30/12/07

MODERATI DI MASSA


Una borghesia senza principi ma ricca di denaro, di conoscenze, di privilegi, domina il paese senza bisogno, per ora, di leggi speciali e di polizia


I partiti politici italiani sembrano dominati da una frenesia nominalistica, dalla voglia incontenibile di cambiar nome, simbolo, distintivo, bandiera, di camuffarsi, di fingere di essere ciò che non sono. Tutti amanti di una libertà che negano agli altri negli affari, come nell'informazione, come nella giustizia, tutti pensierosi di un popolo che disprezzano, temono e ingannano, pronti a lodare una morale che violano ogni giorno, ogni ora. Non la poltiglia senza nome e senza ideali di cui parla il mio amico De Rita, ma un sistema di ferree complicità fra benestanti, di assoluta reverenza per il dio denaro. In questo sistema che può essere chiamato in vari modi, come consumismo anarcoide, dominio dei manager, produttivismo senza regole, domina un'idea che ha conquistato sia coloro che privilegia, sia quanti a esso si rassegnano: c'è un solo dio, una sola morale, un solo scopo, un solo modello sociale, una sola way of life, una sola pagana religione: il denaro, la ricchezza, i soldi da cui tutto deriva, tutto dipende. Perché milioni di italiani corrono ai gazebo di Berlusconi per aderire appassionatamente alle sue false promesse populistiche, alle sue promesse di ordine e di benessere quotidianamente smentite dalla misera realtà di un paese in declino? Perché sperano di entrare in qualche modo a far parte dell'Italia che rappresenta, l'Italia dei moderati che sono i benestanti di massa, la borghesia senza principi ma ricca di denaro, di conoscenze, di privilegi, che domina il paese senza bisogno, per ora, di leggi speciali e di polizia. Si vuole un esempio recente di questa dittatura morbida? In una fabbrica torinese, un'acciaieria, avviene una strage di operai bruciati vivi da un'esplosione di gas incandescente. È chiaro a tutti che la sciagura è stata causata dal produttivismo ossessivo, dalla mancanza di precauzioni e di prevenzioni. In una società meno consumistica, meno serva del profitto a ogni costo scoppierebbe una rivoluzione, una rivolta di popolo. Nella Torino del capitalismo anarcoide niente: gli operai morti vengono sepolti, i parenti risarciti con modeste regalie, i padroni della fabbrica liberi e anche sdegnati, la colpa non è loro, ma degli operai che dovevano badare agli estintori. Cercare altri esempi, ricordare altri esempi è persino ridicolo. Giornali e case editrici non fanno altro che sfornare libri, memoriali, saggi in cui si raccontano per filo e per segno le violazioni delle leggi, dei regolamenti, dei normali rapporti civili avvenuti nel paese. Un libro dal titolo 'Gomorra' racconta con realismo estremo i delitti della camorra, un altro, 'La Casta', elenca i notabili che dovrebbero stare in galera, i cortigiani del capo dei moderati fanno gli elogi dello stalliere mafioso che doveva essere associato all'ergastolo e invece accompagna a scuola i figli del padrone. Ma perché questi libri sono dei bestseller, perché le loro edizioni si succedono? Perché i lettori vogliono finalmente conoscere il marcio che li circonda? No, credo che il vero movente sia un altro, sapere come i furbi sono riusciti a fare i soldi, a diventare ricchi e potenti violando quei freni per gli sciocchi che sono le leggi. Poi anche nella società del capitalismo anarcoide qualcuno capisce come stanno veramente le cose, esce dall'apatia, s'infuria. Ma sono jacqueries: tumulti da lazzaroni che la classe dominante dei moderati di massa può sopportare, chiusa nei suoi quartieri blindati.

Giorgio Bocca L’ESPRESSO 28 dicembre 2007

29/12/07

VORACITA'


Mentre il discorso critico contro l'orrore economico passa sempre più difficilmente, tanto da diventare inudibile, si sta facendo strada un nuovo capitalismo ancora più brutale e prevaricatore. Siamo in presenza di una categoria inedita di avvoltoi, chiamata private equities: si tratta di fondi d'investimento dotati di un appetito da orchi, che dispongono di capitali macroscopici. Questi titani - The Carlyle Group, Kohlberg Kravis Roberts & Co (Kkr), The Blackstone Group, Colony Capital, Apollo Management, Starwood Capital Group, Texas Pacific Group, Wendel, Eurazeo ecc. - sono poco conosciuti dal grande pubblico. E al riparo dalle indiscrezioni stanno mettendo le mani sull'economia mondiale. In quattro anni, dal 2002 al 2006, l'ammontare dei capitali incamerati da questi fondi d'investimento, che rastrellano il denaro delle banche, delle assicurazioni, dei fondi pensione nonché i patrimoni di privati ricchissimi, è passato da 94 a 358 miliardi di euro. Hanno una potenza di fuoco finanziaria fenomenale - oltre 1.100 miliardi di euro! - alla quale nulla può resistere. L'anno scorso, negli Stati uniti le principali private equities hanno rilevato imprese per un totale di circa 290 miliardi di euro, e soltanto nel primo semestre del 2007 per più di 220 miliardi, prendendo così il controllo di ben 8.000 società. Hanno ormai alle loro dipendenze un lavoratore su quattro in Usa, e poco meno di uno su dodici in Francia. Peraltro la Francia, dopo il Regno unito e gli Stati uniti, è divenuta il loro principale obiettivo. L'anno scorso hanno fatto man bassa su 400 imprese (per un totale di 10 miliardi di euro) e ne gestiscono ormai più di 1600. Diversi marchi molto conosciuti - Picard, Dim, i ristoranti Quick, Buffalo Grill, le Pages jaunes, Allociné, Affelou - sono passate sotto il controllo di private equities, il più delle volte anglosassoni. Che ora hanno adocchiato alcuni giganti del Cac 40, il listino di borsa francese. Il fenomeno di questi fondi rapaci ha fatto la sua comparsa una quindicina d'anni fa; ma in questi ultimi tempi, drogato dai crediti a basso costo e col favore della creazione di strumenti finanziari sempre più sofisticati, ha assunto dimensioni preoccupanti. Il principio è semplice: un club di investitori con grandi disponibilità di denaro decide di rilevare aziende per gestirle in proprio, lontano dalla borsa e dalle sue regole vincolanti, senza dover rendere conto a qualche azionista puntiglioso. L'idea è di aggirare gli stessi principi dell'etica del capitalismo, scommettendo esclusivamente sulla legge della giungla. Concretamente, come ci spiegano due esperti, le cose si svolgono come segue: «Per acquistare una società che vale 100, il fondo investe 30 di tasca propria (si tratta di una percentuale media); gli altri 70, li prende a prestito dalle banche, approfittando dei tassi di interesse molto bassi del momento. Nel giro di tre o quattro anni, senza cambiare il management, riorganizza l'impresa, razionalizza la produzione, sviluppa nuove attività e usa i profitti, interamente o in parte, per pagare gli interessi... del suo proprio debito. Dopo di che rivende la società a 200, spesso a un altro fondo che dal canto suo procederà allo stesso modo. Così, con un investimento iniziale di 30, una volta rimborsati i 70 del prestito si ritroverà in tasca 130: in quattro anni, un ritorno di più del 300% sul proprio investimento iniziale. Chi può volere di meglio?». Mentre guadagnano personalmente cifre demenziali, i dirigenti di questi fondi non si fanno scrupolo di mettere in pratica i quattro grandi principi della «razionalizzazione» produttiva: ridurre l'occupazione, comprimere i salari, accelerare i ritmi e delocalizzare. E in questo sono incoraggiati dalle autorità pubbliche, che sognano - come nella Francia di oggi - di «modernizzare» l'apparato produttivo. Alla faccia dei sindacati, che stanno vivendo un incubo, e denunciano la fine del contratto sociale. Qualcuno pensava che la globalizzazione sarebbe servita a saziare finalmente il capitalismo. Ma evidentemente la sua voracità sembra non avere limiti. Fino a quando?

Ignacio RAMONET - L.M.D. 11/2007

27/12/07

NUOVA VIABILITA' TESERO - PUNTI DI VISTA


Egregio Euro,
benché io sia d'accordo con te nel merito della questione, e aspiri un giorno a vedere Tesero (centro storico -non levatemi la macchina nella libera repubblica di Socce) come un Paese-Museo, trovo che la realizzazione della nuova viabilitá serbi in sé notevoli debolezze. Ecco i miei dubbi. 1. mi pare di capire che, secondo te, la nuova viabilità sia un modo per spingere la gente a non usare la macchina per brevi tratti; ora ammesso che ciò miracolosamente si realizzi, credi davvero che i sìori de tiezer (quei de Arestieza, fra i tanti) lascino il Suv a casa per andare a bere il bianco al Filò? 2. perché tutti o quasi i sensi unici del centro costringono ad andare in su e si scende, o per il labirinto di via del Marco-Teatro-Gesa (o Peros, IV Nov.) o, forse meglio, per la circonvallazione di Stava? Ecologicamente parlando una macchina non consumerà e inquinerà di più a salire, costretti ad ogni torna a metter prima? Quindi, perché non fare il contrario? Non sarebbe più eco-logico? Concludo. Vedendola dalla libera Rep. di Socce, la nuova viabilità è interessante, forse razionalizza, forse spingerà qlc da via Fia al Betta a prender il pane a piedi. Ma dubito che salvi l'ambiente, il Paese e le sue pie anime dall'antiquità dell'uomo. Con i miei migliori auguri

Alex



Egregio Alex,
in premessa ti confermo che, come avevo previsto, a due settimane dall’entrata in vigore del nuovo piano della viabilità, per causa di esso in paese nessun caso di suicidio mi risulta sia stato ancora riscontrato. Ho verificato inoltre che la situazione relativa al centro paese, con riferimento a via Stava, via Fia, via Cavada e l’incrocio del “Topo”, è notevolmente migliorata. Non conosco al momento il motivo tecnico che ha fatto decidere il Comando Vigili Urbani di valle di scegliere la direzione dei sensi unici che tu contesti, ma – considerata la lunghezza complessiva dei tratti stradali interessati – non credo ci sarebbe stata gran differenza se i sensi di marcia fossero stati invertiti rispetto a come sono. Inoltre, differentemente da te,
non auspico affatto che il centro storico diventi un paese museo, anzi. Lo voglio piacevolmente vivo: con gente che parla e cammina, che respira aria buona, che frequenta negozi, che si gusta passeggiando un gelato senza leccare anche "particolato" di gasolio, che discute in tranquillità, senza rumori di motori che inquinano l’udito, con bande che suonano e spettacoli teatrali "out-door" che allietano le serate estive…
Per quanto al tuo punto 1 ti rispondo che non lo so se i signori di Restiesa in conseguenza della nuova viabilità rinunceranno a trasferire i loro stanchi sederi sino a piazza Battisti in Suv o no, però lo spero vivamente. Farebbe soltanto bene alla loro salute. Mi sembra di capire che quell’avverbio “miracolosamente” che tu usi sottintenda quanto tu dubiti della possibilità che l’uomo possa affrancarsi dalla sua stupidità. È un dubbio che condivido. L’ho detto e lo ripeto: il centro storico di Tesero è di una così limitata estensione che solo la stupidità e la presunzione possono far considerare questo provvedimento viabilistico pregiudizievole a un “giusto diritto alla mobilità”.
Se si entra in un qualsiasi centro storico di città, con accesso e viabilità regolamentati, come per esempio quello nemmeno grandissimo di Bologna e si fa un semplice paragone tra la superficie cittadina inibita al transito e il complesso delle interconnessioni che vanno a mettersi in gioco rispetto alla nostra piccola realtà paesana, allora capiamo quanto siamo davvero provinciali e cafoni.
Infine, se c’è ancora chi crede che ostentare il Suv o la Ferrari faccia aumentare la considerazione, il rispetto e l’ossequio della gente nei suoi confronti e che perciò si arroga il diritto di girovagare in lungo e in largo per l’abitato – tanto per vedere l’effetto che fa – credo sia giusto limitare il transito un po’ ovunque.
Auguri anche a te

euro

24/12/07

'L MOLINAE DE TIESER


Intervista a Mario Delladio

Spirito goliardico e burlone, Mario Delladio (Scolìn) è l’ultimo molinae de Tieser. Classe 1963, qualche anno fa, dopo essersi dedicato a interessi diversi ma molto distanti da quelli legati al duro lavoro del contadino – quasi folgorato sulla via di Damasco – improvvisamente si è appassionato all’Agricoltura e da allora ha cominciato a coltivare la conoscenza della più importante e fondamentale attività dell’Umanità. Al Nostro nulla è precluso: Mario è caparbio e benché privo dei “fondamentali” relativi alla sua nuova passione si è appropriato velocemente sia della Pratica che della Grammatica. La teoria l’ha introiettata studiando e ricercando in biblioteca, leggendo sia testi specifici di agronomia che di meccanica applicata. La pratica… praticando sul campo, propriamente. Nella sua rimessa agricola, adiacente all’appartamento in cui vive, non cercate l’ordine, non lo troverete. In quel posto c’è una smisurata quantità di cose che solo lui riesce a far saltar fuori in un battibaleno. L’ordine – dice – è un concetto soggettivo e comunque superato. Forse ha ragione, chissà. Mario è un uomo dotato di una speciale genialità intuitiva. Gli basta osservare un attrezzo o anche un macchinario ed è subito capace di copiarli e di riprodurli. Ciò che sorprende è che lo fa (quasi sempre) recuperando cose non più usate, magari gettate in discarica, riattandole. È un polivalente e gli piace sperimentare. Produce patate di qualità spesso introvabili comunemente sul mercato e ortaggi diversi. Da circa un decennio però ha deciso di buttarsi con tutta la sua forza d’intraprendenza nella coltivazione di granaglie. Voleva farsi il pane in casa, inclusa la farina: e così ha fatto. Si è industriato – come al solito – con grande velocità e inventiva. Si è costruito un setaccio elettrico per la selezione dei chicchi e un “pestin” da l’orzo. Successivamente ha acquistato una macina per la produzione delle farine di derivazione. Poi si è fatto un forno a legna per cuocere le prelibatezze di cui lui stesso è gran gourmé. In via Cavada 20 da qualche tempo si possono assaggiare pani di segale e di frumento integrali, o pizze di farine miste, prodotti dai coltivi di Tesero governati nel rispetto dei cicli naturali, senza forzature, senza prodotti chimici e antiparassitari. Produzioni dai sapori antichi e autenticamente biologiche, che un tempo lontano garantivano l’autarchia alimentare alla popolazione locale e che Mario ha voluto recuperare e restituire… ai palati fini. Recentemente ha acquistato anche un decorticatore per la pulizia del farro: graminacea pregiata che qui da noi non si è mai coltivata proprio perché i suoi grani non si possono pulire dai residui della spiga senza macchinari appositi e costosi. Oggi alterna la sua professione “ufficiale” di falegname con quella “ufficiosa” di contadino e di mugnaio. Tra l’altro dispone di un motocoltivatore munito di frese e aratri per ogni coltivo e per ogni esigenza e da quando l’ultimo “caradòr”, il compianto Vittorio Delugan (Cionderin), se ne è andato prematuramente al Creatore, Mario è diventato il più ricercato aratore per conto terzi del paese. Quasi un anno fa ha costituito una società, senza fini di lucro, che perfettamente in linea col suo pensare vuole promuovere il recupero dei territori a vocazione agricola da tempo “nosèti” per produrre quel che essi possono, ma anche per riavvicinare le persone a quegli equilibri fondamentali tra la Terra e l’Uomo che qui da noi il malinteso concetto di modernità e la marginalizzazione di quella primaria attività hanno abbondantemente compromesso. Ad essa, denominata Mi.Sa.Po. (acronimo delle tre principali località agricole di Tesero: Milon, Saltogio, Porina e al tempo stesso forma verbale dialettale dal significato inequivocabile: io zappo!), hanno già aderito alcuni appassionati.

La stagione agricola si è conclusa da oltre un mese (l’anno agrario, tipicamente, termina l’11 Novembre giorno di San Martino) come è andata?
Pur avendo patito una lieve siccità a inizio stagione, facendo una media generale dei vari raccolti si può dire sia andata eccellentemente.

In base alla tua ormai lunga esperienza, quali sono le coltivazioni che più si adattano alla nostra campagna?
Nella nostra zona in campagna, a 1000 metri, ci sono colture a rischio gelate, tipo mais, fagioli e alcuni ortaggi; le patate, che rappresentano ancora la nostra coltura più importante, sono invece a minor rischio, mentre per cereali quali frumento, orzo, segale e specialmente farro non ci sono problemi di sorta. La terra sostanzialmente dà un po’ di tutto: bisogna fare attenzione a considerare bene i tempi d’impianto delle varie produzioni per non farsi “fregare” dai ritorni del freddo. Due anni fa ci fu una gelata a inizio giugno che “bruciò” le piante di patata da poco “spizolae” (dalla semina alla spunta ci vogliono mediamente 18 – 20 giorni). Considerato che il ciclo vegetativo della patata dura circa 100 giorni e che dunque anche seminando a fine maggio si riesce tranquillamente a raccogliere prima della cattiva stagione è sempre cosa buona non avere troppa fretta nelle arature, purché, beninteso, si sia in grado di ritardare il più possibile la germogliazione dei tuberi nell’olto.

Quali sono i problemi che più intralciano le operazioni agricole durante l’anno?
Se – come è ovvio si faccia in agricoltura biologica – la chimica va bandita, il diserbo è probabilmente la più grande “scocciatura”. È un’operazione da fare ripetutamente ogni 15 – 20 giorni. Più il campo è “affaticato” da anni di servizio ininterrotti più il problema delle erbacce si aggrava. Chi ha la fortuna di disporre di appezzamenti di terreno diversi può parzialmente ovviare a questo inconveniente lasciando “riposare” il campo ogni paio d’anni mettendo a coltura terreni da tempo “noseti”. Un campo rimesso a coltura dopo anni di riposo resta generalmente pulito per tutta la prima annata.

Quale proposta ti senti di suggerire all’ente pubblico affinché anche l’auspicabile ripresa dell’attività agricola in paese possa riprendere slancio e vigore?
Innanzitutto mantenere le strade di campagna al massimo della loro efficienza e cercare di non interferire negativamente in caso di migliorie private ai fini agricoli;
inoltre, anche se, stando a quanto vedo, la costruzione di nuove case continua inesorabilmente, sarebbe importante cercare di preservare integro e libero da qualsiasi speculazione il poco territorio coltivabile ancora esistente in modo da garantire la possibilità di utilizzare la terra a chi verrà dopo di noi e non siano obbligati a trangugiare ogni schifo di cibo per mancanza di alternative...

L’agricoltura biologica che tu persegui in modo assoluto comporta – ovviamente – maggiori difficoltà operative, maggior tempo, e minor resa. Come potrebbero venire compensati questi handicap?
Molto semplicemente con un raccolto soddisfacente.

Restando in tema: come si concilia la produzione biologica con le fitoparassitosi presenti anche qui da noi?
Per quanto riguarda le patate e i fagioli la principale parassitosi è la peronospora, che generalmente diventa problematica se le stagioni sono particolarmente umide in primavera. Per “contenerla” ci sarebbe la cosiddetta poltiglia bordolese (a base di rame) che però io non uso. Mi “arrangio” tenendo le colture sotto controllo visivo e non appena scorgo i segni della patologia estirpo immediatamente le piante colpite. Se malauguratamente capita invece una infestazione forte allora… pace. Riguardo invece la dorifora uso metodi drastici: distruzione delle uova ben visibili e attaccate alla pagina inferiore della foglia, cattura manuale dei coleotteri adulti e delle larve, processo sommario e immediata esecuzione della sentenza…

La mancanza di fonti d’acqua nelle località anzidette è anche un problema non da poco per chi intende produrre quantità e qualità. Secondo te il Comune potrebbe intervenire per supportare questa attività ancora marginalizzata ma in prospettiva molto interessante? E come?
Anche questo è una questione di grande interesse visto che l’acqua, ovviamente, serve nei vari periodi di carenza di precipitazioni naturali adeguate e dunque di “sofferenza” della campagna. Con riferimento all’acqua il Comune potrebbe fare, ma, dato che per esso, allo stato delle cose, l’attività agricola s’identifica sostanzialmente nella fienagione a uso zootecnico e non ancora nella coltivazione della terra per produzioni alimentari umane, non c’è alle viste alcun intervento. Qualora però la ripresa diversificata e meno sporadica dell’agricoltura diventasse una certezza, io credo che il Comune dovrebbe di certo attivarsi per garantire alcune semplici infrastrutture di supporto nelle zone ancora vocate a un uso agricolo…

Quali prospettive “vedi” nel futuro della nostra residua campagna?
Le prospettive potrebbero essere interessanti se l’aumento di appassionati al lavoro nei campi progredisse come la tendenza attuale lascia intendere. Forse ciò e dovuto a una maggior consapevolezza di quanto la produzione diretta, ancorché faticosa, ma gratificante, sia in fondo garanzia di qualità e di maggior sicurezza alimentare. Però non azzardo previsioni a lungo termine. Speriamo solo che continui.




21/12/07

FINE POLITICA DEL VERDE


L'ambientalismo in Italia è al tramonto a causa di una classe dirigente miope e distratta


Lungo tutto il Novecento le famiglie politiche si sono raccolte intorno alle tradizioni ideologiche del socialismo, con la sua variante comunista, del liberalismo e del cattolicesimo politico, anch'esso con le sue varianti popolari e cristiane. Solo negli anni Ottanta, che costituiscono, ben più del mitico '68, un tornante storico nella politica europea, la solidità di questa tradizionale articolazione ideologica si incrina. A far breccia nella cittadella social-liberal-cristiana provvede la cosiddetta 'rivoluzione silenziosa': un cambiamento di atteggiamenti nelle giovani generazioni del baby boom che rifiutano la politica burocratica, ossificata, spersonalizzata, vecchia, dei partiti tradizionali e promuovono una nuova agenda 'post-materialista', vale a dire una politica fatta in prima persona, irrispettosa delle gerarchie e delle idee ricevute, che pone al centro della propria azione la 'qualità della vita', coinvolgendo territori inediti, dalla liberazione femminile e sessuale alla difesa dell'ambiente. Da questo nuovo insieme di domande e priorità nascono i primi partiti verdi. Inizialmente una congerie folkloristica di animalisti, conservazionisti, antinucleari, profeti del ritorno alla terra, nostalgici del tempo andato e hippy di ritorno colora le prime riunioni del movimento ambientalista. Il folklore passa però in seconda fila quando in tutt'Europa si spande la nube di Chernobyl. La minaccia della catastrofe nucleare consente a questo movimento di capitalizzare le sue provocazioni e di insediarsi in tutt'Europa come un nuovo attore politico. Dalla culla tedesca e belga, partiti verdi si diffondono ovunque raggiungendo anche risultati elettorali a due cifre come in Francia nel 1993; in seguito entrano a far parte anche dei governi nazionali (in Finlandia nel 1995, in Italia e in Francia nel 1997, in Germania nel 1998, e in Belgio nel 1999 L'ecologismo politico raggiunge così la sua maturità negli anni Novanta e figure come quella del ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer contribuiscono a legittimare le sue aspirazioni a forza di 'governo'. Eppure, negli ultimi anni, nonostante alcuni successi simbolici come il Nobel ad Al Gore, questa nuova famiglia politica sembra segnare il passo. E in Italia ancora di più. L'ingresso al governo e la diversificazione delle sue iniziative al di là dei classici temi dell'ambientalismo, non hanno salvato i Verdi da una crescente marginalizzazione. Qualunque sia la causa, dalla debolezza della classe dirigente del Sole che ride a una persistente, diffusa ostilità/ diffidenza dell'opinione pubblica, il risultato è che oggi, in Italia, con la convergenza del partito di Alfonso Pecoraro Scanio nella neonata federazione della Sinistra, scompare il soggetto verde. Un esito forse inevitabile vista l'assenza dell'ambientalismo nell'agenda politica nazionale. Partito democratico e Forza Italia, tra gli altri, non mostrano alcun interesse per le politiche ambientali. In Gran Bretagna, invece, il tema del climate change coinvolge sia l'opinione pubblica a livello di base, militante (eroici i 10 mila che hanno sfilato per il vie di Londra sotto una pioggia battente il 9 dicembre, giornata mondiale di mobilitazione sul mutamento climatico, in connessione con la conferenza dell'Onu a Bali), sia la classe dirigente, con i due maggiori partiti che si sfidano a colpi di coscienza ambientalista. Tant'è che Tony Blair concluse il suo discorso d'addio al congresso laburista del 2006 parlando del climate change e il leader conservatore David Cameron si fa alfiere di politiche verdi. In Italia siamo ancora alle irrisioni verso coloro che chiedono città meno inquinate dal traffico, politiche dei trasporti alternative alla gomma, energie rinnovabili, raccolta differenziata e riciclaggio dei rifiuti. La politica del No alle richieste degli ecologisti non conosce scalfitture. Un solo dato per illustrare il nostro ritardo: l'Italia, paese dove fioriscono i limoni, produce 40 megawatt di energia solare contro i 1.400 (!) della 'solatìa' Germania. Tutto questo non è imputabile soltanto alla debolezza, anche culturale, del soggetto politico verde; buona parte di responsabilità va anche ad una classe dirigente miope e distratta. Difendere l'ambiente sembra ormai démodé. Molto più sciccoso il politicamente scorretto di chi vuole scorrazzare a tutto gas nei centri storici e impiantare un bel reattore nucleare sotto casa (quella del vicino, ovviamente). Ancora una volta, il marinettismo italico sfida ragionevolezza e lungimiranza. Non resta che affidarci al Carlo Petrini, gran sacerdote dell'incontro tra l'antica saggezza contadina del progetto Madre Terra e il postmoderno dello Slow Food.

Piero Ignazi – L’espresso 14/12/07

AI POETI



O arcadi e romantici fratelli
Ne la castroneria che insiem vi lega,
Deh finite, per dio, la trista bega,
E sturate il forame de’ cervelli.

Del vostro pianto crescono i ruscelli
E i fiumi e i laghi sì che l’alpe annega,
E stanco è il Gusto a batter chiavistelli
A questa vostra misera bottega.

Sentite in confidenza: i lepri e i ghiri
Son lepri e ghiri, e non son mai leoni:
Né Byron si rimpasta co’ delirî,

Né Shakespeare si rifà co’ farfalloni,
Né si fabbrica Schiller co’ sospiri,
Né Cristi e sagrestie fanno il Manzoni.

Dopo tanti sermoni,
O baironiani, o cristïani, o ebrei,
Ed o voi che credete ne gli dèi,

Lasciate i piagnistei;
E, se più al mondo non avete spene,
Fatevi un po’ il servizio d’Origene.
Giosue Carducci - 1856

19/12/07

GENESI DELLA BANDA SANTA CECILIA - 1^ Parte


Solitamente la storia viene scritta dai vincitori, a volte, raramente, può capitare che se ne dimentichino.


Sino al 1954 a Tesero vi era un solo corpo musicale: la Banda Sociale che non aveva alcun altro appellativo. In quell’anno ne era presidente il signor Giovanbattista Deflorian (Tita de le Giustine) e la dirigeva il Maestro Fiorenzo Deflorian. Erano anni difficili. La guerra, finita da meno di un decennio, aveva segnato e condizionato il naturale ritmo che un sodalizio particolare come quello bandistico deve sostenere per riuscire a produrre musica. Servono motivazioni, passione, bandisti, allievi, scuola, tempo, insegnanti; insomma, in due parole, cuore e organizzazione. Cosa, quest’ultima, che oggi si dà per scontata e la si pone giustamente come base di partenza, ma che all’epoca non era affatto facile garantire. I tempi magri non permettevano di spendere più di tanto. L’ente pubblico, che a quell’epoca non attingeva, come oggi accade, dalla cornucopia provinciale, non indirizzava con disinvoltura parte delle già scarse finanze verso aspetti ludici e ricreativi della socialità. C’era molta più improvvisazione, ma probabilmente molta più passione disinteressata rispetto ad oggi. Il diletto era di sicuro la componente più ovvia e naturale che accomunasse i bandisti. Dunque, pur in mancanza delle risorse economiche di cui si dispone oggi, le cose in qualche modo andavano ancora avanti. L’immediato dopoguerra era alle spalle, tuttavia l’onda lunga di ogni dopoguerra, col lento ritorno alla normalità, aveva portato a rimescolamenti nelle gerarchie al comando. Le lotte per la supremazia e la determinazione dei rapporti di forza tra i vari galli nel pollaio, (anche nella piccola comunità teserana), avevano bisogno del giusto tempo per stabilizzarsi. Qualcuno si stava guardando attorno ed evidentemente aveva pensato che quello fosse il tempo giusto e l’associazione bandistica il luogo ideale per cercare di guadagnare rispetto e prestigio sociale. Però bisognava pazientare, trovare l’occasione e agire con tempismo e con scaltrezza. Si sa che il segreto delle fortune di qualsiasi compagine sta nell’intelligenza di chi se ne assume l’onore e l’onere di guidarla, ma anche di chi, pur capace e disponibile, decide di lasciar spazio anche ad altre voci; insomma la miscela umana ideale dovrebbe essere costituita da caratteri forti e volitivi bilanciati da altri più remissivi. Troppi aspiranti comandanti, alla corta o alla lunga, producono quasi sempre rotture insanabili. In quel particolare momento storico non c’erano gli anzidetti presupposti umani che permettessero alla dirigenza del sodalizio di imporsi con la necessaria autorevolezza. Per meglio inquadrare il contesto sociale va detto, che nelle comunità di montagna dell’immediato dopoguerra e oltre, impermeabili ad ogni “contaminazione” esterna, vi erano quasi sempre fazioni che facevano riferimento all’indiscusso e indiscutibile potere temporale della chiesa e particolarmente a chi lo rappresentava, cioè il parroco. Tali parti della comunità erano per lo più maggioritarie, proprio perché il potere esercitato dal clero a quel tempo e in quel contesto era fortissimo. Tesero, paese universalmente noto per l’apporto copiosissimo di nuova linfa religiosa, che si sostanziava in un notevole numero di messe novelle ogni anno, a maggior ragione evidenziava questa caratteristica. Il campanile era (e lo è ancora) il perno attorno al quale girava la vita non solo spirituale della comunità. Dal pulpito i preti tuonavano con violenza verbale nel silenzio intimorito dei fedeli; solo pochi temerari avevano il coraggio dell’insubordinazione. Marcello Zanon era uno di questi: un giovane intelligente e ambizioso, dal motto di spirito prontissimo e dalle battute taglienti e velenose. Quando ancora non parteggiava per le nere tonache presbiteriane restò a lungo famosa una sua frase sprezzante nei confronti del viceparroco che raggelò l’uditorio presente: “Io del cappellano me ne impippo!”. Come anzidetto era il tempo in cui la comunità paesana stava cercando nuovi equilibri e nuovi profeti e, perfettamente in linea con gli istinti naturali, i più forti e predisposti cercavano a loro volta occasioni per mettersi in evidenza. Con quella popolazione inibita dal potere ecclesiastico del tempo a Marcello bastò poco per diventare un ascoltato e seguito capo popolo…
La rottura dello status quo all’interno del sodalizio bandistico avvenne per una apparente banalissima ragione, che però, come già detto, nascondeva vecchi rancori e nuove invidie originati dalla mancata egemonia della parte guelfa (fedelina) sulla componente ghibellina (laica) che all’interno del corpo musicale era maggioritaria. A Tesero ciò non era tollerabile perché quel paese era caratterizzato da un predominio assoluto dei “fedelini” in ogni ambito sociale, artistico e culturale. La Banda invece, per ragioni “genetiche” non rispecchiava quella caratteristica e dunque l’insofferenza nei confronti della parte politicamente avversa di alcuni esponenti minoritari del complesso musicale si fece via via più aspra. Il pretesto fu una gita sociale prevista sull’itinerario Pusteria – Cortina, che la “dissidenza”, guidata proprio dall’allora trentaduenne Marcello – che nel frattempo machiavellicamente aveva abbracciato la causa del campanile – decise di boicottare scavalcando così la delibera della direzione stessa. Fu questa in pratica la goccia che fece traboccare il vaso, ma vi erano stati dei precedenti in quegli anni che avevano logorato il clima del sodalizio musicale. Nel 1953, infatti, alcuni soci avevano stigmatizzato il comportamento scorretto e l’abbigliamento non idoneo di qualche giovane bandista ai concerti in piazza e si era mostrata anche intolleranza per le ingiustificate e sistematiche assenze alle prove di alcuni membri della banda (quasi sempre gli stessi). Ne conseguì un malcontento generale, specie tra gli elementi più anziani del sodalizio, che ancora, nonostante tutto, partecipavano assiduamente alle prove e ai concerti. La situazione della Banda si fece via via più incerta e traballante, sia nei rapporti sociali interni, che riguardo ai risultati delle prestazioni in pubblico. Il boicottaggio della gita sociale, promosso e capeggiato da Marcello, aggravò ulteriormente la situazione dei già tesi rapporti interni, sino al delinearsi di una spaccatura che vieppiù si rivelava inconciliabile tra quella parte dei soci indifferenti alle regole della collettività (la fazione capeggiata da Marcello) e l’altra parte non più disposta a tollerare un tale stato di indisciplina.
A questo punto un gruppo di bandisti lanciava la proposta di procedere a un riordinamento della compagine sociale predisponendo una lista dei partecipanti ritenuti affidabili ed escludendo gli elementi palesemente incompatibili e facinorosi. Contemporaneamente si dette incarico al socio e membro della direzione Vito Deflorian (Vedovel) di elaborare la bozza di un nuovo statuto con alcune norme comportamentali semplici e chiare da osservare per il conseguimento degli scopi sociali del sodalizio Banda Sociale Tesero. Alla successiva assemblea generale convocata per dirimere i problemi anzidetti, il maestro Fiorenzo, benché in un precedente incontro informale si fosse dichiarato d’accordo per la bozza del nuovo statuto, si schierava, su intimazione del Comune (da sempre in mano ai “guelfi”), dalla parte dei riottosi. Sulla stessa china si poneva (sempre su “ordine” del Comune) anche il presidente Tita Deflorian, che in un indimenticabile discorso detto del Ponte velenoso, con cui intendeva ridurre le tensioni interne e riappacificare i componenti della banda evidenziando il valore fondamentale dell’unità sociale, cercò inutilmente di evitare la crisi e la conseguente rottura. La proposta anzidetta non venne accettata dall’assemblea che si concluse con un nulla di fatto. L’amministrazione comunale, da sempre a maggioranza democristiana, (sindaco Gabriele Jellici) non vedeva di buon occhio l’iniziativa di riordino delle cose interne della banda da parte del più anziano dei bandisti, Vito Deflorian, all'epoca già sessantanovenne e consigliere di minoranza in comune nella lista non democristiana. Conseguentemente il sindaco intimò al maestro Fiorenzo di schierarsi, suo malgrado, dalla parte di osservanza “fedelina”, dando così inizio ad una feroce campagna di demonizzazione nei confronti del benemerito Vito, capace maestro di musica e istruttore di vari complessi bandistici in Trentino prima della Grande guerra (nonché istruttore della banda militare della legione italiana d’estremo oriente negli anni 1917-1920 a Vladivostok).
Visto l’esito negativo dell’assemblea a riguardo del riordinamento societario, i bandisti anziani decisero di ritirarsi. Fu la rottura. I restanti bandisti (circa metà dell’organico originario) con il maestro Fiorenzo Deflorian, su sollecitazione della Amministrazione comunale si riorganizzarono alla meno peggio con un nuovo direttivo che, a quel punto, venne sostenuto e spalleggiato con profusione di mezzi finanziari dall’ente pubblico. Ma il peso della defezione appena consumata si fece sentire, eccome. La Banda andò avanti con qualche produzione in piazza dall’esito mediocre – scadente per tutto il 1955, fino ad arrivare all'esito disastroso del concerto di Capodanno in piazza Cesare Battisti del1956.
Alla fine della deludente manifestazione alcuni degli ex bandisti dissidenti si ritrovarono per un mesto brindisi al vicino bar Pozzo all’angolo sud-ovest del locale. Fra gli amari commenti alla prestazione da dimenticare, che ovviamente scaturirono, uscì improvvisa da parte dell’astante ormai ex flicornista Iginio Varesco (Piva) la proposizione condizionale: - “Se avessimo gli strumenti sarebbe il caso di metterci noi a fare una banda nuova”; al che il signor Arcangelo Bozzetta (fabbrica pianoforti) che casualmente, quasi estraneo, faceva parte degli uditori in piedi attorno al tavolo, intervenne: - “Gli strumenti ve li compro io!”. Era nata la Banda Santa Cecilia.

Liberamente tratto da appunti di Carmelo Delladio

17/12/07

E A BETLEMME E' NATO PIERCRISTO



Il futuro politico di Silvio Berlusconi è un'incognita solo apparente. Ecco la sequenza degli avvenimenti di qui al 2190


Esaminando le sue precedenti mosse, è sufficiente una banale elaborazione logico-matematica per avere la sequenza precisa degli avvenimenti di qui ai prossimi anni.


Gennaio 2008 Mentre i suoi alleati siedono al tavolo delle trattative per una nuova legge elettorale, Berlusconi si proclama unico interprete della volontà popolare e indice le elezioni per il 15 febbraio, con il sistema uninominale secco: ogni elettore dovrà segnare con un fagiolo il volto di Berlusconi sulle speciali cartelle della tombola distribuite nei gazebo. Se il fagiolo cade per terra la volontà dell'elettore sarà comunque chiara, certificata dalla mamma di Berlusconi che viene nominata Garante della Democrazia.


Febbraio 2008 Napolitano diffida Berlusconi: le elezioni con il fagiolo non possono essere ritenute valide, anche perché nessun altro leader ha fatto in tempo a presentare entro le cinque del pomeriggio, come richiesto da Berlusconi, i 20 milioni di firme necessarie per candidarsi, ognuna guarnita da una ciocca di capelli dell'elettore. Berlusconi risponde che la volontà popolare non può più essere disattesa, sorvola in biplano il Quirinale e viene eletto Maresciallo d'Italia con due milioni e 700 mila fagioli. Nomina i suoi infermieri Vicerè della Repubblica.


Marzo 2008 Asserragliati in un bar dell'Aventino, i leader di tutti gli altri partiti studiano le contromosse, elaborando una bozza di programma che andrà sottoposta a una commissione interpartitica che elabori una strategia per presentare a Napolitano, entro i prossimi sei mesi, una proposta di modifica della nuova Costituzione nel frattempo scritta e approvata da Berlusconi. Prevede solo tre articoli: uno per la prima serata, uno per la seconda e uno che abolisce il Parlamento. Napolitano, dall'esilio francese, fa sapere di essere preoccupato.


Giugno 2008 Berlusconi, nel frattempo divenuto Triumviro dell'Impero, si rifiuta di nominare gli altri due. Aggiunge ai suoi titoli quelli di Legionario di Roma, Piccola Vedetta Lombarda e Bellissima Fica. Si affaccia dal Quirinale e, sostenendo di essere in sintonia con il popolo, suona la cetra con una corona di lauro in testa.


Novembre 2008 Il Commodoro d'Europa, Generalissimo Atlantico e Stallone Onorario delle Nazioni Unite Silvio Berlusconi sostiene di avere sognato il popolo che gli chiedeva di dichiarare guerra alla Galassia di Gnork. Decolla da Ciampino con un'astronave e, per distendere il clima politico, lascia il potere a sua madre. La signora Berlusconi sostiene di essere la sola interprete della volontà popolare e fa inserire nella Costituzione un quarto articolo con la ricetta del minestrone alla milanese.


Febbraio 2009 Berlusconi, nel frattempo divenuto Caudillo di Gnork ed Eroe della Quarta Dimensione, invade la Terra alla guida di un esercito di creature gelatinose e propone di abolire l'Ici. In sintonia con il popolo, mangia naftalina e sostiene di essere la reincarnazione di Eta Beta. Canta tutte le canzoni del Festival di Sanremo tranne una, eseguita da Giorgia, che vince grazie alla Giuria della Critica, sovvertendo la volontà popolare. Fa deportare Giorgia su Urano e dispone la fucilazione dei critici comunisti.


Dicembre 2023 Esce il nuovo cd di Berlusconi, con Apicella alla chitarra e Muti e Abbado, in catene, che dirigono l'orchestra. Il suo nuovo partito (Partito della Popolazione Popolare del Popolo Libero) raggiunge il 120 per cento dei voti grazie al buon rendimento in Borsa. La quinta moglie Michela Brambilla partorisce a Betlemme Piercristo Berlusconi. Le statue di Berlusconi in tutto il Paese vengono continuamente ritoccate da migliaia di chirurghi estetici per rappresentare in tempo reale il costante ringiovanimento del leader.


Ottobre 2190 Ormai da qualche mese a riposo a Villa Sardegna (una splendida residenza, con superficie pari all'intera isola), Berlusconi si spegne serenamente con il titolo di Gran Triangolo Ispiratore, Stella Polare dell'Umanità, Occhio di Luce, Guida Eterna, Accademico di Gnork, Somma Statura e Primo Classificato al Festival di Sanremo del 2009.

Michele Serra – L’Espresso 23/11/2007

15/12/07

SI PUO'!


A Cesare quel che è di Cesare. L’Amministrazione comunale di Tesero, con la riorganizzazione della viabilità interna al paese, ha compiuto un passo importante verso un miglioramento qualitativo del centro paese. Un passo difficile da fare considerato quanto il dover modificare comportamenti scontati e automatici possa provocare risentimenti nell’utenza. Ciò nonostante, la Giunta comunale ha deciso di procedere ugualmente, sfidando l’impopolarità: onore al merito dunque ai nostri amministratori, con particolare menzione al sindaco Gianni e agli assessori Alan e Walter che più di tutti si sono adoperati per la “messa in strada” (è proprio il caso di dirlo) del provvedimento. La maggioranza della popolazione purtroppo quasi mai si sofferma a ragionare di cose appena appena più lontane dal contingente e dall’immediato. Mal nasconde un’ingiustificata preoccupazione per un disagio inesistente, ma percepito come tale in conseguenza di cattive e reiterate abitudini. La Giunta comunale, bontà sua – dopo un’analisi della situazione viabilistica durata più di un anno – ha invece ben capito quanto questa iniziativa, che mi permetto di definire lungimirante, non appena “metabolizzata” dalla cittadinanza, diverrà la chiave di volta per sostenere tutto l’impianto di riqualificazione ambientale e commerciale della parte vecchia di Tesero. Un tassello fondamentale e imprescindibile che favorirà anche l’attrattiva dei piccoli negozi di vicinato del centro. Certo, da lunedì scorso, origliando, qualcuno in paese mugugna. Era scontato che così fosse: disintossicarsi da una dipendenza non è facile. È però possibile; e la revisione viaria sarà un’ottima occasione per accelerare il processo di “gaudiosa redenzione” dalla schiavitù della “macchina”. Per la verità alcuni teserani non ne hanno affatto bisogno: “redenti” già lo sono. Potrei già farne una discreta lista: non lunghissima, ma comunque significativa. Meritano l’elogio per il civismo che dimostrano da sempre nei confronti del paese e del resto della cittadinanza. Preciso che questi signori (uomini e donne), camminano per il piacere di camminare, senza alcun’altra motivazione, perché camminare è effettivamente una delle più piacevoli attività fisiche, di certo la più naturale. Uomini e donne che usano ovviamente anche l’automobile, ma in modo consapevole e controllato, consci che la maggior parte dei percorsi interni all’abitato (date le ridottissime distanze cui si sostanziano) sono percorribili tranquillamente, senza problemi, velocemente e con beneficio immediato di tutti, da tutti. A PIEDI! Se poco alla volta tutti cominceremo a capire quanto siano assurdi gli spostamenti in auto per brevi o brevissime distanze (da 1 sino ai 1000 metri) d’incanto i supplizi, che quotidianamente e masochisticamente ci infliggiamo più o meno consapevolmente per colpa dell’auto, sparirebbero. Per di più gli amministratori verrebbero sgravati dall’obbligo di cercare soluzioni a problemi che soluzione non possono trovare, svanirebbero le difficoltà nel trovare parcheggio, finirebbe il caos e ci ritroveremmo in un ambiente capace di favorire il confronto e la socialità. Con l’impegno di tutti Tesero tra non molto potrebbe disporre di un Centro paese libero, gioioso, arioso, silenzioso, tranquillo, un’oasi capace di ospitare all’aperto in estate e non solo, manifestazioni di interesse turistico e culturale, un luogo di incontro serale con bande, cori, spettacoli teatrali, senza il continuo frastuono e disturbo delle auto. In definitiva un toccasana per residenti e ospiti, per adulti e per bambini, al quale un paese a vocazione turistica come il nostro non può davvero rinunciare.

euro


Sembra che milioni di persone siano convinte che se non riescono a dedicare molte ore alla palestra o alla piscina non godranno mai dei benefici che derivano dall’esercizio fisico. Ma le cose non stanno così. Il dottor Russell Pate dell’Università della Carolina del Sud afferma: “Penso che dobbiamo riconoscere ufficialmente che fare senza fretta il giro dell’isolato dopo mangiato sia una buona cosa”.

Camminare fa davvero così bene? I benefici che dà sono veramente così rilevanti? Camminare è una buona medicina. Il medico greco Ippocrate riteneva che camminare fosse “la migliore medicina”. Infatti c’è chi dice: “Ho due dottori, la mia gamba sinistra e quella destra”.
Camminare è davvero così salutare?
Alcuni studi indicano che chi cammina regolarmente può essere meno soggetto ad ammalarsi di chi è sedentario. Dagli studi risulta che camminare riduce il rischio di cardiopatie e ictus. Può proteggere dal diabete migliorando la capacità dell’organismo di usare l’insulina. Mantiene le ossa forti, prevenendo l’osteoporosi. Accresce la forza, l’agilità e la resistenza. Aiuta a dimagrire e a mantenere il proprio peso. Inoltre migliora il sonno e l’attività mentale, e può persino aiutare a combattere la depressione.. Come altre attività fisiche, camminare stimola il rilascio di endorfine, sostanze chimiche presenti nel cervello che riducono il dolore e fanno rilassare generando un senso di calma e benessere. Secondo il Medical Post del Canada anche passeggiare senza fretta può far bene alla salute. Uno studio pubblicato nel New England Journal of Medicine rivela che fare ogni giorno anche solo 800 metri a piedi aiuta a vivere più a lungo. Studi recenti indicano che fare esercizio fisico tre volte al giorno per 10 minuti alla volta fa bene quasi come fare esercizio fisico per 30 minuti di seguito. Quindi prendete in considerazione la possibilità di parcheggiare l’auto un po’ più distante dalla vostra destinazione e di farvi a piedi il resto della strada. Oppure durante la giornata potreste andare a farvi una breve passeggiata. Si possono avere benefici ancora più grandi camminando di buon passo. Carl Caspersen dei Centri americani per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie di Atlanta, in Georgia, ha detto: “Un sedentario che prenda l’abitudine di camminare a passo spedito per mezz’ora diversi giorni la settimana... può ridurre notevolmente i rischi di malattia”. E il bello del camminare è che possono farlo persone di tutte le età, in buona salute e no. Inoltre non occorrono capacità atletiche o una preparazione speciale, ma solo un buon paio di scarpe.

12/12/07

LA SCHIAVITU' DEL "BENESSERE"


Numerosi media, spinti dalle difficoltà economiche - in parte dovute alla diminuzione degli introiti pubblicitari -, fanno di tutto per sedurre gli inserzionisti. I responsabili della «nuova formula» di Libération, per esempio, hanno ammesso che questo obiettivo fa parte del loro progetto. Ma i pubblicitari non si accontentano di più pagine sui giornali e di più tempo in onda: vogliono entrare nei cervelli dei loro bersagli. E pensano che la scienza glielo permetta.

Si racconta che, nell'ottobre 1919, Vladimir Ilich Uljanov, detto Lenin, abbia fatto visita al fisiologo Ivan Pavlov per sapere in che modo i suoi lavori sui riflessi condizionati potessero contribuire alla concezione dell'«uomo nuovo» che allora i bolscevichi erano impegnati a costruire. Lo scienziato avrebbe potuto essere utile alla propaganda del regime associando, mediante stimoli esterni, le pulsioni istintive ai meccanismi di trasformazione collettiva. In realtà Pavlov non fu di alcun aiuto ai bolscevichi, ma questo aneddoto, vero o falso che sia, mostra l'esistenza di un fantasma che ha abitato il XX secolo: quello di impossessarsi delle menti manipolando l'inconscio, per vincere ogni resistenza critica dovuta al semplice uso della ragione. Da allora, una propaganda viene giudicata efficace se capisce che un messaggio viene assimilato meglio quanto più il destinatario è psicologicamente condizionato a introiettarlo e a farlo proprio. Le società democratiche hanno bandito dal proprio linguaggio la parola «propaganda», attribuita oggi solo ai regimi totalitari. Tuttavia, l'analisi del cervello a scopi di mercato e la conseguente manipolazione delle masse mostrano che la società del consumo non ne è poi così distante. Torna in mente la famosa frase di Patrick Le Lay, presidente di Tf1, il quale, nel 2004, ammetteva che la sua rete televisiva cercava di vendere a Coca Cola «tempo del cervello umano disponibile». La scelta di questa marca - partner privilegiato di Tf1, come dimostra la diffusione un anno prima di uno spot pubblicitario, trasmesso per più di duecento volte sul suo canali - non è affatto casuale. Nell'estate del 2003, Read Montague, un neurologo alla Baylor università di medicina, a Houston, ha mostrato che, i risultati di un test in cui i soggetti bevevano senza vedere il marchio, erano più favorevoli al concorrente Pepsi, ma cambiavano appena la bevanda veniva identificata chiaramente come Coca Cola. I partecipanti all'esperimento dichiaravano allora di preferire la bibita a colori rosso e bianco. E così venne dimostrata la superiorità della marca considerata un campione del branding, la tecnica che mira a declinare un logo sul maggior numero possibile di supporti, cioè a inserirsi nei contenuti (film, serie televisive). Per stabilire il nesso tra l'immagine della marca e lo stimolo del cervello, lo scienziato si è servito di una macchina fino ad allora usata per fini medici, per individuare per esempio i tumori o i traumi cerebrali: la risonanza magnetica (Irm). Seguendo l'attività cerebrale dei suoi pazienti, Montague ha notato che la regione specifica del cervello che veniva sollecitata alla vista di una marca, la corteccia prefrontale mediana, faceva appello alla memoria e svolgeva un ruolo importante nel processo cognitivo. Al contrario, il test gustativo al buio riguardava l'area cerebrale detta del «putamen ventrale», legata alla nozione di piacere. Fin dall'aprile 2004, l'università di medicina Baylor organizzava a Houston il primo simposio mondiale dedicato alle applicazioni della grafica neuronale nel marketing. Tre anni prima, ad Atlanta, sede della Coca-Cola, l'istituto Brighthouse, fondato dal pubblicitario Joe Reyman, costituiva un gruppo di valutazione incaricato di commercializzare per il marketing gli insegnamenti tratti dalle neuroscienze. Il suo direttore scientifico, Clint Kilts, arrivava alle stesse conclusioni del collega di Houston, localizzando nella corteccia prefrontale mediana la zona cerebrale reattiva alle immagini pubblicitarie. Ma osservava che questa reazione è tanto più significativa quanto più il soggetto s'identifica con l'immagine del prodotto, ed è portato a pensare «sono proprio io» (1). La famosa regione-chiave del neuromarketing è infatti associata all'immagine di sé e alla conoscenza intima che si ha di se stessi (così, i pazienti la cui corteccia prefrontale mediana è danneggiata a seguito di un incidente soffronto spesso di disturbi della personalità). Come spiega Annette Schäfer, nella rivista Cerveau & Psycho, «ecco dunque il motore del commercio. La corteccia prefrontale mediana ci fa amare ciò che amano gli altri. Riuscire a stimolarla potrebbe quindi essere un obiettivo precipuo di una perfetta campagna pubblicitaria ». È anche, per gli agenti del «neuromarket», l'oro bianco di un'alchimia perfetta: l'opera-zione che consiste nel trasformare l'amore di sé in quanto tale - il narcisismo - nell'amore di sé in quanto altro: un bersaglio pubblicitario. Secondo Olivier Oullier, ricercatore in neuroscienze all'università Florida Atlantic, esiste attualmente una sessantina di aziende nel mondo che utilizza le tecniche del neuromarketing (3). Tuttavia, queste aziende sono molto discrete in merito agli esperimenti realizzati, per timore di sollevare una marea di rimproveri nell'opinione pubblica. Nel 2003, una di queste, Daimler-Chrysler, ha affidato al centro ospedaliero di Ulm, in Germania, il compito di analizzare i cervelli di una dozzina di uomini che guardavano le immagini di automobili di lusso. Desiderio sessuale e voglia di merce. Allora, è apparsa l'importanza del «nucleo accumbens», zona legata al sentimento di ricompensa. È venuto fuori che l'oggetto di consumo può essere assimilato a un oggetto di desiderio attraverso un vero e proprio processo di personificazione. «Quando guardavano le automobili, questo gli ricordava i volti,i fari assomigliavano un po' a degli occhi», descrive Henrik Walter, psichiatra del centro ospedaliero di Ulm, a proposito di quei «pazienti» di tipo un po' particolare. I pubblicitari vi hanno visto la conferma di un'intuizione: negli spot bisogna rinforzare la correlazione istintiva tra desiderio sessuale e pulsione di acquisto «Il consumatore deve poter sentire la marca, aggrapparvisi come un amante», afferma, senza ironia, il presidente direttore generale di Saatchi & Saatchi, Kevin Roberts. Bisogna prendere sul serio tali imprese di convalida scientifica della pubblicità? Sta di fatto che esse hanno il merito, agli occhi dei professionisti, di garantire maggiormente la diffusione di messaggi pubblicitari sui media, nell'epoca in cui internet permette, un clic dopo l'altro, di seguire passo passo il comportamento del consumatore. Il neuromarketing nasce così dall'incontro tra gli industriali desiderosi di legittimare all'interno le proprie spese per la comunicazione, delle agenzie di pubblicità desiderose di valorizzare il loro apporto (l'agenzia Bbdo di Düsseldorf lavora così sul concetto di brainbranding, che mira a determinare come certe marche entrino nella memoria episodica del cervello) e dei grandi media preoccupati per il peso crescente dei nuovi vettori di comunicazione. Tf1 non conduce ancora esperimenti di laboratorio basati sullo scanner. Ma il Sindacato nazionale della pubblicità televisiva, presieduto da Claude Cohen, peraltro presidentessa di Tf1 Pubblicità, s'interessa da poco a ciò che chiama i «meccanismi memoriali non coscienti». Attraverso l'istituto privato Impact Mémoire, che s'ingegna per trarre profitto dalle «tecniche di grafica funzionale cerebrale», ha condotto un esperimento su centoventi persone con il pretesto di testare la loro prontezza visiva. Mentre le cavie s'impegnavano a individuare dei quadratini verdi sullo schermo del loro computer, venivano diffuse ininterrottamente delle pubblicità su un televisore in bell'evidenza. In parallelo, lo stesso esperimento veniva realizzato con degli spot radiofonici e dei manifesti. Logicamente, ad aver ottenuto il miglior risultato di memorizzazione inconscia dei messaggi pubblicitari è stato il media che aveva associato suono e immagine. Un test che avrebbe potuto realizzare il signor di La Palice e che farebbe sorridere se non fosse stato accompagnato da un discorso pseudoscientifico gravido di conseguenze. Nel novembre 2003, durante una «Settimana della pubblicità», il cofondatore d'Impact Mémoire, Bruno Poyet, ne ha riassunto gli argomenti. Secondo lui, «l'attenzione è necessaria a una buona ritenzione mnesica. Una buona connotazione emotiva accentua l'attenzione. Un'importante carica emotiva genera la secrezione di certe sostanze dall'amigdala, che favoriscono la memorizzazione ». È questo contesto «emotivo», favorevole alla pubblicità destinata alla casalinga sotto i 50 anni, che Tf1 cerca di elaborare attraverso i suoi programmi. Ancora nel novembre 2003, il canale televisivo faceva apparire sulla stampa specializzata un annuncio in cui vantava le sue gallerie pubblicitarie dove figurava un cervello circondato da una banda video accompagnata da un commento eloquente: «Uno schermo piazzato nel mezzo di un programma di Tf1 ottiene 23% di memorizzazione supplementare». Il neurologo Bernard Croisile, e cofondatore d'Impact Mémoire, ricorda che, se «non esiste alcuno studio che consenta di provare che il contenuto di una trasmissione condizioni la risposta alle pubblicità che seguiranno (...), quel che si può dire è che quando ci si trova in una situazione emotiva positiva, si ricordano meglio gli elementi positivi,così come i depressi assimileranno meglio le informazioni negative». Si tratta quindi di offrire al telespettatore la sua dose di emozione piacevole, prima di uno spettacolo di puro divertimento o dopo un telegiornale in cui domini la carica emotiva dell'esperienza vissuta, piuttosto che la trama «deprimente» di un discorso critico. L'implicazione delle neuroscienze - o delle sue mutazioni - nelle industrie della pubblicità ha così dei bei giorni davanti a sé. Nel marzo 2007, il leader mondiale della pubblicità, Omnicom, ha lanciato in Francia l'agenzia del consiglio nel campo dei media, Phd. Questa rete, nata nel Regno unito, s'appoggia su un ordinatore di neuroplanning messo a punto a partire da studi realizzati grazie alla risonanza magnetica (Irm) dalla società Neurosense. Intende indicare alle marche le zone del cervello da stimolare in funzione degli obiettivi delle loro campagne e dei media utilizzati. Dal canto suo, Impact Mémoire è intervenuto questo stesso anno per conto della regia pubblicitaria del gruppo Lagardère per permettere agli inserzionisti di ottimizzare la memorizzazione delle loro campagne in funzione della combinazione di diversi media e della ripetizione dei messaggi. La conoscenza intima del cervello del consumatore non può che incitare le imprese, e i loro committenti pubblicitari, a superare gli spazi che gli sono abitualmente devoluti per comunicare. Le condizioni di ricettività di una marca sono in effetti giudicati tanto più ottimali quanto meno il «bersaglio» è consapevole di essere preso di mira. È ciò che spiega lo sviluppo dell'advertainment, quell'incrocio ibrido di pubblicità e di divertimento di cui la partita Francia-Argentina, allo Stadio di Francia, durante la coppa del mondo di rugby, ha dato un esempio recente. Delle giovani indossatrici in sottoveste si sono messe a danzare sui gradini sotto gli occhi attenti delle telecamere di Tf1: si trattava di una «creazione» dell'agenzia pubblicitaria Fred-Farid-Lambert, affiliata al gruppo Bolloré, per la marca Dim. Nella creazione audiovisiva, piazzare prodotti al cuore dei contenuti fa furore allo stesso modo, come testimonia l'apparizione di contratti globali che legano produttori, diffusori e inserzionisti. Nel 2001, il produttore di detersivi Procter & Gamble ha concluso un accordo da 500 milioni di dollari con il gruppo Viacom e il suo canale Cbs, per introdurre i suoi prodotti nelle sceneggiature. Quattro anni dopo, è stato il turno di Volkswagen di investire 200 milioni di dollari per piazzare le sue automobili nei film degli studi Universal e del canale dello stesso gruppo Nbc. Nel 2005, anche la filiale francese della centrale di acquisto di spazi Aegis ha creato Carat Sponsorship Entertainment per integrare la pubblicità nei programmi e farla accettare meglio dal consumatore. Nel 2007 è stata imitata dalla filiale Havas Entertainment. Se il Consiglio superiore dell'audiovisivo è ancora tenuto a vigilare affinché venga impedita ogni pubblicità occulta, la trasposizione nella legge francese della direttiva auropea «Televisione senza frontiere», annunciata per il 2008, promette però di autorizzare definitivamente la collocazione dei prodotti sul piccolo schermo, come negli Stati uniti. Il limite quotidiano di dodici minuti di pubblicità su una durata di un'ora dovrebbe essere per la stessa occasione reso più elastico, in modo da permettere una maggiore diffusione di intervalli pubblicitari durante le fasce di forte ascolto. Parallelamente, fioriscono delle trasmissioni - come «Question maison» (France 5) o «Du côté de chez vous» (Tf1) - che devono la loro esistenza solo all'arrivo della marca Leroy Merlin nella produzione di contenuti. Certo, l'inconscio del telespettatore non è apertamente rivendicato. Ma dietro il telespettatore, è ancora e sempre il consumatore a essere preso di mira. Per stimolare degli automatismi pavloviani di trasformazione collettiva? No, si tratterà soltanto di una banale stimolazione di vendita...

Di Marie Bénilde – L.M.D. 11/2007

10/12/07

AL ROGO, AL ROGO!


Venerdì 7 dicembre ’07 ore 22,43. Davanti all’ “Osteria della Luna piena” due uomini, circondati da alcuni uditori, discutono animatamente. Di tanto in tanto un passante attraversa la scena.

Girolamo: –“…ma che cazzo scrivi? vergognati! Come osi parlare di cose e di persone in quel modo così esplicito e irriverente! Trovati un altro passatempo. Lascia perdere…”

Qualche giorno dopo in una stanza scarsamente illuminata qualcuno sta vergando una lettera.

Caro Girolamo (preferisco non chiamarti col tuo vero nome, potrebbero capire chi sei) ti confesso che l’altra notte non ho dormito. Quelle tue parole mi sono rimbombate per lunghe ore nella testa. Non capivo come proprio tu ti fossi scandalizzato così, per così poco. La discussione che abbiamo fatto davanti all’ “Osteria della Luna Piena” (è meglio non nominare nemmeno il nome di quel bar) dopo la presentazione del nuovo piano della viabilità di San Giuseppe Vesuviano (anche citare il nome del paese è rischioso, uso pertanto un nome di copertura) mi ha davvero scosso. Sinceramente non mi aspettavo di trovarti così cambiato. E ancor di più non mi aspettavo di trovarti così violentemente contrario a quanto scrivo. Eri diverso vent’anni fa. Anch’io, per la verità. Chissà cos’è che fa cambiare così radicalmente le persone (tanto da non riconoscerle affatto) in così poco tempo: forse il matrimonio, o forse il lavoro, la società, oppure le frequentazioni… boh? Sta di fatto che ho passato una notte agitata e insonne, pressappoco come quella trascorsa da Don Rodrigo dopo l’elogio funebre in memoria del conte Attilio, conclusosi a bagordi, ubriaco di vernaccia, all’osteria (Alessandro Manzoni – I Promessi Sposi – capitolo XXXIII). Nel mio sonno turbato non riuscivo a capire (anche perché non eri stato affatto esplicito nella reprimenda) quali fossero le cose scritte così tanto esecrabili che ti hanno così profondamente indignato. Ah, scusami, esecrabile puoi sostituirlo con condannabile: dimenticavo che mi rimproveravi anche l’ostentazione di termini troppo difficili!... Mi hai paragonato (senza citarlo, ovviamente) addirittura al protagonista del celebre romanzo di Stevenson “Lo strano caso del dottor Jakyll e mister Hide”, nientedimeno che un uomo dalla doppia personalità!! Un mostro! Un orco appunto. Un nome, un programma… Insomma il tuo giudizio finale non ammetteva appelli. In altri tempi per molto meno sarei finito al rogo!
Fortunatamente, dopo qualche giorno di nausee, vomiti, stordimento e prostrazione, sto cominciando a riprendermi e mi è tornata voglia di scrivere e di ragionare un po’ nel merito delle tue contestazioni. Dici appunto che ho due personalità delle quali intuisco che per te quella oscura e misteriosa prepondera: scrivo sì cose condivisibili (in piccolissima parte) ma soprattutto scrivo cose davvero vergognose. Mi rimproveri anche di essere un osservatore dei costumi di questo paese, non sia mai! cosa per te intollerabile e inammissibile. “… ma fregatene!” mi dicevi. E tanto altro ancora. Eh no, caro Girolamo, si dà il caso che i comportamenti dei singoli non siano neutri: sommati uno ad uno determinano la qualità del tutto. E un singolo cattivo comportamento sommato a mille cattivi comportamenti pregiudica il vivere non solo mio (e a me tanto comunque basterebbe) ma anche tuo. Naturalmente questa è la mia opinione e come tale può non essere da te e da altri condivisa. Ma non puoi impedirmi di esprimerla. Potresti contestarmela argomentando. Io, diversamente da te, ho scelto di dire ciò che penso apertamente rischiando l’impopolarità e, come mi profetizzavi, l’ “isolamento sociale”. Forse perché non abito in un castello isolato (ma non vedo perché per vivere tranquillo dovrei ritirarmi in un castello o cambiare paese) o forse, più probabilmente, perché non sopporto il qualunquismo, l’ipocrisia e non mi piace il verbo “fregarsene”. Pur riconoscendo (come diceva qualcuno) che a giudicare si fa peccato, se guardo e se penso, il comparare e il valutare spesso mi vengono automatici e involontari e non mi richiedono alcuno sforzo supplementare. Altro non so che dirti. Mi dispiace aver dovuto capire in questi mesi (anche grazie a te) quanto sia grande la distanza tra quel che penso (che ho sempre pensato) e quel che pensa probabilmente la maggioranza delle persone di questo paese, nonché quanto forte sia mediamente il peso del suo pregiudizio.
Concludendo, caro Girolamo, sappi che come per l’omeopatia l’antidoto è la stessa sostanza che scatena la malattia, così ora userò la parola per tranquillizzare quei lettori, te per primo, che hanno manifestato per questioni diverse e con modalità diverse sdegno, orrore, irritazione o più genericamente fastidio verso alcuni miei scritti. A scanso quindi di nuovi traumi ti informo che ci sono vari modi per evitare queste sgradevoli sensazioni, per esempio quello più semplice è non leggere: banale ed arrendevole opzione che non consente di comparare e forse arricchire il proprio modo di vedere.
Tralasciando qui di suggerirti altre e più fantasiose “istruzioni per l’uso” oso arditamente scomodare (poco, poco, poco) il padre della psicoanalisi, Freud, utilizzare alcune sue intuizioni per fare una sommaria analisi e vedere che cosa accade in realtà quando io lettore leggo un “pensiero” dell’Orco (o di chiunque altro) che mi irrita a tal punto da indurmi a infierire anche a sproposito contro di lui. E’ interessante scoprire che quei “fastidi” che io lettore provo altro non sono che stilettate ai miei punti deboli, negligenze o sconvenienti e involutivi comportamenti che tento (invano) di nascondere e così, per non riuscire a mediare tra me e me la cruda realtà, “uso” un testimone esterno come capro espiatorio delle mie “debolezze”.
A questo proposito aggiungo un particolare interessante: questo genere di lettore non ha mediamente una curiosità ad ampio raggio anzi, snobba la lettura per il piacere di conoscere fine e se stesso, seleziona invece con fare voyeuristico e forse pruriginoso solo ciò che lo porta a procurarsi una sfogo personale. Ecco perché ai lettori de La Casa dell’Orco (me lo hai confermato tu stesso) non interessano affatto gli articoli che trattano argomenti vari e interessanti di autori diversi da me proposti alla lettura, bensì, quasi esclusivamente, quelli scritti direttamente dal sottoscritto!

Un cordiale saluto.

L’Orco

09/12/07

VIDEO DUNQUE EVADO


Con un’iniziativa che non ha precedenti ma avrà, c’è da scommetterlo, parecchi imitatori, un detenuto è evaso per rilasciare un’intervista alla tv. L’autore dell’impresa è il finanziere Danilo Coppola, noto alle masse per la pettinatura parabolica da paggio rinascimentale con riporto «cabriolet» dietro le orecchie. Ricoverato agli arresti domiciliari nell’ospedale di Frascati, ha staccato i tubi delle flebo ed è fuggito in tuta verso un albergo di Roma poco distante dal Palazzo di Giustizia. Giunto in quella «location» emblematica, ha convocato le telecamere di Sky per riproporre un vecchio classico della tragicommedia all'italiana, la vittima del Complotto Universale, e solo alla fine dell'intervista ha deciso di consegnarsi alla polizia. Non cercava la libertà. E neanche l'ora d'aria in un prato, magari con qualche bella ragazza. A spingere Coppola verso il gesto che gli costerà un supplemento di galera è stato il desiderio di tornare a esistere. Perché il rito del lamento gli sembrava patetico, fin quando si consumava fra le quattro pareti di una cella o nei colloqui saltuari con l'avvocato. Soltanto la tv, regno dell'inconsistenza, era in grado di dare al suo tramestio interiore un'illusione di autenticità. Non sostengono i sociologi che la gente sogna di andare in video per evadere dalle gabbie incolori della vita vera? Coppola li ha presi talmente in parola che ha trasformato la metafora in realtà.


M.G. - La Stampa 07/12/2007

06/12/07

TOSSICODIPENDENTI


C’è una tossicodipendenza diffusa e generale che nessuna autorità civile, sanitaria o religiosa esecra. Essa è tollerata dalla società e condivisa da ogni ceto sociale. Un’insanabile piaga della contemporaneità che l’Uomo consumatore è riuscito a “far passare” come una piacevolezza. Essa è la responsabile più diretta e clamorosa dei danni alla salute dei cittadini, la prima causa di morte dei giovani dai 18 ai 25 anni ed è altresì la principale responsabile del degrado paesaggistico e ambientale del nostro pianeta. Una tossicodipendenza planetaria che l’Occidente, nonostante l’evidenza dell’enormità dei problemi che essa genera, considera inevitabile e non necessitante di una poderosa cura disintossicante. Ma non si equivochi: non è cocaina, non è eroina e neppure una droga sintetica, è la mobilità auto-veicolare in tutte le sue variegate forme considerata. La maggior parte dei guasti ad essa ascrivibili vanno imputati alla auto-mobilità ad uso privato. Tutto gira (è il caso proprio di dirlo) intorno a questo mito, da noi impropriamente detto “macchina”; l’Italia ne è la culla ed esso è il più agognato trastullo ruba-pensieri, ruba-tempo e ruba-soldi dell’uomo occidentale, dalla maggiore età sino alla morte. Di tutte le “latitanze” nella denuncia di questo fattore pregiudicante la qualità complessiva della nostra vita, la più intollerabile e significativa è quella dell’Autorità sanitaria che non solo ne minimizza il peso e la valenza ma addirittura lo relega a questione marginale, meno importante persino di quella inerente al fumo di sigaretta. Ma tutto si spiega: è noto infatti quanto i dottori amino particolarmente il binomio Donne – Ferrari, il che la dice lunga sulla deontologia professionale della categoria e dimostra quanto a questa stia realmente a cuore la salute della cittadinanza.
Lunedì prossimo – salvo ulteriori e imprevisti rinvii – l’Amministrazione comunale di Tesero, a lungo sollecitata in tal senso dal sottoscritto, varerà un nuovo piano della viabilità. Dopo una gestazione durata oltre un anno, finalmente vedrà la luce un provvedimento atteso da chi scrive e oggettivamente di buonsenso. Naturalmente l’efficacia del medesimo dipenderà dall’approccio più o meno responsabile con cui la cittadinanza lo accoglierà. Diversamente l’intento potrebbe rivelarsi del tutto vano. Speriamo dunque di non dover raccontare di atleti e sportivi incazzati perché magari obbligati dalla nuova viabilità a percorrere qualche metro a piedi, o di dinamicissime mamme vicine ad una crisi di nervi per la stessa ragione. Va detto che ogni piano generale, per sua propria natura, non può essere indifferente nei riguardi di tutti: nella fattispecie ci sarà chi ci “guadagnerà” qualcosa e chi no. Comunque, tanto per tranquillizzare chi già da domenica sera dovesse venire colpito da attacchi di panico, informo la gentile cittadinanza che il signor Celestino Doliana, classe 1913 – 94 anni compiuti – mi ha confidato qualche giorno fa che lui per spostarsi dentro il paese e per raggiungere occasionalmente Stava o Lago percorre ogni giorno a piedi dagli 8 ai 10 chilometri!!! Di fronte alla tacita eloquenza di questo esempio, ogni altro commento mi pare superfluo. Chi vivrà vedrà. Sono convinto comunque che alla fine, in conseguenza di questo provvedimento amministrativo, non saranno molti gli auto-patiti che si butteranno dal ponte.

euro

AH, LA "MACCHINA"!!


Noi italiani, se potessimo, l’automobile ce la porteremmo a letto. La parcheggiamo a cinque centimetri dalla porta, ostruendo il passaggio, con due ruote sul marciapiede, il muso alla soglia. Ma la vedremmo volentieri nell’ingresso, dove già parcheggiamo il motorino, la bicicletta, il gommone e il passeggino dei bambini.
Abbiamo il culto dell’automobile, noi. La “macchina” non è un mezzo di trasporto: la si ama, a volte, più dei figli. La si cura più dei figli. D’inverno la si impacchetta per risparmiarle la pioggia, d’estate le si fa lo shampoo, in autunno la si sottopone al check-up, a primavera le si cambiano le fodere.
C’è un’attrazione verso la “macchina” che rasenta la perversione. Girandoci nel letto, se potessimo trovare la nostra auto invece della moglie, noi italiani tradiremmo di meno, cercheremmo meno avventure. Anche se, dobbiamo dirlo, le tedesche, le giapponesi e perfino le francesi ci piacciono più della Fiat, troppo casalinga.
Al contrario di ciò che succede con la donna che abbiamo sposato, non siamo quasi mai delusi della “macchina” acquistata: come accade con la nostra squadra del cuore quando perde, continuiamo a difenderla, ci appassioniamo e ne vantiamo le qualità anche quando ci rimane in mano il cambio, il finestrino bloccato a metà, la marmitta si stacca e deve essere legata col fil di ferro. Certe auto sono delle vere e proprie cloache: ricettacoli di cicche, giornali vecchi, lattine vuote. Allora si cerca di togliere il puzzo con quegli alberelli colorati, al profumo di vaniglia, di pino silvestre o di pummarola. Entrando l’effetto è micidiale, lo stordimento assicurato. Meno male che, fermi al semaforo rosso, noi italiani con la destra ci scaccoliamo, con la sinistra svuotiamo il portacenere dal finestrino. Gran parte della nostra vita ruota intorno alla “macchina”. Sgraniamo tutti gli occhi per la meraviglia quando apprendiamo che a New York non ce l’ha nessuno. La “macchina” è santa e va parcheggiata davanti alla porta di casa. noi italiani ci faremmo picchiare piuttosto che fare dieci passi o prendere un bus-navetta per raggiungere il parcheggio più vicino. Noi italiani…


Oliviero Toscani – tratto da “Non sono obiettivo”

04/12/07

DELL'IMBECILLITA'


(...) L’intuizione poetica, che tanto spesso anticipa la conoscenza scientifica, ci suggerisce quindi di individuare l’ignavia come il difetto più grave, la caduta più profonda, l’allontanamento più totale da un ideale umano. E mediante il contrasto tra le figure singole, sbalzate a tutto tondo, degli altri peccatori, e lo stuolo innumerevole degli ignavi, non individui ma replicanti confusi in una massa, ci suggerisce un primo carattere dell’Imbecillità: il suo essere un fallimento rispetto al fine della nostra specie, quello di produrre individui capaci di porsi come soggetti attivi di fronte al mondo, pronti a rifarlo almeno un po’, se non a propria immagine e somiglianza, a modo loro. Perciò, ogni essere umano pienamente realizzato, come un’opera d’arte, è un unicum, nel bene come nel male, mentre gl’imbecilli, come gli ignavi, sono uniformi, universalmente ed eternamente uguali sotto la scorza delle innumerevoli maschere di cui rivestono la loro inanità. E per la stessa ragione, mentre i primi sono il prodotto di un lungo e faticoso lavoro artigianale, i secondi si possono purtroppo produrre e replicare facilmente e rapidamente su vasta scala, in quantità e modi industriali. (…)
In primo luogo, va precisato che l’Imbecillità non ha alcuna correlazione con il livello di istruzione o di scolarizzazione o erudizione. Un imbecille può essere (anzi spesso è) almeno mediamente se non altamente scolarizzato, e magari laureato. Perché ciò non accadesse occorrerebbe che la scuola, e soprattutto l'istruzione secondaria e l’università, sviluppassero e misurassero realmente capacità umane rilevanti per la produzione e riproduzione di cultura: cosa che raramente accade. In secondo luogo, l’Imbecillità ha una delle sue radici nella stessa forma di vita della nostra specie, che è quella dell’aggregato, del gruppo, della tribù, della società. Sistemi tutti che, mentre garantiscono la sopravvivenza dei singoli, sviluppano una non minore tendenza a garantire la propria, e a richiedere ai propri membri un grado di adattamento passivo non inferiore all’acquisizione di capacità creativa e critica. Infine, la tendenza di ogni sistema sociale all’auto-conservazione spinge verso il mantenimento di equilibri che si producono spesso in tempi brevi o brevissimi, e quindi sono espressione di rapporti di potere e interessi storicamente determinati e perfino contingenti di qualche gruppo, anziché di istanze emerse nei tempi lunghi in cui si sono affinate le capacità tipiche degli esseri umani in generale. Se perfino in vista di un radicale mutamento rivoluzionario c’è bisogno anche e soprattutto di quelli che un politico ferocemente pragmatico come Lenin chiamava “utili idioti”, a maggior ragione individui perfettamente socializzati, che sono poi i nostri imbecilli, come vedremo, sono necessari al normale funzionamento di una società, per il semplice fatto che essi non possono diventare né pazzi, né disadattati, né innovatori.
L’utilità dell’imbecille in contesti sia di stabilità sia di mutamento, dipende dal fatto che egli si muove solo sulla base di istanze immediatamente emergenti dal suo interno o di spinte provenienti dal mondo circostante; è quindi capace di perseguire i suoi scopi momentanei e contingenti entro i confini del mondo dato, o di condividere senza rielaborazione critica quelli proposti di volta in volta dagli altri, assumendoli come verità indiscutibili e assolute. Di conseguenza, è facilmente controllabile e manipolabile con azioni dall’esterno sia in difesa dello status quo sia a sostegno dell’ultima novità del momento. L’unica alternativa per lui è tra il suo privato momentaneo e urgente e il pubblico della massa che segue acriticamente un capo “carismatico” o semplicemente il “così fan tutti”. (…)


di Piero Paolicchi tratto da "IL FATTORE I"

03/12/07

IL BENE, IL MALE E IL "TERRORISMO"


Il terrorismo rimane un concetto astratto, poiché la comunità internazionale non è riuscita a darne una definizione. È dal 1937, che la Società delle nazioni (Sdn) non riesce ad adottare una convenzione per prevenirlo e reprimerlo per mancanza di un accordo fra gli stati membri. Per la stessa ragione, l'Organizzazione delle nazioni unite (Onu), malgrado gli innumerevoli dibattiti che si sono svolti nel corso dei suoi sessant'anni di esistenza, non ne ha potuto determinare la natura. Più di recente, al momento della sua creazione avvenuta nel 1998, la Corte penale internazionale (Cpi) ha dovuto escludere dalle sue competenze il terrorismo internazionale nonostante fosse deputata a punire un largo spettro di crimini, compresi quelli di genocidio. Il tema ha tuttavia invaso la stampa scritta e audiovisiva; in numerosi stati sono stati instaurati sistemi repressivi col pretesto di resistere a una minaccia considerata mortale. Di rado nella storia dell'editoria ci sono stati tanti libri, dotti e non, dedicati a un fenomeno che ha portato alla «guerra» proclamata dal presidente George W. Bush all'indomani degli attentati dell'11 settembre 2001. Washington ha di che rallegrarsi: moltissimi stati hanno concluso con gli Stati uniti accordi di «cooperazione» che neanche la resistenza al «comunismo internazionale» aveva prodotto a suo tempo. Anzi, l'America dei neoconservatori ha potuto avere dalla sua l'Unione europea e la Russia e concludere con loro, in questo inizio aprile 2007, un'alleanza antiterrorista, anche se, in realtà, si tratta di una convergenza gravida di secondi fini e non di un vero e proprio consenso. Poco tempo fa, negli Stati uniti, un conferenziere doveva evitare di analizzare le cause politiche e sociali della violenza, per paura di essere sospettato di voler giustificare il terrorismo. L'ukase ufficiale imponeva che si considerasse il pianeta minacciato dall'odio immotivato per la democrazia. Politologi e giornalisti evitavano per prudenza di andare controcorrente. Tuttavia, l'ondata di proteste che dilaga, in seguito agli scandali che scuotono l'amministrazione Bush, spazza via progressivamente tabù e preconcetti come testimoniano diverse opere comparse di recente. Esse non giustificano il terrorismo, ma analizzano le cause e suggeriscono rimedi. Autore di diversi libri dedicati ai conflitti mondiali, Matthew Carr prende in contropiede i neoconservatori dimostrando, con il suo libro Unknown soldiers, che il terrorismo non è altro che la violenza al servizio (o al cattivo servizio) della politica, in modo esclusivo o meno. Egli banalizza il fenomeno ricordando gli attentati, gli omicidi, commessi nel XIX secolo in Russia dalle organizzazioni che si rifacevano alla rivoluzione francese del 1789, oppure dagli anarchici delle due sponde dell'Atlantico, nello specifico in Francia, dopo il massacro dei comunardi nel 1870. Nel secolo scorso, la follia omicida infiamma i Balcani (1900-1913), l'Irlanda del nord a partire dal 1919, i paesi colonizzati che si ribellano contro le potenze occupanti. Queste ultime giustificano l'esplosione delle loro sanguinose repressioni demonizzando i combattenti per la libertà. Matthew Carr ricorda che questi «terroristi» sono stati definiti dai loro oppressori banditi, criminali comuni, malfattori, mostri, serpenti, vermi... Un esempio fra i tanti, i mau-mau in Kenya che, negli anni '50 venivano presentati dall'amministrazione e dai coloni britannici come membri di una «setta satanica» mentre il rispettabilissimo New York Times spiegava dottamente la rivolta keniota con «le frustrazioni di un popolo di selvaggi (...) incapace di adattarsi al progresso della civiltà». Le cifre ufficiali indicarono ulteriormente che coloro che erano accusati di essere «assetati di sangue», durante i sette anni della sollevazione, uccisero 32 coloni e 167 membri delle forze dell'ordine di cui 101 africani; per contro, oltre 20.000 mau-mau vennero massacrati dalle forze di sicurezza, e diverse centinaia di migliaia di kenioti vennero feriti, mutilati, cacciati dalle loro case. Carr, che richiama, tra gli altri, il caso algerino, ricorda che tutti i conflitti coloniali si sono conclusi con l'arrivo al potere dei dirigenti «terroristi»: Jomo Kenyatta in Kenya, Nelson Mandela in Sudafrica, Ahmed Ben Bella in Algeria, Menahem Begin in Israele, Anouar El-Sadat in Egitto, per citarne solo alcuni. Per i poteri stabiliti, i terroristi non hanno mai motivazioni legittime; sia le loro frustrazioni che le loro rivendicazioni politiche o sociali non sono degne di essere prese in considerazione (se non con la forza), non essendo il ricorso alla violenza che l'espressione del loro «fanatismo» o della loro «follia». Matthew Carr riporta a questo proposito che, negli anni '70, le autorità della Germania occidentale prelevarono i cervelli dai cadaveri dei membri della Banda Baader-Meinhof per determinare le origini genetiche della loro mentalità criminale. Uno psichiatra tedesco era persino riuscito a «scoprire» una disfunzione patologica in uno degli organi che aveva esaminato... Altre teorie sono state diffuse dagli intellettuali americani di alto rango: Samuel Huntington, docente di scienze politiche all'Università di Harvard, prevede dal '93 un «conflitto di civiltà» tra «l'Occidente» e l'Islam, mentre lo storico Bernard Lewis spiega, dal '64, che il conflitto israelo-arabo è dovuto alla incapacità dell'Islam di adattarsi alla modernità. Non c'è da stupirsi allora che Lewis diventi uno dei mentori più apprezzati dai neoconservatori e dagli ultrasionisti americani. Un'opera che sembra unica nel suo genere contribuisce con forza a demistificare i fantasmi coltivati sulle motivazioni dei terroristi. Dining with terrorists è stato scritto da Phil Rees, celebre giornalista d'inchiesta premiato con decine di riconoscimenti internazionali per i suoi libri, i suoi documentari, i suoi articoli. Per anni, ha percorso il pianeta per «mangiare» con i responsabili delle organizzazioni che praticano la violenza. Un viaggio a tappe forzate che consisteva nell'introdursi, ovvero infiltrarsi nei movimenti clandestini dei più diversi paesi come la Colombia, l'Algeria, i Paesi baschi spagnoli, l'Indonesia, la Cambogia, lo Sri Lanka, l'Afghanistan, il Libano, l'Iran, l'Egitto, l'Irlanda, la Jugoslavia, il Kashmir, il Pakistan, la Palestina. Il risultato di queste inchieste, foto alla mano, è giudicato non a caso «sbalorditivo» da Noam Chomsky. Il ritratto umano dei combattenti che emerge, la forza delle loro convinzioni, spingono a usare altri mezzi dalla forza per aver ragione della loro violenza, per quanto atroce possa apparire. Narratore senza pari, Phil Rees ci fornisce dei resoconti delle sue avventure e disavventure, e ritratti accattivanti dei suoi interlocutori. Nessuno di loro si considera un terrorista, ognuno sostiene di opporre la violenza alla violenza degli oppressori. Quelli che sperano in una vittoria militare sono rari; alcuni sperano di obbligare il nemico a un compromesso, altri si accontentano di diffondere un «messaggio politico». Così, Matthew Carr classifica come azioni di propaganda quelle dei palestinesi negli anni '70, nello specifico i dirottamenti aerei. Per Phil Rees, i palestinesi sono partigiani allo stesso titolo dei sionisti sotto il mandato britannico (1922-1948) e dei francesi sotto l'occupazione nazista. Nel '97, fa la conoscenza di uno dei fondatori di Hamas, un intellettuale laureatosi nelle università americane, docente d'ingegneria all'università islamica di Gaza, autore di diversi libri di tecnologia o politici. Ismail Abou Shanab gli confessa che accetterebbe volentieri gli accordi di Oslo solo se Israele accettasse la creazione di uno stato palestinese degno di questo nome. «Di fronte alle bombe lanciate dai carri armati, ai bombardamenti degli aerei F-16 ai missili degli elicotteri Apache dell'esercito d'occupazione, cosa possiamo fare d'altro se non mandare i nostri figli a farsi ammazzare in Israele», dice tristemente a Rees. Per lui è anche un modo di lanciare un appello disperato all'opinione pubblica mondiale. Abou Shanab, all'età di 47 anni, era rimasto un militante nonostante gli otto anni di prigione che aveva appena trascorso nelle carceri israeliane, due dei quali in isolamento in una minuscola cella sotterranea. Sei anni dopo, nel 2003, mentre guida la macchina, una raffica da un elicottero israeliano lo decapita e fa a pezzi il suo corpo, uno spettacolo a cui assiste, atterrito, Phil Rees guardando per caso il servizio diffuso da un canale di televisione satellitare. Abou Shanab, dopotutto, non è che la centotrentottesima vittima, in due anni, della politica israeliana dei cosiddetti «omicidi mirati», nota il reporter senza altro commento. Avrebbe potuto aggiungere che gli assassini mirati (esecuzioni fuori dalla legge) sono crimini di guerra per le leggi internazionali, mentre Hamas - che è anche e soprattutto un importante partito politico, maggioritario in un parlamento democraticamente eletto - è severamente punito in quanto «organizzazione terrorista» sia dagli Stati uniti che dall'Unione europea, che hanno anche tagliato gli aiuti al governo palestinese all'indomani della vittoria di Hamas nel corso di elezioni peraltro democratiche. Phil Rees non teme di attraversare la Colombia da un capo all'altro, per visitare i rifugi marxisti delle Forze armate rivoluzionarie (Farc) e poi quelli delle milizie controrivoluzionarie, che praticano sia gli uni che gli altri sistematicamente i sequestri e gli omicidi non solo di concittadini sospettati di simpatia per l'uno o l'altro campo, ma anche di stranieri di passaggio. Ne rimane sconvolto, ma ritiene che sia controproducente bollarli con l'appellativo infamante di «terroristi». Per arrivare alla pace, sostiene, si dovrebbe escludere l'ingiuria e tenere in considerazione gli interessi e la posta in gioco delle parti in conflitto. D'altronde, aggiunge citando ex-ambasciatori americani in America latina, la politica di Washington in questo cortile di casa degli Stati uniti sarebbe forse meno «terrorista» (1)? Nei Paesi baschi, Phil Rees non nasconde i crimini commessi dal movimento indipendentista Eta anche se rimprovera al governo di Madrid (e in modo accessorio agli Stati uniti e all'Unione europea) di denunciare questo «terrorismo» senza però impegnarsi in un dialogo serio con quelli che rivendicano la storia, la cultura e l'identità basca. Ricorda che nell'Irlanda del nord, un conflitto vecchio di diversi decenni e che veniva presentato come un conflitto di natura religiosa, quindi irrisolvibile, ha potuto essere risolto grazie, è vero, a lunghi e faticosi negoziati con l'Esercito repubblicano irlandese (Ira). Va in modo completamente diverso per al Qaeda che, in perfetta armonia con il presidente Bush, giudica che lo scontro tra l'Occidente «giudeo-cristiano» e l'islam è di natura esistenziale. Nessuna trattativa, nessun compromesso, nessuna coesistenza pacifica come quella che si poteva stabilire per esempio con «l'impero del male» sovietico, è ipotizzabile nel caso specifico. La guerra santa, il «jihad», di Osama bin Laden è altrettanto intransigente della «crociata» condotta dal presidente Bush dall'attentato dell'11settembre. Come si fa d'altronde a scendere a patti con una nebulosa arroccata nelle montagne afgano-pachistane, senza strutture globali, senza radici nazionali, e che si accontenta di incitare i suoi partigiani alla violenza contro l'impero americano e i suoi accoliti locali? Come trattare con delle cellule militanti disseminate nel mondo che funzionano in modo autonomo come elettroni liberi con motivazioni diverse da un paese all'altro? Le risposte a queste domande e a molte altre sono date da un'opera consacrata ad al Qaeda, senza dubbio una delle più ricche apparse fino a oggi, The looming tower, di Lawrence Wright, che ha appena ottenuto il premio Pulitzer. Lawrence Wright, docente universitario, firma della rivista New Yorker, i cui lavori sono stati premiati a diverse riprese, si basa su informazioni di prima mano, documenti inediti redatti dai dirigenti di al Qaeda, interviste che ha realizzato con 483 attori o testimoni (di cui fornisce l'elenco), che comprendono persone vicino a bin Laden, terroristi pentiti, specialisti dell'islam, ex membri della Cia e dell'Fbi. La sua inchiesta l'ha portato, in cinque anni, in Arabia saudita, in Egitto, in Afghanistan, in Pakistan, in Sudan, nello Yemen ma anche in diversi paesi occidentali. Descrive nei dettagli le origini dell'organizzazione transnazionale, la sua ideologia, le lotte intestine, le illusioni e disillusioni. I ritratti che fornisce dei dirigenti, del loro ambiente sociale e familiare, rivelano i meccanismi psicologici dei loro comportamenti. La personalità di bin Laden, descritta da quelli che lo hanno conosciuto bene, stona: marginale in una famiglia di miliardari, di una modestia estrema, conduce una vita monacale in fondo alle caverne; premuroso verso le sue quattro mogli, due delle quali in possesso di dottorato, una in psicologia dell'età evolutiva, l'altra in linguistica. Padre irreprensibile di una quindicina di bambini; nazionalista saudita prima di diventare globalmente antiamericano, sembra avere capacità intellettuali limitate, da cui l'influenza che esercita su di lui l'egiziano Ayman al-Zawahiri, suo vice e testa pensante di al Qaeda. Il loro credo comune è quello del loro capo teorico, l'ideologo egiziano Sayed Qutb, impiccato sotto il regime di Nasser, secondo il quale «l'uomo bianco degli Stati uniti e d'Europa schiaccia i popoli colonizzati». Il mondo per Sayed Qutb si divide in due campi contrapposti, quello dell'islam e quello della jahiliyyah (periodo preislamico pagano e decadente), con riferimento ai regimi «apostati» sottomessi all'imperialismo. Non è affatto un caso che l'organizzazione transnazionale sia decollata a metà degli anni '90 mentre la maggior parte dei movimenti islamici (nazionali) rinunciavano alla violenza (dopo aver preso atto delle sue conseguenze negative) per integrarsi nella vita politica dei rispettivi paesi. Il baratro fra le sue correnti si manifesta apertamente al momento dell'attentato contro le torri di New York e il Pentagono. La quasi totalità dei movimenti islamici, legali o clandestini, tutte le autorità religiose musulmane, condannarono sia i crimini ciechi dei jihadisti che la loro ideologia, denunciata come contraria agli insegnamenti del Corano. Lo scisma, ampiamente occultato dai media, non impedì all'islamofobia di diffondersi nell'opinione occidentale; questa tende a confondere - complici il vocabolario usato dai media e gli antichi pregiudizi - islam, islamismo, fondamentalismo, jihadismo e terrorismo. La caricatura apparsa in un giornale danese che raffigurava il profeta Maometto con un cappello a forma di bomba è un'eloquente espressione di questo amalgama. I dibattiti legittimi che seguirono intorno al «diritto di criticare l'islam» (2) nascosero la discussione che avrebbe invece dovuto tenersi sulle molteplici cause del terrorismo; sulle frustrazioni e la rabbia suscitate dall'egemonia americana, dai regimi dittatoriali che proibiscono ogni libera espressione, dalla corruzione e dalle ingiustizie sociali, dalla crisi identitaria degli immigrati. Le élite «giudeo-cristiane» sanno bene che l'islam, come tutte le altre religioni, contiene elementi che possono essere strumentalizzati politicamente per giustificare sia il bene che il male.Gli strateghi americani avevano puntualmente predetto che nell'era post-sovietica l'islam avrebbe sostituito il comunismo come minaccia vitale. La dimensione geopolitica dell'avvenimento è analizzata da Adrian Guelke, docente del Centro per lo studio dei conflitti etnici, a Belfast, nel suo libro Terrorism and Global Disorder. Egli sostiene che l'amministrazione americana, seguita da numerosi politologi, abbia torto a considerare gli attentati contro le torri di New York e contro il Pentagono come una svolta nella storia contemporanea. Per lui, è il crollo dell'Unione sovietica che apre la via a una nuova forma di resistenza all'egemonia onnipotente degli Stati uniti, cioè il terrorismo trasnazionale. L'importanza politica degli avvenimenti dell'11 settembre è stata esagerata per giustificare le «guerre» del presidente Bush? Questi, lo ricordiamo, accusò al Qaeda di cercare di «stabilire un impero islamico dalla Spagna all'Indonesia». Gli attentati dell'11 settembre costituirono per i neoconservatori un «regalo divino», che ha consentito la messa in atto del loro programma imperiale: occupazione dell'Afghanistan e dell'Iraq, che doveva precedere quella dell'Iran; rafforzamento della presenza militare in Asia centrale e nel Golfo, messa sotto tutela delle risorse petrolifere, «democratizzazione» o sostituzione dei regimi restii ad accettare il «nuovo ordine internazionale».Il tutto in nome della «guerra contro il terrorismo», planetaria, totale e di durata illimitata, come ha confessato il presidente Bush. Prendendo infine coscienza delle implicazioni negative di questa definizione, il Foreign Office ha, in una circolare diffusa in aprile, raccomandato ai diplomatici britannici di non usarla più. Senza dubbio l'inaudita audacia dei pirati dell'aria, la spaventosa ampiezza del numero delle vittime, l'emozione suscitata attraverso il mondo, hanno contribuito a spingere - almeno all'inizio - la «comunità internazionale» sull'asse scivoloso su cui si erano avviati gli Stati uniti. Le conseguenze, come si sa, sono state catastrofiche. L'implosione dello stato iracheno, l'anarchia che fa il paio con il successo militare dei taliban in Afghanistan, lo scacco subito nei due paesi dall'esercito americano sono solo i risultati più spettacolari dell'avventurismo neoconservatore. Il bilancio reale è molto più pesante. L'amministrazione Bush approfitta della congiuntura per moltiplicare le leggi repressive che ricordano il clima dell'epoca maccartista. Essa avalla il comportamento degli stati polizieschi quando questi reprimono l'opposizione interna o le minoranze oppresse. Agli occhi di Washington, sono terroristi i movimenti che resistono all'egemonia americana, non lo sono quelli che accettano questa egemonia. Il terrorismo di stato è tollerato o meglio incoraggiato se è esercitato negli interessi degli Stati uniti. E questi sono altrettanti fattori che favoriscono i sostenitori della violenza. Gli emuli di al Qaeda (che contava meno di un centinaio di membri attivi dieci anni fa) si sono stabiliti a forza in Iraq, e si sono moltiplicati in numerosi paesi, soprattutto in Africa del nord e in Europa. Si potrebbe concludere, alla fine della lettura delle opere citate qui, che in un mondo unipolare il terrorismo rimane la sola arma di cui dispongono i deboli per non dare tregua ai potenti nei conflitti asimmetrici. Solo un trattamento politico del fenomeno potrebbe attenuarne la portata.

di Eric Rouleau - L.M.D. 08/2007




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