20/07/07

T.s' BOYS


L’orologio del tempo aveva cancellato quei caldi giorni di luglio che odoravano di solventi e di morte. C’era stata una rimozione collettiva di ciò che era accaduto. L’ordine perentorio lanciato “sottotraccia” dai maggiorenti paesani aveva velocemente sistemato i malumori, le insubordinazioni. La pena per chi non si fosse adeguato sarebbe stato l’isolamento. Il paese aveva da cogliere un’occasione irripetibile! E proprio quell’aggettivo irripetibile… ripetuto sino alla nausea sarebbe diventato di lì in avanti il marchio di ogni iniziativa originata in quel luogo. Presto fu tutto acquietato ed anche l’invocazione “Giustizia Presidente!” gridata sul sagrato della chiesa domenica 21 luglio poco prima di mezzogiorno all’indirizzo del Capo dello Stato venne dimenticata in fretta. Ma odi e rancori si aggirarono a lungo per le case di quella comunità come fantasmi senza pace. Come un vento funereo, gravido di presagi. L’acqua però continuò a scorrere lungo quel rio che aveva macinato come in un’immensa centrifuga uomini e cose, finché quell’odore di solventi e di morte lentamente si dissolse; anche i fantasmi, poco a poco, svanirono. Quel paese un tempo montanaro e tranquillo (fin troppo tranquillo!) non esisteva più: quel tragico venerdì era stato all’un tempo l’omega e l’alfa della storia di T. Iniziò l’era dell’ottimismo e al vecchio T se ne sostituì uno nuovo, abitato da un nuovo “popolo” che intendeva soltanto approfittare di quell’inaspettato, devastante lutto collettivo. Passarono gli anni e crebbero i frutti di quelle notti passate sognando il nuovo eldorado…
Era oltremodo fastidiosa la presenza di quei giovani leoni paesani: sembravano fatti a ricalco. Pedissequamente “costruiti” dalla moda corrente, perennemente seduti a bordo delle loro inseparabili auto con la sigaretta alla James Dean in bocca e il telefonino in mano. Erano gli uomini nuovi, che la retorica di quel momento cercava sempre di scusare: i giovani. Quante volte sarebbero stati argomento “importante” delle campagne elettorali paesane: “dobbiamo dare qualcosa ai giovani; i giovani non hanno questo, i giovani non hanno quello; poveri giovani, questa comunità si impegnerà per garantire loro ciò che le precedenti generazioni di giovani non hanno potuto avere” eccetera, eccetera. Ma si trattava soltanto di un blà-blà-blà populistico tanto per raccattare qualche voto in più. In verità questi giovani avevano troppo. Mancavano casomai di una sana dieta francescana, altro che. Figli di genitori nati e vissuti nel boom economico degli anni ’50 – ’60, in un mondo che stava velocemente cambiando connotati e prospettive, sognanti un futuro di godereccia beatitudine, negatori di qualsiasi idolatria salvo il denaro e che si ritrovavano inaspettatamente protagonisti di un divenire gaudioso. Giovani virgulti arroganti e imbecilli, acritici e presuntuosi, forti bevitori di birra nei tanti locali del paese (ne erano proliferati diversi in poco tempo), formidabili ruttatori e pisciatori nei fine settimana… tanto per dimenticare un’infanzia viziata appena trascorsa. Stupidi nottambuli vuoti di tutto. Li si incontrava ovunque, insolenti come le mosche mentre si sta a tavola, sempre rigorosamente auto-trasportati e impazienti di ottenere strada se ti trovavi sul loro percorso. Gianni, il fabbro, aveva una gran voglia di dargli una lezione. Quel ragazzetto con il berretto a visiera calato sulla testa che dallo scoccare del diciottesimo anno d’età non si era più concesso di fare quattro passi a piedi, rappresentava il perfetto stereotipo della stupidità dell’epoca. L’ostilità tra loro era reciproca: Gianni lo avevo capito da tempo e quando si incrociavano, l’uno naturalmente in auto e l’altro a piedi, si scambiavamo occhiate piene d’odio. Qualche mese prima il fabbro aveva avuto col “boy” un acceso diverbio sempre per il solito motivo. Quei giovani virgulti provocavano con piacere e con malizia ma non riuscivano ovviamente a capire. Tra qualche anno questa zavorra umana sarebbe diventata la “classe dirigente” del paese. Rispettabile e prepotente come lo sono tutte le “classi dirigenti”. Con l’aggravante però di essere di certo peggiore e più stolta di quelle precedenti. Gentaglia priva di poesia e di sentimento. Generazione prodotta e allevata a formaggini Mio, Nutella e abbondanti dosi di triviale televisione, imbevuta di becera, locale, sottocultura sportiva della quale perlomeno (e per sua fortuna) si era ben presto liberata. Gioventù bruciata, esattamente! Priva di ogni legame col territorio e col ritmo lento della montagna che oramai era solo un lontano ricordo. L’abiura per un passato “troppo povero e plebeo” era stata totale. Giovani uomini?!? Il cui unico miraggio (ben accondisceso dalle loro famiglie) si sostanziava univocamente nell’arricchimento. Quei genitori, che al mito dello sportivo bello, ricco e famoso avevano creduto e ancora credevano, guardandoli di nascosto, speravano per quei figli un brillante e soprattutto remunerante futuro da campione. Non c’era nessun’altra aspettativa nei loro confronti. Tutt’al più gli si prospettava un domani di successo professionale: forse da ingegnere o da commercialista, più raramente da medico. E Gianni, nelle sue disturbate, insonni notti provava a immaginare quali discorsi, quali parole avrebbero potuto dirsi vent’anni prima quei futuri genitori mentre le mogli gravide erano in “dolce attesa”? Ma di che mai avranno ragionato? Ma in che mondo pensavano di vivere? E davvero speravano di vivere tanto a lungo in quell’artificiale e misero bengodi? …


Tratto da "IL PAESE DEI SAPIENTI" di A.Dannati



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