato uso delle medesime risorse per far si che la “macchina economica” cui fa conto una parte minoritaria di umanità continui la sua corsa verso un sempre più improbabile benessere. Se pensiamo a quali siano i “bisogni” che questo sistema soddisfa, per l’appagamento dei quali l’uomo sta distruggendo il suo habitat, viene da credere che i topi appunto siano molto, molto più evoluti di noi. Comunque la si pensi, una cosa è certa: questa parte di Umanità - al di là dello sviluppo tecnologico - è in una fase involutiva. E a riprova di ciò basti considerare che l’uomo ha toccato le vette artistiche, filosofiche, spirituali, e di conoscenza in generale, molto prima di raggiungere questo “benessere”. Oggi, mentre noi, abitatori del “primo” mondo viviamo immersi nella volgarità dei costumi e nella corruzione diffusa, agognando, invidiosi, automobili lussuose e residenze principesche in cui ostentare tutta l’insipienza di questa decadente “civiltà occidentale”, i rimanenti 2/3 dell’Umanità sopravvivono tra quotidiani attentati, guerre, fame e disperazione. Immagini e scenari di lutti e tormenti indicibili che le televisioni ci propongono ogni giorno, alternandole a dosi sempre più massicce di programmi rincretinenti. La somministrazione quotidiana di stupidità ci permette di percepire il tutto molto ovattato e lontano. Un doping di massa con un “target” indiscriminato. Sopire e dimenticare: è uno dei presupposti del nostro stile di vita. Lo sviluppo industriale dal dopoguerra in poi è stato costellato da tragedie ambientali e umane di ogni tipo (da Bhopal a Chernobyl, da Seveso a Marghera, dal Vajont a Stava) che però in nome del progresso sono sempre state “metabolizzate” e nel comune sentire considerate accidenti inevitabili del cosiddetto benessere. Finché quelle tragedie restavano circoscritte all’ambito geografico in cui accadevano, questa parte di Umanità poteva (grazie all’anzidetto presupposto) continuare tranquillamente a non pensare. Ma l’oste a sbornia conclusa esibisce sempre il conto. Sempre. Ora la situazione è cambiata. Adesso la misura è colma e lo sviluppo economico senza freni perseguito a partire dalla rivoluzione industriale sino ad oggi (per oltre 150 anni solo nel cosiddetto Occidente, ma ormai mito planetario, leggasi Cina e India) già comporta drammatiche conseguenze ambientali a livello globale, tendenzialmente in peggioramento. L’ecosistema è al limite, credere (e far credere) che grazie alle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo economico ogni individuo di questa parte di Umanità possa continuare a comportarsi irragionevolmente e ostentare più agi e privilegi di quanti ne avevano Luigi XIV di Francia e la sua corte, nonché sostenere oltre ogni logica che detto “sviluppo” non potrà mai avere fine, è semplicemente folle. Chi riesce ancora a pensare non ha più dubbi in merito, è urgentissimo riconsiderare il nostro stile di vita: moderandone i consumi e riconsiderandone i “bisogni”, per permettere a noi drogati di "benessere" di disintossicarci e ai restanti 2/3 di abitatori di questo pianeta di disporre delle risorse naturali fondamentali per vivere. Ne va semplicemente del mantenimento del nostro habitat. Ora faccio io due domande a te. Ma dove vogliamo arrivare? E gli economisti che tutto questo studiano quando cominceranno a preoccuparsi?

euro

1 commento:

  1. Caro Euro,
    permettimi di abbandonare le formalità letterarie, e darti del tu. La tua risposta molto ricca e complessa va certamente al cuore del problema.
    Io sono fra quelli che, in un aura nichilista, di certo non piangeranno il giorno in cui la nostra terra verrà privata dell'umanità. Non ho fiducia nell'Uomo. E pertanto, come potrei averne negli economisti? Tu probabilmente sei sostenitore insieme ad altri, della "teoria della decrescita", avrai letto Latouche, Gallino e altri e sarai rimasto affascinato da questa idea. Ora, prima di loro, Nicholas Georgescu-Roegen, il fondatore della "bio-economia", un rumeno, ironia della sorte, ha propugnato quest'idea di sviluppo. Sociologi e antropologi l'hanno poi estesa notando che ciò che serve è "riconsiderare il nostro stile di vita" e intendendo il nostro modo di pensare. Ora, pur concordando nel merito, non posso non notare che il puntare l'accento sulla nostra forma mentis, quale origine e causa del male, si arriva al cuore del problema senza poterlo (o volerlo)risolvere. Questo penso sia la ragione per cui molti (intelligenti) economisti non si occupano della decrescita come soluzione (ben accettandola come concetto logico).
    Il nostro benessere smisurato è frutto dell'uso delle risorse scarse (la definizione è di Lord Robbins, uno "squallido" liberista) e, piacerebbe aggiungere, del dominio sulla maggior parte delle risorse disponibili. Il guaio qui, ed ora, è che questo processo ha da sempre favorito noi, Occidentali, padroni del mondo; ma l'aria sta cambiando, il vento tira ad Oriente. Il capitalismo neoliberista sta arricchendo i poveri e impoverendo i poveri fra i ricchi. Restano fuori per ora e per ovvie ragioni, i ricchi fra i ricchi e gli ultra-poveri. Il mondo nel suo complesso è, paradosso dei paradossi, molto più equo oggi rispetto a 500 anni fa. La povertà, sorpresa, è ai minimi storici (ma si può fare di più!). Il punto è questo: supponiamo di optare per la decrescita, supponiamo di riuscire a cambiare la mente degli Occidentali, davvero crediamo che i cinesi, o gli indiani, o in futuro gli africani, saranno disposti a rinunciare alla crescita per il Pianeta (a consumare di meno)? Se la torta diventa sempre più piccola e i commensali sempre di più, qlc dovrà rinunciare a un pezzo in più. In economia ciò che conta è "il relativo". Io in misura di te. E viceversa. Pertanto per quanto mi piaccia credere in un cambiamento di rotta credo esso sia, allo stato attuale, impossibile. Al contrario penso che sarà proprio l'economia (neo-liberista) nel processo sopra descritto a redistribuire i pezzi di torta. E senza appello, per giunta. Se noi "ci ripensiamo", gli altri ci mangeranno. Poco male, penserai, la povertà (relativa) rinsavirà i nostri spiriti. Può darsi.
    Ma infine, quale soluzione al problema? Resta una variabile, la tecnologia e la ricerca scientifica. Chi può dire dove ci porterà? Forse ci salverà dalla trappola del Pil. O forse semplicemente dovremo accettare un cambiamento. Grande. Chissà...
    Rimangono gli economisti stupidi, quelli che vivono nel breve periodo [e che nel lungo saranno morti (parafrasando Keynes)], quelli che don't care, bevono swap e mangiano derivati. Poracci. Manco loro si salveranno...

    Cordialmente
    Alex

    Ps. consiglio l'ascolto dell'intervento di Umberto Galimberti al Festival dell'Economia 2007: "Critica del pensiero calcolante" (lo trovi qui, http://www.festivaleconomia.it/podcast/podcast-2-giugno)

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