08/04/07

IL PAESE DEI SAPIENTI
novella di Ario Dannati


Prefazione

La vicenda qui narrata si svolge nel paese di T nell’arco temporale che dal 1985 arriva sino ai giorni nostri. Protagonista del racconto la popolazione di T nella sua interezza, con riferimento ai suoi comportamenti quotidiani, alla sua cultura, alla sua smisurata narcisistica voglia di protagonismo.


Prologo


Al tempo dei fatti qui narrati T era un paese di 2467 cristiani. La vita delle persone scorreva senza particolari entusiasmi, tra lavoro – nobilitato passatempo in cui quasi tutti a T trovavano piacere, ragione e scopo – e piccole residuali attività ricreative che rompevano il monotono scorrere del tempo. A T si stava bene. C’era tutto quanto una persona normalmente dotata di cervello avrebbe potuto desiderare. C’erano chiese, c’erano bande musicali, c’erano cori polifonici, c’era un teatro, c’era una radio, c’erano campi di bocce, di tamburello, di pallone, c’era un oratorio, c’era una casa di riposo, c’era un asilo, c’era una scuola, c’era campagna, c’erano stalle, c’era la neve, c’erano monti, c’erano rivi e torrenti, c’erano api e apicoltori, c’erano monache e c’erano preti; e tanto e tanto ancora. Soprattutto però c’era a quel tempo il più prezioso dei beni che si potesse desiderare e che molti, in altri luoghi, meno fortunati, agognavano: la tranquillità. Ebbene – ciò nonostante – la popolazione di T non si sentiva affatto soddisfatta: aveva uno spirito irrequieto, smanioso; una voglia mai appagata di sentirsi sempre al centro dell’attenzione, di fare e di apparire, di essere protagonista e di far sapere a tutti di essere la migliore, la più capace, la più dotata. E forse c’era del vero: ma di una cosa era totalmente priva: di umiltà. Anche per questo col tempo nei paesi vicini T venne chiamato ironicamente (ma non troppo) il paese dei sapienti.
Accadde tutto, rapido e inaspettato, in una calda giornata di luglio. Da poco era passato mezzogiorno. La tragedia si compì in pochi minuti: un piccolo invaso di fango ruppe gli argini e piombò sulle abitazioni sottostanti. Ci furono 268 morti. Vittime anch’essi di quella sapienza tanto ironica quanto inesistente che da sempre aveva contraddistinto oltre che la popolazione anche – giocoforza – chi essa amministrava. Il lutto fu elaborato con sorprendente velocità. E i poveri morti, tragico risultato dell’incuria e della superficialità asservita alla brama di profitto, che puntualmente nelle successive, ripetute, enfatiche, ipocrite, celebrazione dell’anniversario si ricordavano uno ad uno su grandi necrologi affissi ovunque nel paese – nell’intimo della coscienza collettiva della popolazione – furono velocemente dimenticati.
Quei tragici giorni lungi dal far rinsavire la comunità di T agirono come il morso della tarantola. T fu percossa da una spasmodica convulsione. La brama di profitto che era stata all’origine della tragedia e che annualmente veniva fintamente esorcizzata con le celebrazioni dell’anniversario, divenne la vera ragione di vita di gran parte degli abitanti di T.
I familiari delle vittime furono risarciti con una valanga di denaro che una legge appositamente promulgata obbligava fosse investita in beni immobili, e fu proprio questa imposizione che involontariamente dette inizio alla frenetica danza collettiva. La chiamarono “ricostruzione”. In realtà nulla del preesistente fu ricostruito. Iniziò così la lunga corsa, al giorno d’oggi ancora non conclusa, della gente di T verso l’effimero miraggio della ricchezza e alla ricerca di un irraggiungibile equilibrio tra avidità, narcisismo e benessere.
La frenesia arrivò velocissimamente al parossismo. T divenne una specie di Bengodi. Per la legge del contrappasso a T ogni occasione era buona per organizzare feste di popolo, ogni nuovo morto, specie se giovane non riusciva nemmeno a suscitare rimpianto che diventava un nuovo “memorial”. Si contarono in pochi anni decine di memorial. 1° memorial Tizio, 3° memorial Caio, 8° memorial Sempronio, e così via. In dicembre il paese veniva indecentemente addobbato da centinaia e centinaia di luminarie. Si facevano presepi ovunque. Ogni balcone, ogni finestra, ogni portone, un presepe. Una vera e propria gara. In estate altre gare, altre mostre. Feste della birra. Festa dei grostoli. Festa dei crofeni. Festa delle luganeghe. La tonda del Frànzele. La tonda del Céschele. La tonda del Teodoro. E ancora gare di ogni genere: la comunale, quella dei rioni. La gara dei pedondèri, la gara dei laghèri, la gara degli stavaròli, la gara dei socèri. Un crescendo immondo di occasioni di superficialità, di esternazione della parte più grossolana e volgare della comunità, e contemporaneamente la corsa sempre più spasmodica alla speculazione, edilizia in primis, e di ogni altro genere in secondo, che era ormai divenuta la cifra di T….


Capitolo 1

Emarginato da un contesto che appariva e si rivelava sempre più schifosamente vacuo, effimero, esclusivamente materialista. Sembrava impossibile che una comunità così duramente provata non trovasse altra ragion d’essere che quella di divertirsi, speculare e di cercar profitto.
Gli amici se n’erano andati, risucchiati dal fremito collettivo…

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